Nell’anno e mezzo di pandemia, lo sport è scomparso dalle nostre vite lasciando che a tonificare corpo e mente fossero soprattutto i divani: prodotti dell’ingegno umano, comodi, ma poco adatti allo scopo. Uno che il divano lo vede da lontano invece è Danilo Callegari: nato nel 1983, professione avventuriero estremo ed esploratore, e poi anche Defender Ambassador di Land Rover. A chiedergli di preciso cosa faccia nella vita, risponde «Opero a livello alto su ambiente aria, terra e acqua, fondendo spesso tutti e tre gli elementi nelle mie avventure», ma così non rende l’idea.
Nuotereste nell’Oceano Indiano – con gli squali che vi vedono come un all you can eat – per 50 km e 23 ore, da soli, senza fermarvi mai? Per poi fare una maratona al giorno, per 27 giorni di fila, e a quel punto scalare in solitaria il Kilimanjaro? Progettereste di scalare le sette vette più alte dei sette continenti del pianeta senza ossigeno? Vi lancereste da 5mila metri col paracadute in Antartide – temperatura: circa -50° – per poi scalare una montagna? Neanche per idea, al massimo scalereste la rampa del garage di casa, come me. Sembra lontana anni luce dalle nostre di vite, la vita di uno come Danilo Callegari. E lo è: però ha anche qualcosa da insegnarci di pratico sull’inseguire un sogno, sul modo giusto di avere paura, sul vivere in maniera intelligente i sacrifici da fare per arrivare a qualcosa. E soprattutto, sul senso dell’esplorazione: perché in un mondo dove c’è Google Earth – e c’è da vent’anni – che cos’altro resta da scoprire? «C’è chi dice che è stato tutto esplorato, che tutto è stato visto, che si conosce tutto: sì, però è stato visto e conosciuto da altri. A me non bastano Google né i racconti o le esperienze altrui. Il fascino di arrivare dove nessun altro è stato prima, rimane qualcosa di incredibile: durante la mia avventura in Antartide del 2018 l’ho fatto e mi ha lasciato qualcosa di forte».
Quella che Callegari descrive modestamente come “l’avventura in Antartide” era: sci ai piedi, trainare una slitta da 160 kg per 1.300 km, arrivare al Polo Sud Geografico, salire su un aereo, arrivare a quota 5.000 metri, paracadutarsi, atterrare e scalare la montagna più alta dell’Antartide, il Monte Vinson (4.897 metri). In solitaria, ça va sans dire. Ma perché proprio da solo? «Fare tutto in solitaria – soprattutto se parliamo di alpinismo – rende per certi versi le cose più difficili e più pericolose, mentre per altri no: perché se il tuo compagno ha un problema, a quel punto ce l’hai anche tu. In solitaria invece c’è qualcosa di unico, di importante, che nient’altro può darti: cavartela da solo in un passaggio particolarmente difficile, in un giorno più duro degli altri, ti fa crescere interiormente e in termini di coscienza a un livello enorme, indescrivibile. In quel momento ti senti solo, ma non nel senso negativo del termine, nel senso che hai la consapevolezza che il tuo culo è solo tuo, e te lo stai giocando solo tu. È la maggior forma di libertà, una libertà assoluta, avere davvero in mano la propria vita».
Danilo Callegari l’ha fatto spesso e volentieri, senza lasciare nulla al caso, preparando corpo e mente allo stesso modo, con una vita di allenamenti e rinunce, perché «una vita senza rinunce è una vita senza senso» spiega, a patto che l’atteggiamento mentale con cui le si fanno queste rinunce sia sano: «Per me parlare di sacrifici ha poco senso, malgrado siano impegnativi, perché sto cercando di coronare un sogno; e quel sogno è talmente forte che do poco o nessun peso alla fatica per raggiungerlo». All’atto pratico c’è qualcosa che ti pesa di più? «Mantenere i rapporti umani, per esempio: inevitabilmente sto via mesi quando sono in spedizione, sono intrattabile prima di partire, quando torno poi sono in giro per le interviste. Quando sono in allenamento invece un giorno sono da una parte, poi vado a paracadutarmi da un’altra, insomma, sono sempre in giro, ma se davvero mi pesasse, cambierei vita. E poi ci sono le rinunce alimentari, a me piace mangiare e bere bene, e invece no, niente, magari per anni».
Quello che Callegari chiama sogno, per noi magari sono obiettivi più ragionevoli: perdere qualche chilo, smettere di fumare, prendere la bici invece dei mezzi o della macchina. Tutte cose giuste, per le quali serve un elemento difficile da estrarre in natura, la forza di volontà. Danilo Callegari ne ha probabilmente un giacimento inesauribile, perché, per esempio, odiava nuotare e non gli piace neanche adesso, il nuoto resta un mezzo per raggiungere un fine: «Mi dicono: “Hai nuotato 50 km nell’oceano, sei un nuotatore?” No. Fino a un anno e mezzo prima dell’impresa nuotavo dieci vasche all’anno: sono passato a nuotarne 600/700 al giorno, sei giorni su sette, per un anno. Non è stato facile: ricordo che avevo una Defender vecchia, e non so quante volte arrivavo fuori dalla piscina, mi fermavo al parcheggio, e mi veniva da piangere. Non volevo entrare in acqua, perché non ne potevo più, però sono andato avanti. Quello ha portato a far sì che io fisicamente, non mentalmente, potessi arrivare forse pronto a tentare 50 km in oceano in 23 ore consecutive». Forse possiamo farcela anche noi ad alzarci dal divano.
C’è infine un ultimo elemento poco raccontato tra chi compie imprese come quelle di Callegari: la paura. «Io ho sempre paura, è la paura che mi fa partire. È la paura che mi fa tentare cose impossibili. La paura ti permette di rimanere vigile, attento, non avere paura è da stupidi. Tu non puoi dire “Nuoto con gli squali nell’oceano e non ho paura”, perché mentre lo fai hai una paura ancestrale, non puoi non averla. La paura però porta a godere del giochetto mentale: se controlli la paura controlli te stesso». La differenza è tra paura e panico: «Esatto: che strade può prendere la paura quando non la controlli più? O vai dritto bello tranquillo – e lì rischi tantissimo, perché non vedi i pericoli oggettivi – oppure vai nel panico: il panico è la perdita di controllo della paura. Se io avessi vissuto anche solo una situazione di perdita della paura, non farei quello che faccio. Sarebbe un suicidio».