Gli Europei hanno rimesso la tattica al centro di tutto

La qualità dei giocatori fa e farà sempre la differenza, ma le sconfitte di Francia e Portogallo ci spiegano che il talento, da solo, può non bastare. E che il calcio è un gioco complesso, soprattutto a certi livelli.

Da molti anni, ormai, i grandi tornei estivi per Nazionali non determinano più le tendenze tattiche dominanti. Sono lontani i tempi in cui il futebol bailado, il Calcio Totale o la Zona Mista si legittimavano in maniera definitiva grazie alle partite del Brasile, dell’Olanda e dell’Italia: oggi i modelli più innovativi nascono e si affermano nell’ambito delle competizioni per club, di un calendario che magari sarà sempre più fitto e fagocitante, ma è anche più divertente e alla portata di tutti, anche grazie a media e strumenti tecnologici all’avanguardia. In un contesto del genere, il calcio delle Nazionali è ancora molto emozionante e coinvolgente, ma dal punto di vista delle strategie di gioco il rapporto si è invertito: gli Europei e i Mondiali sono diventati una vetrina, se non addirittura una conseguenza, di quello che è già successo, di quello che le migliori squadre del mondo hanno già inventato, testato sui campi delle leghe più importanti, della Champions e dell’Europa League. 

Ora che siamo nella fase più calda di Euro 2020, questa sensazione si percepisce in maniera ancora più netta, ancora più decisa rispetto al passato. Certo, le vittorie in serie della Spagna tra il 2008 e il 2012 e il successivo trionfo iridato della Germania (nel 2014) sono stati gli apici di due progetti identitari e organici, sviluppati grazie agli input delle Federazioni, al contributo di grandi squadre di club (Barcellona e Bayern Monaco), infine esplosi grazie a una generazione di giocatori e allenatori in grado di far combaciare programmazione, tattica e realtà, di chiudere il cerchio del successo perfetto. Poi sono arrivati i trionfi un po’ rétro di Portogallo e Francia, due Nazionali edificate partendo dal talento individuale più che da un’idea tattica di riferimento, assemblate secondo il principio per cui l’allenatore che ha i migliori giocatori, in fondo, deve solo trovare la formula più equilibrata e quindi meno rischiosa per farli convivere, per esaltarli, ed è così che si materializza la vittoria. Come detto, però, Euro 2020 ha cancellato questa parentesi storica, rimettendo la tattica e la complessità al centro di tutto.

In un articolo pubblicato sul Guardian al termine della fase a gironi degli Europei, Jonathan Wilson ha scritto: «Stiamo assistendo a una competizione che ha offerto un segnale chiaro: se gli ultimi successi di Francia e Portogallo avevano mostrato come una certa idea di difesa bassa e posizionale fosse efficace per ottenere buoni risultati in campo internazionale, ora sappiamo che il calcio reattivo, il calcio senza rischi, non è l’unica strada per la vittoria». Wilson, nella sua analisi, è partito dal presupposto che «grazie alle loro idee, Belgio, Danimarca, Spagna e soprattutto Italia hanno dimostrato che il gioco delle Nazionali può andare oltre la paura di perdere». E non aveva visto ancora cosa sarebbe successo negli ottavi di finale.

Il nocciolo del dibattito non sta nella supremazia ontologica di uno stile di gioco in particolare, quanto nel principio che ha portato alle scelte strategiche compiute dagli allenatori. La Francia e il Portogallo, per esempio, non erano – e non sono – due squadre rinunciatarie, puramente difensive. Rispetto ad altri commissari tecnici, però, Deschamps e Fernando Santos hanno deciso di fare dei compromessi, di appiattirsi e quindi di speculare sul talento dei loro giocatori: Deschamps ha inserito Benzema accanto a Griezmann e Mbappé, così ha sconfessato Giroud e l’idea di calcio iper-verticale – fatto di difesa compatta, ma anche di sponde sistemiche, di ripartenze veloci in spazi aperti – che aveva portato al trionfo ai Mondiali in Russia, proprio perché aveva offerto a Mbappé e Griezmann il contesto per esprimersi al meglio; Fernando Santos ha cercato in tutti i modi di costruire un sistema in cui far convivere Ronaldo e gli altri talenti offensivi del suo Portogallo (Bernardo Silva, Bruno Fernandes, João Felix, Diogo Jota), ma si è rivelata un’utopia inattuabile, perché un attacco del genere era impossibile da bilanciare se non con Danilo e William Carvalho a centrocampo, cioè con due giocatori che non erano in grado di far progredire la manovra in maniera fluida, ordinata; il ct del Portogallo ha provato a correggere la sua squadra reinserendo Moutinho e Renato Sanches, ma a quel punto la Seleçao aveva smarrito tutti i suoi riferimenti, e infatti è stata battuta – pur giocando una partita più che dignitosa – dal Belgio. Ovvero, da una Nazionale che, almeno inizialmente, Martínez aveva immaginato e disegnato con Ferreira Carrasco esterno a tutta fascia insieme a De Bruyne, Hazard, Lukaku e forse anche Mertens. Nel corso degli Europei, però, il tecnico spagnolo ha ripiegato su un 3-4-2-1 decisamente più equilibrato, con Thorgen Hazard e Meunier sulle fasce, e due trequartisti alle spalle di Lukaku.

L’Inghilterra ha vissuto un’evoluzione simile a quella del Belgio: nella prima partita, contro la Croazia, Southgate ha schierato Mount, Foden, Sterling e Kane, tutti insieme, davanti alla difesa a quattro e al doble pivote; poi però il ct inglese si è accorto che alcuni di questi giocatori non riuscivano a rendere al meglio, rendevano disfunzionale il sistema, e così agli ottavi di finale ha presentato una squadra con con tre difensori centrali, due terzini puri come Trippier e Shaw negli slot di esterni a tutta fascia, e poi Saka e Sterling a supporto di Kane. La scelta di Southgate ha pagato, perché non ha permesso alla Germania – una Nazionale che, a sua volta, pratica un calcio profondamente identitario – di esprimere le sue qualità migliori, cioè la forza dei laterali Kimmich e Gossens e le connessioni interne-esterne tra Müller, Havertz e Timo Werner. Certo, i gol che hanno fatto la differenza sono arrivati dopo l’ingresso di Jack Grealish, un giocatore di grande qualità ma tatticamente sovversivo, solo che il punto è proprio questo: costruire una Nazionale solo accumulando il talento, senza creare dei meccanismi per innescarlo, è una strategia che paga sempre meno. Anche perché l’avanzamento tattico del gioco ne ha aumentato la complessità: una squadra contemporanea che ambisce a vincere, a qualsiasi livello, deve essere in grado di difendere e attaccare in maniera strutturata, deve conoscere e saper applicare un piano di gioco in tutti i momenti della partita. Non può più contare solo sui migliori ingredienti-base, ovvero sulla qualità dei calciatori, ma anche sulla possibilità e – soprattutto – sulla capacità di mescolarli bene, di creare delle connessioni che siano coerenti, che vadano al di là dell’intuizione e della condizione del momento, che siano frutto di una pianificazione e di un lavoro quotidiano di ricerca e sviluppo.

L’Italia di Mancini è una delle due squadre (insieme all’Inghilterra) che ha concluso la prima fase degli Europei senza subire gol; alla vigilia dei quarti di finale contro il Belgio, gli Azzurri hanno la miglior differenza reti del torneo, +8, frutto di nove gol fatti e uno solo subito, negli ottavi contro l’Austria (Frank Augstein/POOL/AFP)

Gli Europei 2020 non stanno premiando le squadre più offensive o più coraggiose, piuttosto quelle che hanno un sistema riconoscibile, con un’identità più chiara e più definita; poi, quando la sfida tattica finisce in parità – come nel caso di Italia-Austria e Inghilterra-Germania – il talento dei singoli, quello dei vari Chiesa, Sterling, Grealish, fa ancora la differenza. È come se, a un certo punto della competizione, si fosse invertito un altro rapporto storico: al netto di episodi singoli, incidentali e più o meno favorevoli, l’organizzazione è riuscita a compensare lo scarto – anche ampio, a volte – di pura qualità. Certo, il fatto che in certi tornei si giochi su 90 minuti più supplementari e rigori, non su 180′ (come nelle coppe europee) o su un intero campionato, contribuisce ad assottigliare certe distanze. Eppure la tendenza è chiara: nei quarti di finale, mancano alcune delle rappresentative più talentuose ma ci sono due squadre di grande qualità nel possesso palla, una tendenzialmente verticale (l’Italia) e una decisamente orizzontale (la Spagna); ci sono due Nazionali che difendono a tre e cercano di risalire il campo con lo strumento del gioco di posizione, alternando lo sfruttamento delle fasce e dei mezzi spazi, ovvero il Belgio e l’Inghilterra; c’è la Danimarca, che pratica un pressing intensissimo, ossessivo, ma sa anche attaccare in maniera sofisticata; e poi ci sono Svizzera, Ucraina e Repubblica Ceca, tre squadre-sorpresa con un’anima difensiva e una buona attitudine nelle ripartenze veloci, soprattutto sulle fasce.

Insomma c’è tutto uno spettro, anzi uno specchio che riflette e rielabora teorie e pratiche del calcio di club, anche nel calcio delle Nazionali. C’è un gruppo di ct, o meglio di allenatori, che ripudia l’idea per cui la tattica sia inevitabilmente meno importante della tecnica. Non è detto che sia così, che lo sia sempre, perché in fondo è un discorso di convivenza e convenienza: una squadra di grande talento senza una buona organizzazione rende in maniera semplice, cioè per la somma dei valori che schiera in campo; una squadra di grande talento e che è anche organizzata rende in maniera complessa, per la somma dei valori che schiera in campo più un surplus derivante dalla tattica. Una differenza semplice, evidente, anzi lapalissiana. Eppure, rivoluzionaria.