Le mille storie di Wimbledon

Dopo un anno di stop, è ripartito il torneo più prestigioso del mondo. E non è solo una questione di tennis e fragole con panna, ma anche di vita vissuta, di magia, di letteratura.

Non ho mica capito cos’è successo. Credo non lo abbia capito nessuno, però, e nel tempo trascorso ci si è occupati – incomprensibilmente – d’altro. Certo sembrava tutto perfetto. Secondo l’orologio svizzero a bordocampo – quello che non segna il tempo, segna la Storia – eravamo in lieve ritardo sull’ora in cui, secondo la grande lirica del Novecento, si mata il toro: ma luce e atmosfera erano quelle. L’ansia della tribuna anche. Per tentare di placarla guardavamo tutti il tabellone, dove c’era scritto bello grosso 2-2, 8-7, 40/15. Significava due Championship Points, se leggevamo bene. Altra occhiata al tabellone: leggevamo bene. Il punto del 30/15 e quello del 40/15 erano stati due ace di prima, fenomenali. Credo per quello fossimo ancora tutti in piedi, nella stragrande maggioranza con l’indice teso. Come a dire, a chi sapevamo noi, e nel caso non lo sapesse: manca un punto, uno. Sottinteso: METTI UNA PRIMA.

La prima chi sapevamo noi non l’ha messa. Ha messo una seconda così così, e subito dopo ha sparacchiato fuori, di trenta centimetri, un dritto in diagonale. E va bene, non importa, ci siamo detti, ce n’è un altro. METTI LA PRIMA, abbiamo pensato di nuovo, con una lieve, ma significativa variante. L’ha messa. SÌ MA NON COSÌ PIANO, abbiamo urlato, senza urlare, appena sentito il suono sulle corde. Non deve averci ascoltato, però, o non so cosa gli è preso. L’abbiamo visto fare un paio di passi incerti verso rete. DOVE VAIIIII? è il grido che ci si è strozzato in gola prima ancora di veder partire il passante. Cosa sia successo da quel momento in poi, è il mistero cui alludevo più sopra. L’altro ha vinto Wimbledon 19, credo, ma mai la frase di Kipling scolpita all’ingresso del Centre Court su quei due impostori che si chiamano Vittoria e Sconfitta è suonata più vera. E comunque, era già sceso il buio. Sul tennis, e poco dopo anche sulla sua disordinata appendice – il mondo esterno. Ora pare stia tornando la luce, e stando ai programmi Wimbledon 21 si giocherà: con il 25% del pubblico, e un conseguente, presumibile effetto inflattivo sul costo dei biglietti. È un elemento su cui si ritiene elegante sorvolare, ma fa parte del fascino dei Championships. Non il costo del biglietto in sé – le reazioni che ingenera.

Nel 2018, sapendo già a marzo di non poter contare sulle consuete agevolazioni, ho messo su l’aria più mondana che riesco a simulare – che lo è quanto basta, niente false modestie – e ho chiesto a un cameriere russo molto sveglio del mio solito albergo di Londra se per i clienti riuscissero a procurare qualche biglietto. Tipo per semi e finale, ho chiesto sparando subito al bersaglio grosso.
«Ma certo, Sir», mi ha risposto Evgenij, «fra l’altro quest’anno non sono neanche troppo cari. Sir».
«Ah no? E quanto, per curiosità?», ho chiesto col distacco di quelli che davanti alla Grande Muraglia dicono alla guida, chissà quanti anni per tirarla su, eh?
«Per la semi, settemila. Per la finale si va un po’ su».
«Ah», ho risposto come se il discorso fosse, essenzialmente, una gran seccatura. «Pensavo di più. Per me va bene, Evgenij, chiamo l’amico che viene con me e ti faccio sapere».
Il bello di questo siparietto non è il suo lato De Curtis, inevitabile date le due etnie in gioco: è che era un siparietto fino a un certo punto. Per un attimo, temo infatti di aver pensato quello che diceva mia nonna, in circostanze analoghe: cosa vuoi che sia, se uno ne ha ottomila, gliene avanzano ancora mille. E, un attimo dopo, temo anche di avere controllato sull’home banking come stavo messo.

Sono forme di demenza abbastanza gravi, naturalmente, ma servono a spiegare, se non cos’è Wimbledon, cosa diventa per chi un po’ lo ha frequentato. Il tennis come lo si pensa abitualmente – quello del ranking, dei tabelloni, dei titoli – c’entra, ma non quanto uno crederebbe. C’entra quello che succede alla testa fra il momento in cui passi il cancello, e un portiere gallonato ti augura una buona giornata di torneo, e quello in cui al tramonto, avviandoti verso la stazione dell’underground, attraversi enormi prati ormai deserti e grandi stagni. Le fragole e la panna, il Pimm’s, le ortensie di Harrod’s anche, hanno un ruolo minore: rispetto al suono dei colpi in sottofondo, intendo; alle figure bianche che vedi danzare, nei primi giorni, su tutti i campi, senza neanche sapere, o volere sapere, chi siano; e alla luce radente sull’erba dei campi di allenamento, che vedi anche da un metro, ma non puoi toccare. È un fatto, o gli assomiglia: l’All England ha qualcosa che altrove semplicemente è inutile cercare. E dà, qualcosa: ad esempio, la sensazione che tutto – il tennis, e il non poco che lo circonda – sia cominciato qui. E qui abbia, ancora oggi e nonostante tutto, un senso diverso.

Chi ci ha giocato naturalmente lo sa benissimo, che Wimbledon prima di ogni altra cosa è una regione della psiche. Little Mo Connolly, che il torneo lo aveva vinto tre volte quasi da bambina, da adulta raccontava di sognare il Centre Court quasi tutte le notti. Ma non i match, o le avversarie: lo stadio, la notte, vuoto. La stessa scena che si era trovata davanti Alice Marble, una leggendaria giocatrice che era anche una ragazza molto diversa dalle altre. La sua prima sera all’All England, qualcuno le aveva detto che era il momento giusto per dare un’occhiata al Centrale, su cui di lì a poco avrebbe giocato. L’avevano accompagnata, e lasciata sola per un po’. Alice aveva subito sentito qualcosa di strano, senza riuscire a spiegare neppure a se stessa di cosa si trattasse. Qualche minuto dopo, dal buio era uscito un signore – il direttore del torneo.
«Le sente?», le aveva chiesto.
«Sì, ma cosa sono?».
«Oh, ecco», aveva detto lui, con un sorriso. «Le voci di tutti quelli che hanno giocato qui».

A chi è stato a Wimbledon, questo scambio di battute risulta naturale come un aggiornamento sul meteo dell’ora successiva, anche se è difficile spiegare perché. E di fatto, nonostante le decine di libri e le migliaia di articoli scritti sul torneo, nessuno ci ha veramente provato. Tranne una strana coppia, molti anni fa. Nel 1970, dopo aver scritto Livelli di gioco, John McPhee va a Wimbledon per lavorare al ritratto del suo regista occulto, il giardiniere capo Robert Twynam. E prende ovviamente appunti, non solo su Twynam. Ora, una qualità la riconoscono tutti, a McPhee: a libro chiuso, o articolo finito, guardare l’argomento che ha trattato con occhi diversi dai suoi diventa un’impresa quasi impossibile. Può sembrare un’affermazione troppo categorica, ma ha almeno una prova: la reazione, a quegli appunti, di Alfred Eisenstaedt. Per le solite oscillazioni del gusto, Eisenstaedt è al momento un nome da cercare su Wikipedia, ma per gran parte del secolo scorso, che ha vissuto quasi per intero, è stato il volto più elegante della fotografia, quello di Life. Bene. A inizio carriera – prima del cameriere in pattini a St. Moritz, di Goebbels che si volta inviperito verso l’obiettivo, di Caroline che nello Studio Ovale fa le linguacce a JFK – Eisenstaedt aveva fotografato proprio il tennis, tanto che nel 1927 la sua prima immagine pubblicata, su Der Welt Spiegel, era stata un’istantanea di un’anonima giocatrice al servizio. Così quarantatré anni dopo, leggendo in manoscritto le note di McPhee, ha l’idea di trasformarle in un libro sul tennis. Usando quelle note di Twynam come guida, e fotografando, a un anno di distanza, quello che McPhee aveva raccontato per iscritto: l’All England durante i Championships.

Roger Federer è il recordman di vittorie sui campi di Wimbledon: ha conquistato per otto volte il torneo, la prima nel 2003, l’ultima nel 2017 (Alex Livesey/Getty Images)

Il risultato – Wimbledon: a Celebration – è un oggetto singolare, da ogni punto di vista. Lungo un percorso contrario a quello abituale – solitamente è lo scrittore ad aggiungere qualche testo, nella gran parte dei casi fuori fuoco, a commento di fotografie preesistenti – Eisenstaedt tenta di rifare con la macchina quello che McPhee aveva fatto con la penna, e per farlo rinuncia ai ferri del suo mestiere – l’inquadratura, prima di tutto, e la patina. Ne viene fuori un racconto per immagini, in bianco e nero e a colori, che forse nessuno gli attribuirebbe. Sono foto frammentarie, spezzate, a volte grezze, quasi mosse: straordinarie di per sé, e ancora di più se accostate al libro che intervallano, quello di McPhee.

McPhee comincia come aveva cominciato Livelli di gioco, con un uomo al servizio. Solo che stavolta a servire non è un ragazzo nero che si affaccia alla gloria, come Arthur Ashe, ma un vecchio e leggendario gigante biondo che il torneo lo ha vinto l’ultima volta nel 1957, e che adesso, a 36 anni, combatte un faticoso primo turno sul campo 5: Lew Hoad. È il primo vetrino di caleidoscopio che non smetterà di muoversi fino all’ultima parola, senza fortunatamente mai comporre un’immagine fissa. Su un altro campo è appena entrato Stan Smith, che come sempre si è subito diretto a depositare sul seggiolone dell’arbitro il portafogli, che per nessuna ragione lascia nei notoriamente mal frequentati spogliatoi dell’All England. Sul Campo 1 Rod Laver, quattro volte vincitore del torneo e testa di serie numero 1, sta dando una sveglia da manuale a un australiano, John Alexander, che dopo aver raccolto quattro giochi in tre set si lascia andare a una di quelle dichiarazioni fatte apposta per segnare in negativo una carriera: «Credo di avere imparato molto, oggi, sulle mie possibilità. Ho fatto passi avanti. Magari non si vedranno per molto tempo, ma li ho fatti».

Stacco sulla Player’s Room, dove un dimenticatissimo Roger Taylor – che incontreremo fra poco – gira lo sguardo sui campi oltre le vetrate, e si abbandona al suo primo, ma non ultimo commento di un certo senso: «Quando sei qui, ti rendi improvvisamente conto che tutto questo è importantissimo». Via negli spogliatoi maschili, dove i giocatori, immersi nelle vasche di ghiaccio, «galleggiano nella vittoria, o marinano nella sconfitta». Al momento Stan Smith galleggia, però si chiede come mai abbia ceduto un set a Jaime Fillol, finché non gli sembra di capirlo: è stata l’edera sulla recinzione, mossa dal vento, a distrarlo. Fuori dallo spogliatoio, Charlie Pasarell scende da una Rolls del torneo – uno dei pochi a non vergognarsi di usarla, essendoci praticamente cresciuto dentro, a Portorico. Passa Ashe, in total look afro, con una ragazza a braccetto per parte, e chiede a Pasarell se vuole unirsi, per la serata. Qualcuno intanto chiede a Ashe, noto campione della causa, se si unirà alla protesta contro l’apartheid. «E perché mai», risponde Ashe, «non sono mica sudafricano». Gli altri colleghi, se non stanno giocando, si occupano però di faccende più serie. Siamo agli albori del professionismo, e nell’attesa di capire come funzionerà, ciascuno si arrangia per conto suo. Rosewall, uno dei più attenti a questioni del genere, si sta facendo sistemare sulla maglietta, fino a quel momento immacolata, una B e una P. Non è la sigla di una startup dell’abbigliamento sportivo, bensì forse la prima sponsorizzazione ufficiale di cui si abbia notizia. Le altre sono ancora occulte. Gli spettatori più ingenui, ad esempio, possono pensare che Laver giochi con una Dunlop, una Donnay o una Chemold a seconda dell’umore. No, lo fa perché ha tre contatti diversi a seconda dei continenti, e infatti qui usa una Dunlop, solo dipinta in modo che sembri una Donnay.

Oltre che a curiosi funambolismi contrattuali («In Europa sì», risponde Pasarell a uno che gli domanda se gli piacciano le adidas), il debutto dei marchi globali ingenera una certa euforia anche nei meno inclini, come in teoria dovrebbero essere Metreveli e la Morozova: eppure, quando non giocano, i due silenziosi e impenetrabili rappresentanti del tennis sovietico puoi essere sicuro di trovarli nel negozio di Fred Perry in città, dove si portano via qualsiasi capo, purché di colore rosso. Chi allo shopping preferisce la spesa al mercato è Laver, ma Laver fa tutto a modo suo: si cucina la cena, poi si mette davanti a un western, e con un serramanico taglia dall’impugnatura, cui ha tolto il cuoio, il legno che ritiene in eccesso. Poi va a dormire, mette la sveglia, e la mattina dopo guida una macchina in affitto fino a Wimbledon. Dove in campo intanto c’è Graebener, il coprotagonista di Ashe in Livelli di gioco. Nei due anni trascorsi da quel match si è messo le lenti a contatto e fatto crescere i capelli – prima sembrava Clark Kent, ora ricorda il Principe Valiant. Al momento però sta prendendo a male parole un giudice di linea che ha appena chiamato un out inverosimile, ma va capito: è infatti «un settantaduenne arrivato fin qui da una vita di chiamate simili fra il Somerset, la Cornovaglia e il Kent».

Martina Navratilova ha vinto il torneo femminile per nove volte tra il 1978 e il 1990: è un record assoluto per Wimbledon (Steve Powell /Allsport)

Graebner non è l’unico di cattivo umore. Nella Player’s Room, Roger Taylor riflette in anticipo sull’umiliante sconfitta che gli sta per toccare, negli ottavi, contro Laver. Ha fatto tutto il possibile – compreso allenarsi con McManus, un giocatorino medio alto, rosso e mancino come Laver, cui assomiglia anche in maniera impressionante – ma sa che non servirà. Non prendertela così, gli sta dicendo un amico, dopotutto cosa potranno mai dire di te, che hai perso contro Laver, no? «Non hai capito», risponde Taylor con una delle grandi battute di sempre, sul torneo, «se perdi qui non hai perso contro Laver. Se perdi qui, hai perso». In campo, poco dopo, le cose vanno diversamente. A perdere, con clamore, è Laver. «Non so cos’è successo», dichiara poco dopo. «Avevo troppe cose in testa. Non mi entrava il servizio, e quando non entra il servizio ti metti a pensare al servizio, mentre dovresti pensare a una cosa sola, la prima volée». Una pausa. «Non è neanche questo, comunque. È che a un certo punto mi sono chiesto: ma tu, questo torneo, quante volte lo vuoi vincere?». Già. E chi sappiamo noi, quante volte lo vorrebbe vincere? E noi, quante volte vorremmo che lo vincesse? Lasciamo pure le domande in sospeso, insieme alla quasi certezza – scongiuro – che chi sappiamo noi farà più o meno la fine di Hoad.

Ma insomma Wimbledon ricomincia, e per una volta accontentiamoci delle buone notizie. Sarà un torneo singolarmente indeciso – a parte il cosiddetto campione in carica, che non si vede come possa inciampare, in finale può arrivare chiunque – quindi, sulla carta, piuttosto avvincente. Sarà comunque un torneo strano, con un po’ di spettatori, ma senza folla. In altre parole, a fine giugno non ricomincia Wimbledon, ricomincia il tennis, e non è detto non abbia un volto diverso. Quindi andate, colleghi. Spegnete per qualche ora i social, che vediamo anche da soli, e andate. Andate dove vi pare – in giro per i campi, negli spogliatoi, nella Player’s Room – ma andate. E riportateci quello di cui abbiamo un disperato bisogno, e che se non trovate a Wimbledon, non so dove altro potreste cercare: storie.

Da Undici n° 38