È il 5 luglio 2014, esattamente sette anni fa. Quando sono passati pochi minuti dal fischio finale di Argentina-Belgio 1-0, match dei quarti di finale della Coppa del Mondo, il ct belga Marc Wilmots è in sala stampa e sta parlando con i giornalisti. A un certo punto, dice che la sconfitta della sua squadra «è dovuta a un piccolo errore: eravamo in possesso di palla, Kompany ha sbagliato un passaggio e loro sono andati a fare gol. Siamo incredibilmente dispiaciuti per aver perso in questo modo, nello spogliatoio si respira un’enorme delusione. Ma siamo la squadra più giovane del torneo e dobbiamo trarre un insegnamento da tutto questo». Quel giorno il Belgio era effettivamente una squadra molto giovane, e di grandissima prospettiva: c’erano Courtois (22 anni) in porta, Alderweireld (25), e Vertonghen (27) in difesa, Witsel (25) a centrocampo, Hazard (23) e De Bruyne (22) sulla trequarti. Dalla panchina, subentrarono Mertens (27), Lukaku (21) e Chadli (24).
Agli Europei 2020, slittati al 2021 causa pandemia, il Belgio ha perso ancora ai quarti di finale, stavolta contro l’Italia, ha perso ancora dopo aver subito il primo gol per un’uscita sbagliata dalla difesa; in campo c’erano ancora Courtois, Alderweireld, Vertonghen, Witsel, De Bruyne e Lukaku; dalla panchina sono subentrati ancora Mertens e Chadli, e ovviamente avrebbe giocato ancora Eden Hazard, se solo fosse stato disponibile. Sembra che non sia cambiato nulla, ma ovviamente non è così: negli ultimi sette anni, infatti, Courtois, De Bruyne, Eden Hazard e Lukaku hanno confermato tutto il loro potenziale, sono diventati dei fuoriclasse di livello internazionale; Mertens e Witsel si sono affermati ad altissimi livelli nel Napoli e nel Borussia Dortmund, due club medio-borghesi che magari hanno vinto poco, ma sono apprezzatissimi in tutta Europa; Wilmots è stato sostituito da Roberto Martínez, un allenatore decisamente più dotato; sono sbocciati altri giocatori di buona qualità come Meunier, Thorgen Hazard, Tielemans, e ora sta sorgendo la stella di Jérémy Doku. Insomma, l’unica cosa che non si è evoluta sono i risultati della Nazionale: il Belgio 2021, così come quello del 2014 e del 2016 e del 2018, si è fermato a pochi passi dalla gloria. E la sensazione è che la Golden Generation sia vittima di un sortilegio, che un’incredibile nidiata di talenti sia condannata a rimanere incompiuta, senza allori. Ma in un caso del genere si può davvero parlare di fallimento?
In realtà è profondamente sbagliato, forse anche ingiusto, pensare che tutte le sconfitte patite in questi anni dal Belgio siano uguali tra loro. Anche accostare l’eliminazione del 2014 e quella del 2021 è un bieco trucco narrativo: sì, forse tra la partita contro del 2014 l’Argentina e quella contro l’Italia di pochi giorni fa ci saranno alcune analogie, ma ci sono anche delle enormi differenze. E forse il vero problema è proprio questo: se il pronostico della sfida contro la Selección era sostanzialmente alla pari, anzi forse era un po’ sbilanciato dalla parte di Messi, Di María e Higuaín, quello relativo a Belgio-Italia era invece favorevole alla squadra di Martínez. E lo stesso discorso vale per le gare decisive di Euro 2016 e dei Mondiali del 2018: lo 0-1 subito dalla Francia nella semifinale in Russia ha avuto una genesi e un impatto inevitabilmente diversi rispetto all’incredibile 3-1 con cui il Galles (!) riuscì a battere i Diavoli Rossi nel match dei quarti di finale degli Europei giocato a Lille, a una manciata di chilometri da Mouscron, da Gand, da Bruxelles, quando sembrava che la strada verso la finale fosse già tracciata. E invece non era così: già allora, per la seconda volta, il Belgio manifestò la sua incapacità di andare oltre un certo livello, indipendentemente dal fatto che fosse favorito o meno. Sarebbe successo ancora, per la terza e poi per la quarta volta.
Proprio la sconfitta con il Galles aveva fatto pensare che il grande problema del Belgio fosse Marc Wilmots. E in effetti era un’ipotesi piuttosto valida: Wilmots era un ct a dir poco improvvisato, un allenatore con pochissima esperienza – prima di arrivare sulla panchina della Nazionale aveva guidato solo lo Schalke e il Sint-Truiden per pochi mesi, poi era diventato assistente del suo predecessore, George Leekens – che in Francia combinò un vero disastro: dopo il pessimo esordio contro l’Italia (0-2), Jonathan Wilson scrisse sul Guardian che «Wilmots non riesce a strutturare il gioco offensivo della sua squadra, è percepito da tutti come antiquato, non sa prendere decisioni tattiche complesse ed è sostanzialmente soggiogato dalle star che popolano il suo spogliatoio, anche se poi coi giornalisti li incolpa di ogni minimo errore». I Diavoli Rossi avevano troppa qualità per riuscire nell’impresa di non battere la Svezia e l’Irlanda – le altre due Nazionali del girone eliminatorio – e l’Ungheria agli ottavi, ma poi bastò la sfida col Galles, una squadra appena più organizzata, per interrompere il loro cammino. Quell’eliminazione mise fine anche alla carriera di Wilmots: da allora, infatti, l’ex ct del Belgio ha guidato per sei partite la Costa d’Avorio (nel 2017) e per altre sei l’Iran (nel 2019). Un pugno di gare che è bastato, alle federazioni che l’avevano assunto, per capire che forse sarebbe stato meglio esonerarlo.
Dopo l’inevitabile allontanamento di Wilmots, l’idea della Federcalcio fu quella di assumere un ct straniero, un vero allenatore in grado di dare una forma compiuta alla squadra. Dopo i colloqui con Louis van Gaal e Ralph Rangnick, la scelta ricadde su Roberto Martínez, tecnico spagnolo reduce da due buone esperienze all’Everton e al Wigan, in cui aveva mostrato di possedere un’idea di calcio strutturata, un misto tra i dettami della scuola identitaria iberica e del gioco aggressivo e intenso che si pratica in Gran Bretagna. Ed è proprio grazie a questa commistione di stile e generi che il Belgio si è trasformato in una squadra credibile, in una macchina da risultati: 47 partite vinte su 61 disputate, con con sole cinque sconfitte; primo posto nel Ranking Fifa mantenuto ininterrottamente dal settembre 2018 a oggi, dopo un primo assaggio a cavallo tra il 2015 e il 2016; e poi, soprattutto, alcune prestazioni di livello assoluto, tra cui spicca il bellissimo 2-1 contro il Brasile ai Mondiali 2018: a Kazan, i Diavoli Rossi riuscirono a contenere e a battere una squadra di grande talento grazie ad alcune variazioni davvero fantasiose ed efficaci di Martínez, per esempio il passaggio dalla difesa a tre alla difesa a quattro e lo spostamento di Lukaku sulla fascia destra, con De Bruyne schierato in posizione centrale.
Il gol del 2-0 di De Bruyne, al termine di una ripartenza condotta in maniera magistrale proprio da Lukaku, aveva tutta l’aria di essere una certificazione definitiva: il Belgio era diventato una Nazionale strategicamente avanzata nonostante avesse la forma dell’acqua, nonostante i suoi giocatori militassero in squadre di club totalmente diverse tra loro per approccio al gioco. La sconfitta contro la Francia, pochi giorni dopo, arrivò di misura e contro uno dei pochi avversari – forse l’unico – che possedeva maggiore qualità nei singoli, e quindi in qualche modo fu accettata dalla critica e dai tifosi. Non a caso, la Grand Place di Bruxelles si riempì all’inverosimile per accogliere i giocatori di ritorno dalla Russia e festeggiare con loro il terzo posto finale, una specie di promessa elettorale in vista degli Europei 2020.
Il gol che ha cambiato la storia calcistica del Belgio, ma solo fino a un certo punto
Da allora sono passati tre anni che sembrano dieci, o anche quindici, non solo per la stasi temporale imposta dalla pandemia. Il Belgio è rimasto fermo agli stessi uomini, e nel frattempo alcuni di questi sono andati ben oltre il crepuscolo della carriera, non solo dal punto di vista anagrafico: Vermaelen è finito in Giappone, Vertonghen è passato al Benfica, Mertens e soprattutto Hazard hanno giocato poco e anche male con Napoli e Real Madrid, Benteke e Batshuayi non sono riusciti a mantenere le promesse giovanili. Martínez, quindi, ha dovuto reinventare la sua squadra partendo da valori assoluti più bassi, soprattutto in difesa; inoltre è stato costretto a fare i conti con gli infortuni di Witsel, De Bruyne e Hazard prima degli Europei, e poi con quello di Castagne durante la prima gara contro la Russia. Una situazione oggettivamente complicata, a cui però il ct spagnolo non ha saputo opporre delle reali contromisure, se non quella di affidarsi al talento dei singoli: contro la Danimarca sono serviti gli ingressi dei convalescenti Hazard e De Bruyne per ribaltare il risultato; il Portogallo – un’altra squadra con idee tattiche a dir poco confuse – è stato domato con fatica e fortuna; nel corso della sfida all’Italia, l’unico calciatore ad aver tenuto un ritmo alto e un rendimento creativo accettabile dopo il 20esimo minuto è stato Jérémy Doku; e poi il gol del 2-0 di Insigne, per quanto bello e spettacolare, è anche frutto di una fase difensiva a dir poco pigra.
Insomma, il Belgio non ha trovato il modo per superare i suoi limiti storici: un sistema tattico difficile da individuare e che quindi non può offrire riferimenti solidi nei momenti critici; un evidente deficit di personalità, forse figlio di un netto squilibrio qualitativo tra i vari reparti della rosa, soprattutto tra la difesa e la batteria di talenti offensivi; la mancanza di alternative valide per sostituire i titolari indisponibili e/o in difficoltà fisica. Su questo punto, paradossalmente, pesa proprio la natura “embrionale” di questa Golden Generation, il fatto che i vari De Bruyne, Hazard, Lukaku siano le prime grandi gemme fiorite dalla rivoluzione iniziata dopo Euro 2000, quando la Federazione e i club, in sinergia con le istituzioni scolastiche e governative, avviarono un programma condiviso di sviluppo giovanile che permetteva agli aspiranti calciatori di allenarsi due volte al giorno mentre proseguivano gli studi. È così che i vivai belgi si sono popolati di ragazzi che, al netto di radici etniche miste, avevano un background comune, un talento strutturato e anche l’etica del lavoro necessaria per trasferirsi e imporsi nei migliori club al mondo. Non a caso, proprio Romelu Lukaku ha spiegato che la medaglia di legno conquistata a Pechino 2008 dai vari Kompany, Fellaini, Dembélé, Vermaelen e Vertonghen è stata un’ispirazione per lui e i suoi coetanei, è stata «l’inizio di qualcosa di nuovo, di diverso: da allora è cambiata la nostra mentalità, la nostra cultura calcistica, fino a qualche anno prima puntavamo a non perdere, a difenderci e ripartire in contropiede. Poi abbiamo iniziato a voler vincere, e quindi ad affrontare qualsiasi avversario a viso aperto, anche perché avevamo la qualità per farlo».
Il tempo, evidentemente, non è bastato: il modello belga si è rivelato efficace e funzionale, ma non abbastanza, non al punto da generare una squadra davvero completa, davvero profonda (come la Francia 2018), oppure tatticamente unitaria e veramente innovativa (come la Spagna dei primi anni Dieci, la Germania del 2014 o anche l’Italia del 2021), condizioni necessarie per vincere un grande titolo. Allo stesso tempo, però, anche le congiunture astrali – cosa sarebbe successo, per esempio, se l’Europeo si fosse giocato nel 2020? – e le defezioni di quest’anno vanno tenute in considerazione, perché la fortuna è un componente importante, se non addirittura essenziale, per poter vincere a qualsiasi livello, soprattutto se si tratta di tornei brevi come un Europeo o un Mondiale. Ecco, in virtù di tutto questo, e del fatto che il Belgio resta un Paese piccolo e anche diviso, che non supera gli 11,5 milioni di abitanti, forse è un po’ ingeneroso parlare di fallimento. Inoltre, tra poco più di un anno ci sarà un altro Mondiale, ma forse quell’occasione arriverà davvero fuori tempo massimo. In ogni caso, però, il sapore è quello acre dell’ennesima occasione sprecata: sembra davvero difficile che, nel giro di pochi anni, possa nascere un’altra generazione di calciatori così forti, tutti nello stesso momento storico. O forse sì, potrebbe essere. Ma al momento è davvero difficile crederlo.