Per quanto riguarda la storia, anzi le storie da raccontare oltre il campo da gioco, non c’è dubbio che la Danimarca sia la vera squadra must watch di Euro 2020. Ci sono stati, nell’ordine: il dramma, sportivo e non, di Christian Eriksen; una qualificazione agli ottavi da terza arrivata solo nell’ultima partita e contro la squadra più debole del girone, per di più grazie alla differenza reti; la resurrezione di Kasper Dolberg dopo diciotto mesi da incubo dentro e fuori dal campo; l’overperforming di Damsgaard e Maehle; Martin Braithwaite momentaneamente uscito dal limbo di astrazione e indeterminatezza in cui (si) è imprigionato da quando è a Barcellona; la leadership tecnica ed emotiva, un po’ alla Obdulio Varela, di Simon Kjaer; il quotidiano Marca che riprende l’incredibile vicenda del daltonismo di Delaney; il trentennale di Euro 92 che incombe, con tutto il suo enorme carico di parallelismi, ricordi, coincidenze e sliding doors vere o presunte.
Tuttavia la Danimarca è molto altro, è molto di più della retorica da team of destiny che ritorna ciclicamente: è una squadra da guardare soprattutto per ciò che propone sul campo, per il suo calcio veloce, divertente e ambizioso, in assoluta opposizione con i luoghi comuni di fisicità esasperata, pragmatismo e povertà tecnica che tendiamo normalmente ad associare al movimento scandinavo – e che la Svezia in questi anni ha elevato a forma d’arte contemporanea, se ne facciamo una questione di risultati raggiunti in relazione al materiale umano a disposizione. Assistere a una partita della Danimarca significa spogliarsi dei pregiudizi legati all’idea dell’underdog ad ogni costo e rendersi conto di trovarsi di fronte ad una vera squadra forte, convinta di ciò che fa, costruita sull’organizzazione e su principi di gioco chiari, riconoscibili. Una squadra, quindi, che ha fatto – e sta facendo – il percorso che era normale facesse e che l’ha portata a 90’ dalla finale di un grande torneo senza che la si debba considerare per forza un’outsider, l’imbucata a una festa per cui non aveva ricevuto l’invito.
Anche perché se c’è una Nazionale che aderisce perfettamente ai pattern tattici e sistemici che hanno caratterizzato Euro 2020, questa è proprio la Danimarca, una squadra che Kasper Hjulmand ha costruito e modellato a sua immagine e somiglianza, procedendo per gradi pur dando l’impressione di averne accelerato il percorso di crescita. Prima ha cercato una sintesi, o meglio un compromesso – anche dal punto di vista emotivo e relazionale con i suoi calciatori – tra la visione reattiva e quella proattiva del calcio danese (ma non solo danese), poi ha portato questo ibrido a un nuovo livello di efficacia, estremizzando i concetti di verticalità, aggressione alta, velocità nella trasmissione palla: «I risultati sono la cosa più importante. Se non ne otteniamo posso sedermi qui e parlare da ora fino alla vigilia di Natale, e di quel che dico non importerebbe nulla a nessuno», ha detto recentemente al quotidiano danese Berlingske. Una dichiarazione ripresa anche dal Guardian in questo articolo in cui Hjulmand si descrive come qualcuno che «vuole dare speranza alle persone, renderle orgogliose dei ragazzi che giocano in Nazionale in modo da identificarsi identificarsi con loro. Ma questo non può accade solo grazie al caso, ma soprattutto grazie alle grandi personalità che sono in questa squadra. Porteremo la loro identità nel nostro modo di giocare, la loro volontà di dare tutto ciò che hanno, mostrare chi sono, mostrare chi siamo. Spero che saranno in molti a seguirci. Questi giocatori stanno bruciando di passione per la nazionale».
In questo senso i primi 45’ della gara contro il Belgio costituiscono una vero e proprio manifesto programmatico prima ancora che una delle migliori esibizioni dell’Europeo per intensità, applicazione, organizzazione: la difesa a tre composta da Kjaer, Christensen e Vestergaard – tenuta costantemente sulla linea di metà campo per impedire ai Red Devils di risalire per vie centrali appoggiandosi su Lukaku – è stata la pietra angolare su cui edificare il pressing ultra-offensivo che ha evidenziato tutti i limiti del Belgio in fase di non possesso, e di occupazione preventiva di quegli spazi in cui Damsgaard, Delaney e Højbjerg hanno fatto quello che volevano. Almeno fino all’ingresso di De Bruyne, che è stato il bug di sistema in grado di far saltare qualsiasi piano partita, per quanto accurato e studiato nei minimi dettagli possa essere.
Un po’ del dominio danese nel primo tempo contro il Belgio
La composizione del reparto difensivo è il tratto distintivo di una squadra che ha radicalizzato l’idea stessa di aggressività e dinamismo sui due lati del campo. Inizialmente Hjulmand sembrava intenzionato a puntare su una linea di quattro in cui, in fase di possesso, uno dei due esterni si alzava sulla linea degli attaccanti mentre l’altro agiva come braccetto di una difesa a tre nel classico 3-2-5 che abbiamo imparato a conoscere anche grazie all’Italia di Mancini; quasi subito, però, il ct danese ha scelto un approccio più gasperiniano, con tre centrali “puri” e due esterni di corsa e inserimento a tutta fascia – Maehle a sinistra, uno tra Larsen e Waas a destra, con Skov Olsen finito progressivamente indietro nelle rotazioni.
In mezzo tocca alla coppia Højbjerg-Delaney dare la giusta e ulteriore connotazione verticale alla giocata successiva al recupero palla o alla prima costruzione quando Christensen e Kjaer scelgono di bypassare la prima linea di pressione passando per vie centrali: il fatto che questa avvenga alla massima velocità possibile rende la fase d’attacco della Danimarca molto simile alla scena degli elicotteri in Apocalypse Now con la Cavalcata delle Valchirie in sottofondo, laddove a prevalere è quel senso di ineluttabilità, sopraffazione fisica e forza bruta che si è avuto, ad esempio, guardando cosa è successo alla Russia e al Galles, travolti 4-1 e 4-0 prima ancora che i giocatori in campo avessero modo di capire cosa stesse succedendo per poi riorganizzarsi.
Due azioni in cui la Danimarca dà effettivamente la sensazione di travolgere i suoi avversari
Nell’ultimo terzo di campo, la rinuncia forzata alla creatività di Eriksen ha, di fatto, responsabilizzato gli altri giocatori: tutti hanno dovuto alzare contestualmente il livello delle proprie prestazioni, spesso cambiano o ampliando la propria zona d’influenza. È il caso di Hojbjerg, che ha visto aumentare la propria centralità in fase di rifinitura; di Delaney, diventato il miglior attaccante-ombra possibile per qualità e quantità dei suoi inserimenti; e soprattutto è il caso di Damsgaard, che sta imparando a razionalizzare la sua capacità di creare superiorità – numerica e posizionale – andando oltre le sue abitudini, senza concentrarsi solo sugli esterni ma anche tagliando verso l’interno, con e senza palla, e così si è trasformato nel trequartista ideale, proprio perché atipico, di una squadra che pratica un calcio dinamico, fluido, moderno e ipercinetico. In attacco, poi, la rinascita di Dolberg – tre gol nelle due partite della fase a eliminazione diretta – ha dato a Hjulmand quel finalizzatore che sembrava mancasse nel momento in cui si analizzavano pregi e difetti della rosa, di un gruppo che in ogni caso ha saputo andare oltre se stesso, oltre i suoi limiti strutturali e l’assenza del suo giocatore più rappresentativo – un problema che, paradossalmente, è diventato soluzione.
«Per me giocare bene significa vincere le partite. Se non si capisce questo significa avere una visione errata, o comunque distorta, del calcio» disse in una intervista a Kanal 5 Age Hareide, che di Hjulmand è stato il predecessore e che avrebbe dovuto rimanere ct della Danimarca fino al termine dell’Europeo se solo non fosse intervenuta la pandemia a cambiare prospettive, percezioni, progettualità a medio e lungo termine. Ritrovatosi sul ponte di comando con, di fatto, un anno in meno e una competizione in più da recuperare sulla sua tabella di marcia, Hjulmand ha deciso di ripartire da questa visione risultatista per replicare e velocizzare su larga scala il lavoro che portò il Nordsjelland a elevarsi, a vincere un titolo nazionale e alla fase a gironi di Champions League partendo da una dimensione di underdog, quella sì, di un piccolo club con sede alle porte di Copenaghen. Il fatto che ci sia riuscito in così poco tempo significa che la sua personale ricerca dell’equilibrio, tra tradizione e innovazione, tra estetica ed efficacia, è arrivata a un nuovo punto di svolta, anzi a un nuovo livello: quello in cui una grande squadra deve puntare alla vittoria. E questa Danimarca è davvero una grande squadra, anche se facciamo finta che sia ancora e sempre il 1992.