Inghilterra, solidità e talento

La Nazionale di Southgate è arrivata alla finale degli Europei grazie a una difesa praticamente impenetrabile e alla qualità straripante dei suoi uomini offensivi.

È probabile che a un certo punto degli Europei, presumibilmente dopo lo 0-0 contro la Scozia, Gareth Southgate si sia convinto che per vincere le partite ­– quindi per vincere anche il torneo – non doveva inventarsi nulla di particolare: bastava avere i giocatori giusti, al posto giusto, nel momento giusto. E la sua Inghilterra, questi giocatori, questi game changers di alto livello (dall’inizio o a gara in corso), li aveva già. Non serviva trovare il modo per farli coesistere tutti insieme e a tutti i costi, ma era comunque necessario individuare come, quando e quanto razionalizzarne il potenziale in funzione dell’avversario, della lunghezza delle partite, della gestione delle risorse e dei momenti. In funzione, quindi, del risultato finale da raggiungere, convivendo con la pressione, non sempre positiva, di dover giocare in casa sei partite – su sette – di questo strano Europeo itinerante.

Se ne facciamo una questione puramente estetica in relazione al materiale tecnico e umano a disposizione, l’Inghilterra di Southgate è stata una delle squadre meno gradevoli e divertenti dell’intera competizione. Ma è stata anche quella più regolare, solida e continua nelle prestazioni, laddove agli sporadici picchi d’eccellenza – le manifestazioni del talento di Sterling e Kane – non hanno mai fatto da contraltare quei cali individuali e collettivi che lasciassero supporre l’esistenza di quelle crepe, di quelle carenze strutturali che gli avversari avrebbero potuto sfruttare a proprio vantaggio.

Non è tanto, o non è solo, una questione legata al livello delle squadre affrontate, o al fatto di aver subito appena un gol – peraltro su calcio piazzato – in oltre 700 minuti di gioco: l’Inghilterra è una squadra che si è scoperta forte, o quantomeno competitiva, in un modo diverso da quello che ci si sarebbe aspettati, consolidando le proprie certezze partita dopo partita su quella natura speculativa e reattiva che, invece di ingabbiare il talento, ha finito con l’esaltarlo nei momenti che contavano. Quindi nei lampi di Sterling contro Croazia e Germania, nella doppietta di Kane contro l’Ucraina, nella giocata in verticale e codificata – Kane che arretra nel mezzo spazio sul centro-destra a ricevere spalle alla porta, passaggio sulla traccia in profondità percorsa da Saka, passaggio a memoria a premiare l’inserimento senza palla di Sterling – che ha permesso di risalire la china contro la Danimarca.

Quello dell’Inghilterra è un calcio dominante nel senso letterale del termine, cioè permette agli uomini di Southgate di avere il controllo sulla partita e sugli avversari – quindi di dominare, appunto – pur senza fornire troppe concessioni all’estetica, all’intensità, a una percezione di forza che vada oltre il risultato segnalato sul jumbotron di Wembley, e che riguardi anche il modo in cui questo risultato viene raggiunto. E se pure volessimo banalizzare la questione pensando che Southgate abbia scelto di limitarsi a vincere quando avrebbe anche potuto stravincere, divertendo e divertendosi, non potremmo comunque fare a meno di osservare come il ct inglese sia stato in grado di andare oltre se stesso e le sue convinzioni di partenza pur di dare forma e concretezza a un obiettivo ambizioso e solo teoricamente alla portata dell’Inghilterra. Ovvero di una squadra che, all’altezza di quell’obiettivo, lo è diventata solo nel corso della manifestazione. Che lo è diventata non appena Southgate ha risolto quelle questioni tattiche e tecniche che sembravano riguardare essenzialmente le individualità.

Il primo nodo era relativo alla difesa o, meglio, al modo di difendere di squadra indipendentemente dagli interpreti. Detto che non ci sono stati problemi nell’utilizzo tanto di un reparto a tre quanto di una linea a quattro – e questo grazie alla multidimensionalità di Walker, utilizzabile da terzino ma anche come “braccetto”, alzando Trippier sulla linea degli attaccanti per garantire ulteriore ampiezza in fase di possesso –, l’Inghilterra ha dimostrato di sapersi difendere per blocchi ma senza schiacciarsi a ridosso della propria area di rigore, e senza risultare particolarmente passiva anche quando ha scelto di lasciare l’iniziativa agli avversari. Ciò è stato reso possibile grazie a una sapiente occupazione preventiva degli spazi e delle linee di passaggio, e alla gestione di un pressing non certamente ossessivo ma comunque efficace nella misura in cui i movimenti e le corse sincronizzate di Declan Rice e Kalvin Phillips neutralizzano sul nascere le trame offensive altrui.

Volendo utilizzare una metafora di facile impatto, si può dire che l’Inghilterra in fase difensiva sia molto simile a un pitone, un animale che stritola lentamente ma inesorabilmente un avversario limitato fin da subito negli spazi e nei tempi delle giocate: ne sa qualcosa la Danimarca, che ha visto progressivamente ridimensionate velocità e aggressività nell’interpretazione della doppia fase, ovvero ciò che l’aveva portata a un passo dalla seconda finale europea della propria storia. Da questo punto di vista, quindi, l’Inghilterra non è una squadra passiva, piuttosto una squadra che porta gli altri a giocare male, a interpretare una partita opposta a quella che era stata preparata, a snaturare le proprie caratteristiche di base; una squadra che, poi, guadagna metri di campo, fiducia, convinzione, traendo forza ed energia ulteriori da questa sua aura di apparente inscalfibilità, dalla sua capacità di saper aspettare il momento giusto, mentre gli altri sono ancora alla ricerca della versione migliore di se stessi per provare almeno a impensierire chi sembra non poter essere impensierito da nulla e da nessuno.

Uno dei rari momenti di questi Europei in cui gli avversari dell’Inghilterra sono riusciti ad arrivare in area di rigore avversaria, solo che però ci hanno trovato un presidio di otto giocatori

L’altro grande punto interrogativo consisteva nella gestione delle grandi individualità in attacco, nel capire quali fossero le combinazioni migliori per schierare il maggior numero di stelle offensive, di farlo in un sistema che potesse esaltare la tecnica in velocità di Sterling, Sancho, Rashford e Foden. In realtà le scelte di Southgate sono andate fin da subito in direzione opposta a quella di un ipotetico undici in cui Foden e Mount venivano indicati come le mezzali a supporto del tridente Sterling-Kane-Rashford, con Sancho e Grealish super-sub da utilizzare in caso di urgenza o emergenza: il ct, invece, ha scelto di privilegiare l’equilibrio e la solidità garantita dal doppio mediano, con Mount a fungere da raccordo tra centrocampo e attacco.

Il centrocampista del Chelsea galleggia sulla trequarti e si associa alternativamente con Kane, nella risalita del campo per vie centrali, o con Sterling, quando si trattava di sovraccaricare un lato per poi ribaltare il fronte del gioco, magari per assecondare i tagli di Saka o dell’esterno basso alle spalle del terzino avversario. Proprio il giovanissimo esterno dell’Arsenal costituisce l’epitome del giocatore ideale per Southgate, e quindi per questa Inghilterra: è un calciatore tecnicamente meno dotato e contro-intuitivo di Sancho o Rashford, ma si è dimostrato molto più ricettivo nel momento in cui è stato chiamato a implementare una serie di movimenti codificati e funzionali – con e senza palla – in un contesto in cui tutto dipende da Harry Kane.

Sì, adesso parliamo anche di Harry Kane

Proprio Kane, dopo la prova incolore contro la Scozia (appena 19 palloni toccati e sostituzione al 73’ con Rashford), ha alzato esponenzialmente il livello delle sue prestazioni, segnando quattro gol nelle tre gare della fase ad eliminazione diretta. Il numero di gol, però, ha un valore relativo nel giudizio sulle sue prestazioni, sul suo Europeo: Kane è un centravanti atipico, il suo saper fare bene tutto nell’ultimo terzo di campo, la sua dimensione creativa da regista offensivo, totale e totalizzante, non hanno eguali nel resto d’Europa: nessun altro attaccante ha la stessa qualità in fase di costruzione e rifinitura dell’azione, nessun altro attaccante è in grado di svuotare così tanto e così bene l’area aprendo gli spazi dove Sterling può banchettare a piacimento, nessun altro attaccante è così centrale e determinante in un collettivo di alto livello senza la necessità di dover segnare, solo che alla fine lui segna ugualmente, e quindi fa in modo che sia la partita a fluire verso di lui, e non il contrario.

Quest’ultima è una caratteristica che si estende anche al resto della squadra in maniera consequenziale, anzi naturale. L’Inghilterra è finalmente diventata un big nel momento in cui ha imparato a temporeggiare, a rallentare se necessario, a capire cosa serve fare per vincere, a capire quando, come e con quali giocatori farlo, dominando i momenti e leggendo in anticipo l’andamento tattico ed emotivo della partita. Tutto il resto, comprese le speculazioni sugli arbitri e il vantaggio di aver giocato un Europeo itinerante senza essersi praticamente mossi da Londra, sono dettagli ulteriori e superflui nella narrazione su un gruppo che è arrivato laddove doveva arrivare, laddove non era comunque scontato arrivasse.