I Giochi Olimpici di Tokyo stanno per cominciare, pur tra mille difficoltà logistiche, sanitarie, politiche. Intorno a tutti gli sport si stanno accendendo quei piccoli focolai di attesa e di polemica che, in qualche modo, rappresentano e segnano l’evento, spiegano che ci siamo quasi. Nel nuoto, per esempio, c’è stata una discussione piuttosto importante intorno ai Soul Cap, vale a dire delle cuffie progettate appositamente per degli atleti neri, che di solito portano capigliature più folte e voluminose rispetto a quelle dei nuotatori con origini differente. Inizialmente, questa particolare tipologia di cuffia era stata considerata non aderente agli standard dettati dalla FINA (Fédération internationale de natation), e quindi bandita, ma ora questa decisione è «in fase di revisione», come annunciato dalla stessa Federazione e da molte testate, tra cui anche il New York Times. In una dichiarazione ufficiale, si legge che la FINA «è impegnata a garantire che tutti gli atleti acquatici abbiano accesso a costumi da bagno appropriati, laddove questi equipaggiamenti non conferiscono un vantaggio competitivo. La FINA sta attualmente esaminando la situazione per quanto riguarda “Soul Cap” e prodotti simili, comprendendo l’importanza dell’inclusività e della rappresentanza».
Il punto fondamentale della vicenda riguarda proprio inclusività e rappresentanza: le cuffie Soul Cap sono state inventate e progettate nel 2017, in Gran Bretagna, da Michael Chapman e Toks Ahmed-Salowudeen. Durante un corso di nuoto per adulti, hanno notato che gli allievi neri avevano delle acconciature naturali e anche tradizionali più voluminose – afro, dreadlock, ecc. – e quindi avrebbero potuto beneficiare di una cuffia che gli permettesse di contenere, appunto, una maggior quantità di capelli. Come detto, la FINA ha bocciato la prima richiesta di validazione per questi nuovi prodotti, almeno a livello agonistico: i Soul Cap sono infatti consentiti per scopi ricreativi e didattici, ma non nelle competizioni ufficiali. In seguito a questa prima decisione della FINA, però, diversi atleti hanno protestato: Kejai Terrelonge, inglese di 17 anni, ha affermato che «la cura dei capelli è una delle tante barriere che ha dovuto affrontare come nuotatrice nera»; Lia Neal, due volte medaglia olimpica e seconda nuotatrice nera della storia a far parte della squadra olimpica degli Usa, non ha mai usato il Soul Cap, ma ha detto che «questo divieto non è un semplice divieto, perché ha delle ricadute sulla reale inclusività nell’universo del nuoto». Il riferimento di Neal va ricercato nel fatto che i nuotatori neri si sentano esclusi dalle piscine pubbliche, e questa percezione ha un fondo di verità: secondo uno studio del 2020 pubblicato sull’International Journal of Aquatic Research and Education, i neri hanno 2,6 possibilità in più di morire annegati, in quanto non si sentono bene accolti nei corsi di nuoto, e quindi non imparano a stare in acqua.
In questo senso, ci sono delle associazioni che stanno provando in qualche modo a colmare il gap. E il caso di Soul Cap può essere un primo passo piuttosto importante. Danielle Obe, presidente e fondatrice della Black Swimming Association, un’organizzazione in Gran Bretagna che si concentra sull’aumento della diversità negli sport acquatici, ha detto che «il nostro desiderio è di poter entrare in piscina con un equipaggiamento che è stato progettato per aiutarci con i nostri capelli. Fino a oggi, questo per noi è stato un problema, una barriera: se la FINA fosse consapevole di questa situazione, forse dovrebbe prendere una decisione diversa in merito alle Soul Cap, delle cuffie che sono realizzate con lo stesso materiale di quelle classiche e che, paradossalmente, sono solo più grandi rispetto a quelle degli altri atleti: questo non può essere considerato un vantaggio competitivo, anzi potrebbe essere anche uno svantaggio, se ci pensi».