Il suicidio di Williams Martínez non è un caso isolato in Uruguay

Il Paese sudamericano deve fare i conti con un'ondata di suicidi, e il 38enne difensore è stato il secondo giocatore che si è tolto la vita nel giro di pochi mesi.

Williams Martínez, 38ene difensore uruguaiano del Villa Teresa (club della seconda divisione uruguaiana), si è suicidato nella notte tra sabato 17 luglio e domenica 18 luglio. Non aveva avuto una carriera di altissimo livello, ma era comunque riuscito a esordire con la Nazionale – la prima e unica presenza risale a un’amichevole contro l’Iran del 2003 – e ad approdare in Europa: dopo gli esordi in patria con il Defensor Sporting, la squadra in cui si è formato, ha giocato con il West Bromwich Albion, il Valenciennes e il Reims a cavallo tra il 2006 e il 2009. Dopo è tornato in Uruguay e poi ha avuto diverse esperienze in giro per il Sudamerica (in Argentina, Cile, Paraguay e Venezuela), poi nel 2019 ha tentato ancora la fortuna in Spagna, al Ceuta. Da pochi mesi era sotto contratto con il suo attuale club, ma non scendeva in campo da tempo, perché il 23 giugno è stata riscontrata la sua positività al Coronavirus.

In Uruguay, le reazioni alla notizia del suicidio di Martínez sono state diffuse e sentite: tutti i club e moltissimi giocatori – a cominciare da Luís Suárez – hanno espresso il proprio cordoglio sui social network, e poi la Federcalcio di Montevideo, la lega e il sindacato dei calciatori hanno deciso di fermare il campionato di prima e seconda divisione per un turno. Martínez non ha scelto un giorno qualunque per togliersi la vita: nel suo Paese, il 17 luglio si celebra la “Giornata nazionale per la prevenzione del suicidio”. Si tratta di un tema importante nella piccola nazione sudamericana: secondo gli ultimi dati diffusi dalle istituzioni, nel 2020 ci sono stati 718 suicidi, per un tasso di 20,30 ogni 100.000 abitanti. Un numero elevatissimo, ma un altro aspetto di questo problema riguarda il calcio in maniera diretta: solo pochi mesi fa, a febbraio 2021, l’attaccante 31enne Santiago Damián García si è tolto la vita nella sua casa di Mendoza, in Argentina. Dopo un ottimo inizio di carriera, in cui ha centrato la doppia vittoria nel campionato uruguaiano con il Nacional ed è stato titolare nella Celeste Under 20, “Morro” García si era trasferito in Turchia e poi aveva trovato la sua dimensione nel Godoy Cruz, club della Primera División argentina, in cui militava dal 2016. Nella sua carriera c’è anche una coincidenza piuttosto inquietante: ha giocato insieme a Williams Martínez nel River Plate Montevideo, tra il 2014 e il 2015.

In molti si sono interrogati su una possibile correlazione tra calcio e tendenza al suicidio in Uruguay, soprattutto in questo periodo storico così particolare – in cui, come detto, i numeri sono tragicamente in aumento. Il quotidiano Ovación, dopo la morte di García, aveva pubblicato un’interessante intervista ad Axel Ocampo, psicologo della Nazionale giovanile, in cui venivano evidenziate delle criticità: «Chi gioca a calcio è sottoposto ai disturbi comuni a tutti gli individui. Solo che l’ambiente in cui lavora può essere davvero molto ostile, per tanti motivi: alle situazioni personali negative possono accompagnarsi lo sradicamento dalla famiglia, e poi una grande pressione interna ed esterna, condizione dovuta all’enorme esposizione mediatica e che quindi genera la paura di non riuscire a soddisfare le aspettative». Ora il caso di Martínez ha stimolato nuove discussioni su un problema che esiste, e che riguarda soprattutto gli atleti alla fine della carriera. L’ha spiegato Richard Porta, ex calciatore ed ex compagno di squadra di Martínez, che ha confessato di aver vissuto diversi prima e dopo il suo ritiro «Non posso conoscere i pensieri di Williams, i motivi che l’hanno spinto a compiere questo gesto, ma posso dire che anch’io ho avuto un’esperienza davvero difficile quando ho deciso di smettere, tre anni fa: dopo molto tempo, improvvisamente, noi calciatori non possiamo più giocare ad alto livello, ovvero l’unica cosa che abbiamo fatto per mantenere la nostra famiglia. Il salario inizia a scendere, così accettiamo le offerte di squadre di livello inferiore e rischiamo di non essere pagati per mesi interi, dopo una vita passata in relativa agiatezza. Non riusciamo ad accettare l’idea della fine, un posto di lavoro comune in un supermercato, in un’azienda qualsiasi: continuiamo a giocare fin quando ci ritroviamo ormai provati e smarriti. Cosa facciamo adesso? Gli allenatori? Non è detto che funzioni, e questo può generare conflitti profondi in famiglia, può incidere sulla salute mentale. Per questo bisogna parlare e ascoltare il più possibile, chiedere aiuto se c’è bisogno. Non è facile, ma è l’unica strada da percorrere per evitare tragedie come questa».