Il ritorno di Luciano Spalletti, l’antagonista perfetto del calcio italiano

Il suo arrivo al Napoli è una grande notizia per chi ama gli allenatori-comunicatori, soprattutto quelli che non bramano il consenso degli altri.

Seguo il calcio da quando ho undici anni, adesso ne ho trentuno e in questi venti anni di amore e di odio ho avuto una certezza, solo una, sempre quella: a meno che non si sia obbligati a (cioè salariati per) farlo, le conferenze stampa pre e post partita non vanno seguite. La spiegazione di questa certezza sta in un saggio di David Foster Wallace, Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore: per riassumere, i grandi sportivi sono i peggiori cantori delle loro gesta. È una certezza, questa, che ho conservato anche dopo la scoperta dell’allenatore-oratore, questa nuova specie avvistata per la prima volta dalle parti del do Dragão di Porto. È una certezza, questa, che ha resistito al sarcasmo piacione di José Mourinho, alla sensuale altezzosità di Pep Guardiola, alla pianificatissima spontaneità di Jürgen Klopp, all’antipatia nazionalpopolare di Massimiliano Allegri, alla glaciale semplicità di Zinédine Zidane, alle vibrazioni passivo-aggressive della voce di Antonio Conte. Nessuno valeva il tempo speso per seguire una conferenza stampa in diretta, nella sua interezza.

Seguo il calcio da quando ho undici anni, adesso ne ho trentuno e in questi venti anni di amore e di odio ho avuto una certezza, solo una, sempre quella: a meno che non si sia obbligati a (cioè salariati per) farlo, le conferenze stampa pre e post partita non vanno seguite. Lo scorso 8 luglio, alle 15, però, questa regola rispettata per 2/3 della mia vita ha finalmente trovato l’eccezione che la conferma: ho voluto seguire la prima conferenza stampa di Luciano Spalletti da allenatore del Napoli. Tutta. In diretta. Senza nessuno che mi pagasse per farlo.

Spalletti esercita su di me un fascino che non riesco a spiegare, che neanche so dove e quando sia cominciato. Il suo volto attrae il mio sguardo e spesso mi ritrovo a osservarlo come fossi un Cal Lightman al contrario, concentrato sulle smorfie iper-espressive di una faccia capace di assumere i tratti di tutte le maschere degli archetipi teatrali. Perché una volta le sue sopracciglia puntano verso l’alto e la volta dopo quegli stessi peli sono schiacciati sopra l’arcata sopraccigliare? Perché certe volte ha il pizzetto e altre volte la barba? Forse è perché sono ossessionato dai comics, e quando guardo lui vedo anche Lex Luthor. Forse è perché sono un Bondmaniaco, e perciò vedo in lui Ernst Stavro Blofeld prima della cicatrice (ma sempre con il volto di Donald Pleasence). Forse è perché il villain, il cattivo, l’antagonista è la parte della recita che me la fa amare, e dopo i due anni all’Inter e la seconda volta alla Roma Spalletti è il villain, il cattivo, l’antagonista perfetto.

Come ogni villain degno di questo ruolo, i dettagli del piano si possono leggere sul suo volto. E come tutti i villain che si rispettino, Spalletti saltella sul confine con l’eroismo tanto che ormai c’è una parte di lui che sta di qua e un’altra che è di là: è un eroe per alcuni e un villain per altri, quindi è sia eroe che villain allo stesso momento e per le stesse ragioni. Speravo di morì prima si sarebbe mai fatta se Francesco Totti avesse smesso di giocare con Paulo Fonseca seduto in panchina? E soprattutto: la squadra che negli ultimi anni è stata spesso quella simpatica ma sconfitta, ci guadagna dall’avere in panchina uno perfettamente disinteressato al consenso popolare, uno disposto a usare ogni mezzo per raggiungere il fine? Il Napoli di Sarri era simpaticissimo, quello di Ancelotti amabile (all’inizio, almeno), quello di Gattuso tenero: è arrivato il momento di provare qualcos’altro? Magari «la tigna, la forza, l’impatto» di cui Spalletti parlava spesso sia quando c’erano che quando mancavano, sia a Roma che a Milano.

«Innanzitutto sono felice di aver dato a Totti la possibilità di fare una fiction. Però posso assicurargli che aveva i contenuti anche per farla su di lui. Mi dispiace che non abbia avuto grande successo e che abbia ricevuto delle critiche, se me lo avessero detto prima io un po’ di scene per fargli fare il pieno e per far crescere l’audience le avevo» è la risposta che dà all’inevitabile domanda sulla questione, oltre che l’immediata conferma che lo spettacolo di questa conferenza stampa vale il prezzo del biglietto. E non si può che pensare a che grande attore – o a che uomo passionale – debba essere per scandire una cattiveria come questa con la stessa convinzione con cui, molti anni prima, disse che avvicinare Totti all’area di rigore «era come portare la volpe dove stavano le galline (quelle del Cioni?)», che «Totti era il vero allenatore della Roma», che «aveva ragione Pelé quando diceva che il capitano era il più forte di tutti». D’altronde, il villain perfetto è quello che in passato era il migliore amico, il fedele compagno dell’eroe. A Napoli c’è un misto di nervosismo ed eccitazione al pensiero di Insigne come Totti e di Spalletti come Spalletti: un falso 9 da venti e più gol a stagione vale il rischio della storia che si ripete? Qualcuno sa se Insigne ha l’abitudine di giocare a carte fino a tarda notte insieme ai compagni il giorno prima di una partita? Qualcuno sa se Ilary Blasi e la moglie di Insigne si seguono su Instagram?

Luciano Spalletti ha vinto sette trofei nella sua carriera da allenatore: due campionati russi, una coppa di Russia e una Supercoppa con lo Zenit, due Coppe Italia e una Supercoppa con la Roma, e poi una Coppa Italia di Serie C, sulla panchina dell’Empoli (Maja Hitij/Getty Images)

A differenza di Mourinho, Guardiola, Klopp, Allegri, Zidane, Conte e tutti gli altri allenatori-oratori, Spalletti dà l’impressione di non esercitare (per scelta o per caso) alcun controllo sulle parole. Gli altri seguono una sceneggiatura corretta e provata, lui un canovaccio scarabocchiato e illeggibile. È per questo che i suoi discorsi completi sono spesso monologhi inintelligibili: è come se pensasse e parlasse nello stesso momento, come se pensiero e parola avvenissero nello stesso istante, come se non ci fosse nessuna pausa tra quello che gli succede nella testa e quello che gli esce dalla bocca. È prolisso e incompleto, pedante e impreciso allo stesso tempo, nello stesso modo: non a caso l’unico capace di travolgere e annegare Er Club di Fabio Caressa, costretto a dichiarare la resa con un memorabile “se conoscemo da ‘na vita, Lucia’” per fermare un monologo che aveva ormai sforato i tempi televisivi e sfidato quelli teatrali. Ma le contraddizioni rendono Spalletti anche il miglior aforismario della Serie A: quando pensieri e parole si allineano riesce a produrre one-liner micidiali, eternamente ripetibili, perfettamente trasferibili in ogni contesto. E lo fa con una spontaneità vera perché conseguenza di improvvisazione autentica, oltre gli eccessi teatrali e le affettazioni stilistiche. «Uomini forti, destini forti», disse all’epoca giallorossa. «Icardi è “serpentesco”», disse del numero 9 nerazzurro prima che il rapporto si guastasse. Nel primo giorno da allenatore del Napoli, dice che questa è la tappa che completa il suo «tour dell’anima». Parla di sé e della città degli imperatori e del Papa, di quella degli zar e ora di quella di Maradona e dei miracoli. E a sentirlo parlare si ha l’impressione che lui si metta nella categoria dei miracoli (facitori di).

Tra Roma e Napoli, qual è la città in cui si parla di più di calcio? Rispondere è probabilmente impossibile, però c’è questa sensazione che il Napoli possa essere per Spalletti la Roma che non gli è stata concessa (o che lui non ha saputo prendersi): quella in cui lui è sempre e comunque al centro del discorso, anche quando il discorso diventa litigio. Adesso siamo ancora all’idillio, quindi il giudizio è da posticipare: oggi va bene tutto, va bene se Insigne rinnova o no, va bene se Mertens rimane o no, va bene se Koulibaly resta o no, va bene Manolas anche se è permaloso assai, va bene se i terzini si comprano nuovi o se ci si tiene stretti Di Lorenzo, si spera in Ghoulam, si riscopre Malcuit. È conciliante, Spalletti: dice che capisce, che sa che mancano i soldi della Champions League, che è consapevole che la pandemia ha lasciato macerie. Però se si potesse prendere Emerson Palmieri, se si potesse tenere Fabián Ruiz, quel 4-2-3-1 sarebbe praticamente già fatto.

Alla fine della prima conferenza stampa di Spalletti da allenatore del Napoli, la frase che rimane nella testa è una di quelle trascurabili se dette da un altro allenatore: «Non si può fare sempre la stessa cosa perché a volte gli altri non te lo permettono». Parlava del Napoli e della Nazionale. E forse anche della Roma e di Totti. O, chissà, forse anche di se stesso. Questa è la volta in cui Spalletti fa una cosa diversa perché ha capito che la solita gli altri potrebbero non permettergli di farla o è la volta in cui a Spalletti riesce davvero la solita cosa perché nessuno gli fa da ostacolo?