La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di velocità che aumenta. Quindi è una storia di distanze che si accorciano, dunque è una storia di tempo (e di tempi) che cambiano. Un team di storici e informatici dell’americana Stanford University ha creato uno strumento per misurare il tempo impiegato dagli abitanti, dalle merci e dalle informazioni dell’antica Roma per andare da una città all’altra dell’Impero dei Cesari. Lo strumento si chiama ORBIS e ci dice che partendo da Roma, a seconda del mese e delle condizioni della strada e delle possibilità del viaggiatore, arrivare a Mediolanum (Milano) dopo dieci giorni di viaggio sarebbe stato considerato “fare veloce”. Oggi, un cittadino del mondo che parte da Roma impiega circa mezza giornata per arrivare a Tokyo. Adesso, un’informazione impiega il tempo che ci vuole a pigiare un tasto per fare il giro del mondo più e più volte.
Nel mezzo, tra il cittadino di Roma antica che si augura di raggiungere Mediolanum in non più di dieci giorni e il cittadino del mondo che si aspetta di cominciare la sua giornata a Roma e di finirla a Tokyo, c’è la storia dell’umanità: tutto il progresso tecnologico, tutto l’affinamento culturale, tutto il benessere economico che siamo riusciti a darci da che abbiamo deciso di camminare eretti su quelle che erano le nostre zampe posteriori. Una storia di velocità che aumenta, di distanze che si accorciano, di tempo (e di tempi) che cambiano. Le Olimpiadi di Tokyo arrivano in ritardo. Il ritardo è una delle situazioni insopportabili della nostra epoca: solitamente significa che siamo stati lenti, quindi che siamo stati pigri. Spesso significa che si poteva fare meglio, dunque che si è persa un’opportunità. Talvolta significa che qualcosa è andato storto, cioè che un pezzo di mondo ha smesso di funzionare.
La pandemia si spiega forse con una di queste tre possibilità. O magari con tutte e tre. O anche con nessuna delle tre. È uno di quegli eventi che funzionano così: passano prima che si sia capito perché e come sono successi. Fatto sta che il Covid-19 ci ha costretto a fare cose che non facevamo da talmente tanto tempo che quasi ci siamo dimenticati come si fanno: rallentare, fermarci, aspettare. Una delle certezze della contemporaneità è venuta meno: domani andremo un po’ più veloci di oggi, domani il resto del mondo sarà un po’ più vicino di oggi, domani impiegheremo un po’ meno tempo a fare quello che facciamo oggi. Ci siamo messi ad aspettare che la salvezza ci trovasse e abbiamo vissuto l’anno e mezzo più triste delle nostre vite: «È la cosa più triste del mondo, aspettare di esser trovati», diceva la detective Sarah Linden in uno dei migliori episodi di The Killing.
Ma alla fine la salvezza ci ha trovati, e anche stavolta è stata una vittoria in una gara di velocità: un vaccino trovato in un anno, per fermare un virus che non ci era noto solo un anno e mezzo fa. Un record di velocità che rimarrà al di là dell’albo d’oro, impresso nella memoria collettiva e scritto nei libri. Tutto il progresso tecnologico, tutto l’affinamento culturale, tutto il benessere economico: l’intera storia dell’umanità dentro una gara di velocità. E adesso? E adesso la parola che sentiamo e pronunciamo più spesso è ripartenza. E come spesso capita attorno agli eventi dirimenti della storia dell’umanità, lo sport ha assunto una carica simbolica tanto elevata che è impossibile misurarla. Gli Europei itineranti arrivati con un anno di ritardo. Le Olimpiadi di Tokyo cominciate un anno dopo. Tutto il mondo osserva e spera: osserva lo sport e spera di vedere l’impresa, certo, ma osserva anche quel che c’è attorno allo sport e spera di vedere la normalità. Gli atleti che esultano abbracciandosi. Le Olimpiadi di Tokyo saranno un evento sportivo in cui testo e contesto saranno la stessa cosa: ci saranno una miriade di dettagli da cogliere, un’infinità di sfumature da notare, una quantità incalcolabile di informazioni che saranno necessarie a farci capire che forse il peggio è davvero alle spalle. Niente potrà andare perso.
Capire che forse il peggio è davvero alle spalle, a questo punto, non è più un desiderio ma una necessità. È la ragione per cui l’attesa attorno a questo grande evento sportivo è quella che è: abbiamo bisogno che succeda tutto e abbiamo bisogno di vedere tutto, perché è un anno e mezzo che succedono e assistiamo solo a cose sbagliate. E come spesso capita attorno agli eventi dirimenti della storia dell’umanità, la tecnologia smette di essere “solo” una soluzione ai problemi della produzione e del commercio e diventa risposta ai desideri della collettività. Fastweb ha cominciato da tempo a provvedere: il 5G di Fastweb è già stato lanciato nelle principali città italiane ed entro il 2025 collegherà il 90% del territorio nazionale nella nuova generazione di reti mobili. E quella fissa prosegue veloce anch’essa: dallo scorso dicembre 30 città navigano già tramite FTTH a 2.5 Gbps, mentre con la rete Ultra FWA con velocità fino a 1 Gbps la società raggiunge già quasi 200 comuni e conta di portare tale tecnologia in 500 comuni entro la fine dell’anno. Il progetto prevede 2000 città in Ultra FWA entro il 2024.
Perché è così importante? Perché di queste Olimpiadi vogliamo vedere tutto e sentire tutto come se fossimo lì, perché per diciotto mesi “lì” non è esistito per nessuno. Queste Olimpiadi e queste tecnologie saranno ciò che furono i Giochi di Roma del 1960 e la televisione di quegli anni pionieristici tanto per lo sport quanto per le telecomunicazioni: l’Italia usciva finalmente dagli anni della guerra, terminava l’attesa della ricostruzione di un Paese lasciato in macerie. Furono le prime Olimpiadi di cui non si videro solo spezzoni montati e trasmessi giorni e giorni dopo: in 18 Paesi nel mondo si assistette a 110 ore di sport, mentre lo sport succedeva, grazie anche e soprattutto alla Rai, dimostrazione di forza, anzi di velocità, di un Paese finalmente ormai pronto alla ripartenza. Nella prefazione del libro Roma 1960 – Le Olimpiadi della tv, Paolo Garimberti scrive: «A casa mia convinsi mio padre a comprare il televisore. Volevo godere ogni momento di quel favoloso evento. Credo che ci sia stato il salto di qualità nel rapporto fra sport, tv e spettatori». Volevo godere ogni momento di quel favoloso evento. Ricorda qualcosa?
Per celebrare la terza medaglia d’oro olimpica consecutiva nei 100 metri di Usain Bolt, il New York Times pubblicò un pezzo in cui metteva a confronto tutti i vincitori nella disciplina, dalla prima all’ultima delle Olimpiadi moderne, su una pista immaginaria composta da 88 corsie. Mi colpì moltissimo scoprire che tra Bolt e il primo vincitore dell’oro olimpico nei 100 metri, l’americano Thomas Burke, c’erano “solo” tre secondi. Ma in quei tre secondi, “solo” tre secondi, c’erano centodieci anni di storia del corpo e della mente e della scienza e della cultura e della società umana. Ci abbiamo messo tre secondi per arrivare da Thomas Burke a Usain Bolt, da Atene 1896 a Rio 2016. Ci abbiamo messo centodieci anni. Siamo stati veloci? L’augurio è che le Olimpiadi di Tokyo siano l’inizio di uno scatto in avanti e che tra meno di tre secondi, meno di centodieci anni, questo periodo terribile delle nostre esistenze ci sembri più lontano di quanto oggi ci sembrano Thomas Burke e Atene 1896. D’altronde, si sa che la velocità può piegare il tempo, lo spazio, la percezione umana.