Come si misura un record?

Alle Olimpiadi, un centesimo di secondo può fare la differenza tra vittoria e sconfitta. Storia ed evoluzione del cronometraggio, fino a Tokyo 2020.

Per molti anni le gare delle Olimpiadi sono cominciate con un colpo di pistola a salve. Pronti, partenza, via. Ma poiché il suono nell’aria si propaga a 340 metri al secondo, l’atleta più vicino allo starter percepiva lo sparo circa 3 centesimi di secondo in anticipo rispetto a un avversario distante 10 metri. Tre centesimi di secondo nei 100 metri dell’atletica leggera corrispondono a percorrere circa 30 centimetri: possono fare la differenza tra la medaglia d’oro e il quarto posto. Così nel 1984 si pensò di installare dietro a ciascun atleta un altoparlante collegato alla pistola. Ancora una volta, però, il sistema si rivelava inefficace: i corridori tendevano a reagire comunque al suono dello sparo reale e non a quello che proveniva dalle loro spalle. Chi era vicino allo starter rimaneva avvantaggiato. Alla fine, dalle Olimpiadi invernali di Vancouver 2010, Omega ha risolto il problema grazie a una pistola elettronica che, semplicemente, non spara. Un lampo di luce avvisa gli spettatori che la corsa è cominciata, per gli atleti invece viene direttamente riprodotto il suono di uno sparo negli altoparlanti dietro ai blocchi di partenza.

Le innovazioni tecnologiche e il progresso scientifico hanno cambiato lo sport. Lo hanno reso più equo e più professionale. Omega si occupa del cronometraggio delle Olimpiadi dal 1932, quando il Comitato olimpico internazionale chiese a un’unica azienda di fornire 30 cronografi uguali per misurare i tempi delle gare di Los Angeles. Fino ad Amsterdam 1928 infatti i giudici dovevano fare la media tra tempi diversi registrati da cronometristi diversi che utilizzavano orologi diversi. Non solo: nel 1932 Omega ha portato la misurazione delle prestazioni sportive al decimo di secondo. Prima ci si fermava al quinto di secondo: in un quinto di secondo nei 100 metri dell’atletica si percorrono circa 2 metri. Dal 1952 Omega è passata ai centesimi di secondo e oggi garantisce una precisione al milionesimo di secondo, anche se nella maggior parte degli sport i tempi vengono ancora arrotondati al centesimo a causa di fattori esterni come la tolleranza di 3 centimetri nella differenza di lunghezza delle corsie del nuoto.

Oltre ai cronometri, Omega è intervenuta nello sviluppo tecnologico dello sport con l’introduzione del fotofinish dalle Olimpiadi di Londra 1948 (ai tempi ci volevano 20 minuti per sviluppare la pellicola in una camera oscura), con la possibilità di individuare le false partenze da Los Angeles 1984 e con l’invenzione delle piastre d’arrivo per il nuoto da Città del Messico 1968. Le piastre, situate ai due estremi della piscina, permettono agli atleti di fermare il proprio tempo premendo con una pressione tra gli 1,5 e i 2,5 chilogrammi: in pratica i nuotatori sono i cronometristi di se stessi. Tutto è letteralmente nelle loro mani. Ad Alain Zobrist, CEO di Omega Timing, non era mai stato chiesto quale fosse secondo lui l’innovazione da medaglia d’oro dell’azienda svizzera. Collegato via Zoom, si prende un po’ di tempo prima di rispondere e poi dice: «Credo che sia la combinazione tra tutte a fare la differenza. Non si può misurare e convalidare un risultato con uno strumento solo. Ogni strumento svolge una parte fondamentale per il nostro obiettivo, che è quello di offrire agli atleti i risultati appena superano la linea del traguardo o finiscono la gara. Ma se proprio ne devo indicare uno dico il cronografo del 1932 perché grazie a quello è nato il nostro lavoro alle Olimpiadi. Senza quei 30 cronografi precisi al decimo di secondo non avremmo avuto l’opportunità di continuare la nostra avventura fino a oggi».

A Tokyo, per le sue ventinovesime Olimpiadi, Omega invierà 400 tonnellate di attrezzatura, 200 chilometri di cavi, 435 tabelloni, 530 cronometristi professionisti e 900 volontari. Ma se le pistole elettroniche hanno eliminato qualsiasi possibile vantaggio dovuto alla velocità di propagazione del suono nell’aria, se oggi il fotofinish permette di effettuare 10mila scatti al secondo, se i cronometri sono in grado di misurare i centesimi di secondo in sport in cui i centesimi fanno la differenza tra salire o rimanere giù dal podio, tra le prime pagine o la damnatio memoriae, allora la vita degli atleti olimpici non può che trasformarsi in una continua ricerca di quei centesimi. Se si possono calcolare si possono abbassare: anche uno solo può fare la differenza.

Bisogna insistere sui dettagli, sezionare ogni componente della prestazione sportiva, studiare ogni singolo passo o ogni singola bracciata per cercare di avvicinarsi al limite della perfezione. Da oltre 25 anni la Federazione italiana nuoto ha un responsabile dell’area biomeccanica di nome Ivo Ferretti. Ha 70 anni, è laureato in Chimica, non ha preso per 3 o 4 esami anche la laurea in Fisica ed è stato professore di Scienze Motorie all’Università di Tor Vergata. Lui però si definisce diversamente: «Il termine biomeccanica è abbastanza abusato. Il biomeccanico si interessa dell’angolo medio, della velocità media, del comportamento medio dei nuotatori per creare un modello matematico a cui ci si possa riferire. Io invece lavoro più sulla biodiversità, è proprio l’opposto. A me non interessa la media, perché la media per me è la mediocrità. A me interessa l’eccezione. Capire quali sono le caratteristiche peculiari di un atleta così diverso dalla media e dalla curva che interpola tutti i comportamenti degli altri e come farlo andare ancorapiù veloce. Diciamo che più che un biomeccanico sono un tecnico della tecnica». Ferretti gira le piscine in cui si allenano i nuotatori italiani con alcuni strumenti tra cui il velocimetro, che fornisce in tempo reale la velocità media e la velocità istantanea per ogni millesimo di secondo, e riprende tutto con una videocamera. Poi sincronizza la videoanalisi (le riprese) con l’analisi strumentale (il velocimetro): «Questo permette di capire esattamente quello che succede in ogni istante. Una volta che abbiamo visto che l’atleta commette determinati errori tecnici, io poi do all’allenatore degli esercizi per migliorare questi aspetti. Poi facciamo delle verifiche per controllare che tutto sia andato a buon fine».

(A Tokyo, per le sue ventinovesime Olimpiadi, Omega invierà 400 tonnellate di attrezzatura, 200 chilometri di cavi, 435 tabelloni, 530 cronometristi professionisti e 900 volontari (Mark Dadswell/Getty Images)

Nel luglio 2000 Domenico Fioravanti aveva vinto l’oro nei 100 metri rana agli Europei di Helsinki con il tempo di 1’02’’02. Pochi giorni dopo il compianto Alberto Castagnetti chiamò Ferretti a Verona perché Fioravanti, nonostante il successo, partiva sempre indietro rispetto agli avversari. Con il velocimetro Ferretti si accorse che l’azzurro commetteva un banale errore tecnico: «Quando faceva la subacquea, appena iniziava a recuperare le braccia iniziava anche il recupero delle gambe. Quindi si trovava con le gambe alla massima flessione quando le braccia erano ancora flesse sotto il corpo e non distese in avanti. L’allungamento delle braccia annullava il vantaggio della spinta con le gambe. Nella subacquea a un certo punto si fermava e doveva uscire quasi da fermo». In un mese e mezzo l’errore fu corretto e a settembre, alle Olimpiadi di Sydney, Fioravanti conquistò l’oro nei 100 rana nuotando in 1’00’’46: quasi due secondi in meno. In passato c’è stato un biennio in cui le innovazioni scientifiche hanno stravolto il nuoto. Tra il 2008 e il 2009 i costumi in poliuretano, i cosiddetti “costumoni” studiati da un istituto di ricerca idronautica in Nuova Zelanda, permettevano agli atleti più potenti di minimizzare la resistenza d’attrito e la resistenza di forma soprattutto durante le fasi subacquee. Ai Mondiali di Roma 2009 in questo modo furono battuti 43 record del mondo. I costumi in poliuretano sono stati vietati all’inizio del 2010, eppure nel decennio successivo molti dei record di quell’epoca sono stati superati: «Quello che ci hanno insegnato i “costumoni” non l’abbiamo buttato», spiega Ferretti. «Abbiamo capito proprio che la core stability, cioè la tenuta del corpo, la postura, è fondamentale nella tecnica per tenere la velocità e ottenere una minimizzazione delle resistenze. È da allora che i nuotatori d’élite, che prima facevano solo i pesi, hanno iniziato a fare esercizi di yoga, di pilates, di ginnastica posturale». Ciò che prima si guadagnava con i materiali ora si ottiene con la tecnica: anche questo è progresso.

Secondo Ferretti, comunque, «il nuoto non è ancora arrivato ai limiti della capacità umana della velocità, a differenza dell’atletica». Una delle possibili spiegazioni è che il nuoto abbia avuto un’esplosione globale solo negli ultimi 50-60 anni, prima era limitato essenzialmente a Paesi come gli Stati Uniti e l’Australia, e quindi si sia trovato in poco tempo con molti praticanti in più aumentando la probabilità di far emergere dei talenti. Il potenziale di reclutamento dell’atletica, sport di più ampia tradizione, è invece già stato espresso quasi del tutto. Uno studio del 2016 della Northwestern University di Evanston (Illinois) ha previsto che il record del mondo dei 100 metri di Usain Bolt, 9’’58 ai Mondiali di Berlino 2009, durerà 230 anni. Ma non tutti la pensano così. Peter Weyand è un biomeccanico della corsa tra i più esperti al mondo. Ha dimostrato che gli atleti più veloci non muovono le gambe più rapidamente degli altri (in questo, dice, non c’è differenza tra Bolt e vostra nonna: se lei corresse alla sua massima velocità solleverebbe e riposizionerebbe i piedi a terra alla stessa velocità di Bolt), bensì colpiscono il suolo con una forza maggiore in relazione al proprio peso corporeo e per un periodo di tempo più breve. Per Bolt si trattava di circa 5 volte il suo peso corporeo per un tempo di contatto tra gli 8 e i 9 centesimi di secondo.

La raccolta statistica dei dati non ha mai registrato tempi di contatto inferiori ai 7 centesimi, ma il miglioramento fa parte della storia dell’uomo e più di un secolo fa il 10’’6 con cui lo statunitense Donald Lippincott vinse la medaglia d’oro nei 100 metri alle Olimpiadi di Stoccolma 1912 sembrava un risultato inavvicinabile. Secondo Weyand il record del mondo di Bolt potrebbe quindi cadere a patto che l’essere umano perfetto corra la gara perfetta, e certamente quando e se succederà Omega sarà lì a cronometrarla.

Undici X Omega, dal numero 39 della rivista