Perché la scelta di Simone Biles è un dono

La sua decisione di fermarsi, e di parlare apertamente dei suoi problemi di benessere mentale, ha un significato profondo, da cui prendere esempio in diversi modi, ben oltre lo sport.

«Io sono ancora qui. Sono ancora su questo pianeta, questo è il grande impatto che ha avuto la terapia sulla mia vita», ha detto Michael Phelps, uno dei più grandi olimpionici di ogni tempo. Il riferimento è ai pensieri suicidi che non gli concedevano un posto per nascondersi, nella sua testa non c’era conforto per le medaglie, la ricchezza, la grandezza. «Certi giorni sento che sto andando avanti. Il giorno dopo è come se avessi fatto tre passi indietro. A volte sento che sto iniziando a guarire da una parte del mio trauma, quando un nuovo ricordo appare», ha scritto a febbraio su Instagram la ginnasta Aly Raisman, vittima di abusi sessuali dal medico Larry Nassar, proprio come Simone Biles, nella stessa fabbrica di orrore che è stata – per anni – la squadra americana di ginnastica.

Ci metteremo un po’ a realizzare l’importanza di gesti come quelli di Simone Biles e di altre atlete e altri atleti che prima di lei (Naomi Osaka, Kevin Love) hanno trovato le parole per affrontare, in pubblico, il discorso sul proprio benessere mentale. Una delle più grandi sportive di ogni disciplina esce a metà di un’Olimpiade ed è una lezione collettiva sull’accettare la vulnerabilità, sul farci i conti, sul fermarsi prima di farsi male. È un dono che ogni sportivo – col proprio individuale atto di coraggio – ha fatto al successivo, e che tutti stanno facendo a noi, che lo sport a questi livelli possiamo solo consumarlo. «Sento che non mi sto divertendo più come prima. So che questi sono i Giochi, volevo farli ma in realtà sto partecipando per altri, più che per me. Mi fa male nel profondo che fare ciò che amo mi sia stato portato via. Non appena salgo in pedana siamo solo io e la mia testa e lì ci sono demoni con cui devo confrontarmi». Chiunque abbia dovuto gestire i propri o altrui problemi di salute mentale sa che quello è forse il momento più difficile. Fermarsi, accettare la voragine, indicarla agli altri, chiedere aiuto, o anche solo pazienza, è un atto irreversibile. Lo è nel privato di una vita che non interessa a nessuno se non ai suoi partecipanti, lo è ancora di più su un palcoscenico così aperto, pubblico: quello di Simone Biles è insieme un atto di autoconservazione e di generosità.

Ognuna di queste vicende va innanzitutto raccontata per quella che è: un fatto personale. Bisogna conoscere la vita di Simone Biles, prima di parlare: la madre Shanon, instabile, dipendente da alcol e droghe, fuori e dentro la prigione, i continui affidamenti, l’adozione da parte dei nonni nel 2003. E questi sono solo i suoi primi sei anni di vita. Poi lo sport, la ginnastica, contesto della sua grandezza ma anche incubatrice di un altro trauma: è difficile immaginare la scala degli abusi di Larry Nassar e l’impatto che possono avere su una ragazza già fragile, con una diagnosi di sindrome da deficit di attenzione. In mezzo l’esposizione per essere diventata, nonostante tutto questo, l’atleta che è, in una delle discipline più dure e marziali che esistano, giovane donna nera che ha rivoluzionato uno sport un tempo dominato dai bianchi. È arrivata ai Giochi con la sua emoji personale su Twitter: Goat, «la più grande di ogni tempo». «Qual è stato il momento più felice della tua carriera?», le avevano chiesto una settimana prima di Tokyo. «Onestamente, quando mi sono riposata». A Vogue tempo prima aveva detto: «Dormo tanto, perché è la cosa più vicina che posso permettermi alla morte». C’è un altro dato importante: Larry Nassar ha violentato almeno cento atlete. Tra loro, ce n’è solo una che ce l’ha fatta ad arrivare a Tokyo: Simone Biles.

Le vogliamo vedere competere, vincere, rappresentare, fornirci meme e clip perfette, ispirarci, elevarci, intrattenerci, soddisfare l’industrializzazione del viaggio dell’eroe che è diventato lo sport contemporaneo: nasci, cresci, ti allontani, combatti, vinci, torni. Invece lo sport sta rompendo i suoi eroi più grandi, probabilmente non solo lo sport, ma Simone, Naomi, Kevin, Michael, Aly stanno aprendo uno squarcio e noi ora ci guardiamo dentro, lo dobbiamo a loro e a noi. Non è un caso che sia proprio lo sport a proporre questa grande educazione di massa al benessere mentale come diritto e non come privilegio. La vita di un professionista è una finestra tutto sommato piccola, dalla fine (o spesso dal mezzo) dell’adolescenza all’inizio della vita adulta. Di quello che succedeva dopo non ne sapevamo nulla, abbiamo trattato gli atleti come prodotti con una data di scadenza, qualcuno è riapparso come allenatore o commentatore, degli altri non abbiamo saputo nulla, per generazioni, e ci è andato bene così. Il prezzo lo hanno pagato quando non avevano più voce né presenza pubblica: a chi interessano gli abusi, i problemi o i crolli di un ex sportivo, quando c’è sempre una nuova generazione da consumare? Per questo è decisivo questo atto di aprire la conversazione mentre la carriera è in corso, a costo di perdersi medaglie, podi, soldi, sponsor. Ogni vita di uno sportivo è una corsa contro un tempo limitato, che ne usino una parte importante per curarsi e parlarci di salute mentale è un dono che – ripeto – abbiamo il dovere di accogliere.

Biles ha vinto quattro ori olimpici, tutti a Rio de Janeiro nel 2016; ai Mondiali, invece, ha vinto 25 medaglie complessive, un numero che la rende la ginnasta più vincente della storia al torneo iridato (Jamie Squire/Getty Images)

Parlarne dentro un’Olimpiade è prezioso perché ci ricorda il fatto più importante: non c’è immunizzazione contro la depressione, contro l’ansia, contro la malattia mentale. Che non è democratica, perché chi ha più risorse la affronta con più margine. Prendiamo la storia dell’omicidio di Youns El Boussettaoui a Voghera: è stato inquadrato come la storia di un assessore vigilante che spara a immigrato molesto, ma sarebbe più corretto vedere una persona con un profondo squilibrio mentale non ha mai ricevuto l’aiuto di cui aveva bisogno e ha finito con l’essere assassinata per strada da un assessore vigilante. La stessa mancanza di attenzione alla salute mentale di El Boussettaoui mostra quanto poco spazio abbia nel dibattito pubblico, quando non amplificata dai megafoni giusti.

Ma è anche democratica perché colpisce ovunque e chiunque. Pensare che il successo, o solo una vita buona, stabile e sicura, possano essere un vaccino contro la depressione è una bugia che continua a fare vittime. Persone come Biles ci aiutano a liberarcene e a confrontarci col tema in modo più aperto, e sarebbe anche ora. Lei ha avuto il privilegio di potersi fermare in tempo prima di sprofondare, ma questo non è nemmeno un caso di doppio standard: l’atleta americana fa un uso pubblico onesto del suo privilegio, lo mette a disposizione su una platea globale. Risuonerà negli Stati Uniti e dovrebbe risuonare anche in Italia. Seguiamo lo sport anche per imparare a vivere, ogni vicenda è una lezione che apprendiamo: abbiamo visto politici questa estate invocare lo schema Jorginho o imprenditori proporre il metodo Mancini, ed è giusto, è questa la sua funzione collettiva. Ed è per questo che dobbiamo maneggiare il ritiro di Simone Biles dall’Olimpiade con rispetto, consapevolezza e coscienza, perché ci riguarda, o ci ha riguardato, o ci riguarderà. Poco prima dei Giochi, Biles si era fatta un tatuaggio sul collo. Quattro parole, una frase di Maya Angelou: «and still I rise». A uno primo sguardo quelle parole di onestà pronunciate a Tokyo sembrano un finale, e invece sono un inizio.