In tre giorni di gare a Tokyo 2020, tra batterie, semifinali e finali, Federica Pellegrini ci ha regalato tutto il corollario di emozioni che aveva saputo trasmettere in 17 anni di carriera sportiva internazionale. In una sorta di mini tour d’addio, siamo passati dalla paura quasi disperata, alla speranza, all’esaltazione, per concludere con la felicità rilassata, la pace dei sensi sportiva. Per un’ultima volta, è riuscita a far emergere i valori sportivi e agonistici che l’hanno resa grande, a far parlare la vasca e non le riviste, a spingersi oltre ciò che un certo tipo di narrazione voleva far passare di lei. A entrare definitivamente nella storia dello sport.
Ora che la sua carriera internazionale sembra ufficialmente conclusa, dobbiamo essere onesti: non sempre ha avuto il trattamento che si meritava, o perlomeno quello che andrebbe riservato a una campionessa del suo calibro. A livello internazionale, Federica Pellegrini è una star ammirata e anche un pò invidiata per i suoi meriti sportivi. È stata ripetutamente sulle copertine di Swimming World Magazine, la più autorevole rivista mondiale sul nuoto, nei suoi viaggi in Oriente è sempre stata accolta in modo trionfale e tutte le arene natatorie nelle quali è passata le hanno riservato ovazioni e applausi. Se a Tokyo ci fosse stato il pubblico, una standing ovation l’avrebbe sicuramente accompagnata dopo la sua ultima gara.
I record che ha collezionato dovrebbero parlare da soli: è l’unica atleta della storia ad aver partecipato a cinque finali olimpiche nella stessa gara individuale, l’unica atleta ad aver centrato otto medaglie consecutive ai mondiali nella stessa specialità e, sempre nei 200 stile, ha il record del mondo ininterrottamente dal 2008. Ad Atene 2004 vinceva l’argento con 1’58″22 ed è in gran parte merito suo se il livello di questa gara si è alzato così tanto da far scendere, nella finale di Tokyo 2020, due donne sotto l’1’54. Ha vinto tutto quello che si poteva vincere, passando attraverso tre generazioni di rivali e rimanendo il punto di riferimento fisso nella specialità. Anche ieri notte, nonostante la corsia laterale e lo stato di forma non perfetto, le avversarie non hanno potuto che lanciare uno sguardo alla sua posizione in gara, per essere sicure di non avere sorprese. È riuscita a elevare il nuoto in Italia da sport di nicchia a disciplina fissa nei palinsesti televisivi nazionali, come forse solo Alberto Tomba con lo sci prima di lei. Guardare un suo 200 stile è diventato un rito nazional-popolare, e anche chi non è esperto di nuoto conosce le sue imprese e riconosce il suo volto in televisione.
Tuttavia, come spesso accade alle personalità così riconosciute, non sempre il lato sportivo è emerso come quello principale, già da molto prima che decidesse di partecipare a trasmissioni televisive come Italia’s Got Talent. Negli anni, le sue relazioni sentimentali, le sue foto social, le sue dichiarazioni hanno fatto parlare di lei come le medaglie vinte in vasca, e a volte anche di più. Ogni suo passo falso è stato vissuto come una tragedia, ogni sua sconfitta amplificata come la fine della sua era sportiva. È stata sottoposta a un’attenzione mediatica costante, con gli obiettivi dei paparazzi a circondarla in ogni sua uscita e il suo volto sbattuto in prima pagina spesso senza rispetto; ha subito una pressione che avrebbe stroncato la maggioranza delle atlete, come accaduto, per esempio, alla sua rivale Laure Manaudou. Il suo essere una giovane donna appassionata di moda e attratta dal mondo televisivo è spesso stato considerato, da media e opinione pubblica, come un motivo di distrazione, come causa di alcune sue prestazioni meno superlative di altre. Si è arrivati a dire che, se avesse pensato solo al nuoto, avrebbe potuto fare di più. La realtà è che Federica Pellegrini non ha mai smesso di pensare al nuoto. Dopo quasi vent’anni, possiamo dire che, tra tutte le vittorie, la sua più grande è stata quella di far vincere sempre lo sport.
Lunedì 26 luglio, all’ora di pranzo italiana, si è tuffata per le batterie dei 200 stile libero, un turno eliminatorio che solitamente supera senza particolari problemi. Anche a 33 anni da compiere in pochi giorni, anche se non nelle condizioni fisiche più brillanti di sempre, c’erano pochi dubbi sul fatto che fosse ancora una delle sedici più forti al mondo nella distanza. Passare il turno preliminare, per lei, non è mai stato un problema in carriera. All’esordio, ad Atene 2004, lo superò col quinto tempo, così come a Rio 2016; Pechino 2008 e a Londra 2012 arrivò invece al primo posto, e in Cina era riuscita anche a migliorare il record del mondo. Proprio nei Giochi cinesi, che per distribuzione di orari (batterie il pomeriggio, semifinali e finali al mattino) somigliano alla situazione di Tokyo 2020, aveva reagito alla brutta finale dei 400 stile con il record del mondo nelle batterie dei 200, il pomeriggio stesso.
A Tokyo, però, Pellegrini non è sembrata da subito la classica Pellegrini, ma una versione improvvisamente involuta e inefficace. Lenta in partenza molto più del solito, bassa nell’acqua – il corpo troppo sommerso, nel suo caso, è indice di pesantezza e lentezza – e incapace di effettuare il cambio di ritmo nella seconda parte di gara. Guardarla è stata una sofferenza, abituati come siamo a vederla superare le rivali una a una nel finale; l’abbiamo osservata cedere sotto i colpi delle più giovani – e meno titolate – Siobhan Haughey, Isabel Gose e Freya Andreson, oltre che di Barbora Seemanova, ceca del 2000 che l’ha battuta ai recenti Campionati Europei. Si poteva percepire facilmente la fatica nelle sue braccia, e il tempo finale (1’57”33) ne è stata la conferma. Abbiamo dovuto guardare l’ultima batteria con il fiato sospeso, scorrere i tempi uno a uno e fare la conta, per scoprire che era riuscita a passare il turno con il quindicesimo, e penultimo, spot disponibile.
Pur sapendo di non essere di fronte alla miglior Pellegrini di sempre, un tempo così alto era francamente non pronosticabile. «Ho fatto molta fatica, ma domani si cambia registro», ha detto alla Rai dopo la gara, con lo sguardo ancora rivolto al tabellone dei risultati, lasciando intravedere qualche spiraglio di positività nello sguardo comunque corrucciato di chi l’ha scampata bella. Chiudere la carriera alle batterie non avrebbe tolto nulla al suo valore come atleta, ma l’avrebbe lasciata altamente insoddisfatta: chi la conosce non poteva che aspettarsi una reazione d’orgoglio. Dopo il grande spavento del rischio eliminazione prematura, Pellegrini ha affrontato le semifinali da una posizione per lei inusuale, quella della corsia laterale. Trovarsi alla corsia 1 della seconda semi ha rappresentato sia un pro che un contro: la cosa positiva è stata poter guardare i risultati delle prime otto atlete, facendosi un’idea di massima del tempo da nuotare per accedere alla finale; il problema stava nel fatto che Pellegrini, abituata a respirare a destra, si sarebbe trovata tutte le avversarie a sinistra nell’ultima vasca, vedendole quindi solo con la coda dell’occhio, durante le fasi di immersione della testa in acqua.
Anche nelle semifinali, non è sembrata la Pellegrini sicura che a Gwangju 2019 aveva spaventato tutte, turno dopo turno, per poi involarsi in una vittoria stupefacente. Ai Mondiali coreani, nelle semifinali, aveva stabilito il primo tempo, scendendo a 1’55”14 e dando il segnale definitivo di essere in forma smagliante. A Tokyo, nella nottata del 27 luglio, la gara è scivolata via senza particolari sussulti, con Katie Ledecky – campionessa in carica – nettamente davanti e Seemanova a inseguirla, mentre Pellegrini ha nuotato il 200 che più volte le abbiamo visto fare in quest’ultimo anno, chiudendo con il tempo di 1’56”44, un crono per lei più da batteria che da semifinale. Per la seconda volta in due giorni, abbiamo dovuto ricorrere ai calcoli per capire se la finale fosse stata agguantata, ed è stato qui che Federica Pellegrini ci ha regalato l’immagine più iconica di queste Olimpiadi: aggrappata al bordo vasca, con la testa tra le mani, ha guardato ripetutamente il tabellone nell’attesa che si aggiornasse con la lista ufficiale delle otto finaliste. Il tempo passava così lentamente che ha potuto ripetere il movimento per almeno tre volte, fino alla smorfia di liberazione finale, con il sorriso che è finalmente apparso a confermare la definitiva qualificazione. «Non sono una che si racconta balle, so che le medaglie sono fuori portata. L’obiettivo era la finale e l’ho centrato». Da Elisabetta Caporale, Pellegrini si è lasciata andare nell’ultimo dei suoi pianti post 200 stile, questa volta felice e liberatorio. «Ora voglio solo divertirmi e nuotare il mio ultimo 200 olimpico». Aveva appena aggiunto un record alla sua lunga lista di primati, quello dell’unica donna capace di centrare cinque finali individuali nella stessa gara ai Giochi Olimpici. La finale è stata una vera e propria passerella. Senza alcuna ambizione da podio, Federica Pellegrini è sembrata godersi appieno la sua ultima emozione olimpica, lasciando spazio alle giovani come Titmus e Haughey, possibili eredi della specialità.
Arrivare a questo punto non è stato affatto semplice. Non è detto che una ragazzina dotata di un talento naturale, che a sedici anni diventa la più giovane medaglia della storia dello sport italiano, sia anche attrezzata mentalmente a sostenerlo, quel peso. Ma lei ha fatto sempre leva sulle sue certezze, la famiglia e i tecnici. «Dedico questa finale alla mia famiglia, il caposaldo della mia vita», ha detto dopo la gara di Tokyo, ricordando una volta di più quanto i suoi genitori siano il suo esempio di vita oltre che il porto sereno al quale attraccare nei momenti più difficili. Come quel periodo in cui soffriva di attacchi di panico in gara, soprattutto durante le distanze più lunghe. «Sono tornata a casa e mamma mi ha coccolata, mi sono sentita subito meglio» era stata la ricetta immediata al problema, affrontato e superato poi in modo professionale, con un lavoro su sé stessa profondo e complicato.
La scelta del tecnico, poi, è stata nel tempo una costante attraverso la quale ha comunicato al mondo le sue intenzioni. Dal suo mentore giovanile Max Di Mito, che l’aveva portata al podio di Atene 2004, era passata ad Alberto Castagnetti, il ct della Nazionale, coach esperto e vincente che ha saputo essere per lei un secondo padre e l’ha accompagnata in cima al mondo, fino ai trionfi del mondiale 2009. Dopo la sua prematura scomparsa, Pellegrini ha fatto vari tentativi, alcuni non riusciti (come il connubio con Stefano Morini) e altri più azzeccati, per esempio la collaborazione con Philippe Lucas, ex tecnico di Laure Manaudou. Con queste decisioni, apparentemente istintive e non ragionate, Federica ha spiazzato la stampa e la critica. Il quadro, in realtà, le era ben chiaro: cercava un allenatore in grado di gestire ia sua seconda parte di carriera usando sia il bastone che la carota, assecondando alcune delle sue richieste ma mantenendo il pugno duro su altre. Matteo Giunta è stato l’uomo giusto al momento giusto: l’ha definitivamente spostata sui 200 – lasciando i 400 che mal sopportava – e ha consolidato la parte “a secco” della sua preparazione, che Federica tanto apprezza. Ma quando doveva usare il pugno duro l’ha fatto, non si è mai tirato indietro riuscendo, a farle digerire i lavori più impegnativi in vasca, i ritiri in altura e le trasferte per gareggiare fino al termine della carriera. Giunta ha saputo anche bilanciare le scelte sportive con quelle di vita: ha lasciato che Federica facesse le sue esperienze nella moda e nello showbusiness, nei momenti e modi giusti, programmando ogni volta il suo ritorno in vasca con serietà e precisione, aiutandola – lei che ha già una determinazione formidabile – a scindere i due ambienti e far bene in entrambi. I risultati degli ultimi anni – su tutti i titoli mondiali 2017 e 2019 – hanno confermato che la scelta era tutt’altro che pazza.
Spesso siamo soliti attribuire le fortune del nuoto al boom di risultati di Sydney 2000, la storica edizione di Fioravanti e Rosolino, alla quale è effettivamente seguita un’impennata dei numeri di praticanti nelle piscine di tutta Italia. Senza Federica Pellegrini, però, quella fiammata si sarebbe probabilmente spenta molto presto. Lei ha saputo dare continuità al movimento, fare da collante tra quella generazione d’oro e i talenti del presente – Paltrinieri, Detti, Quadarella – e del futuro, ovvero Pilato, Ceccon, Burdisso; è riuscita a trascinare il movimento in anni felici e a risollevarlo in stagioni meno brillanti; si è caricata sulle spalle il flop di Londra 2012 – zero medaglie in vasca per lei e per tutta la Nazionale – ed è stata alfiere del miglior mondiale di sempre, quello del 2019 a Gwangju; ha saputo reinventarsi nelle scelte tecniche, rigenerarsi dopo gli infortuni, ricredersi quando aveva detto di voler lasciare. Non si è mai guardata indietro, nelle sconfitte, né intorno, quando l’ambiente che la circondava si faceva pesante, ma sempre e solo avanti. «Sono contenta perché me ne vado lasciando la nazionale molto più forte di come l’ho trovata, la più forte che io ricordi» ha detto, sempre dopo l’ultima gara di Tokyo. Ed è questa l’eredità finale della più grande nuotatrice italiana di sempre.