Marcell Jacobs è l’uomo più veloce d’Italia, ma quando non è in pista sembra apprezzare che il mondo scorra a una velocità inferiore alla sua. È calmo, ponderato, meticoloso: la frenesia è qualcosa che non gli appartiene. Misura le distanze a passi lenti, si prepara al riscaldamento nel modo più congenia- le, sempre senza accelerare i tempi. Gli piace godersi il flusso degli eventi. Smanetta con il telefono, quindi fa partire la musica: Sfera, Myers, Tyga, Pop Smoke, tra gli altri. Tutto è perfettamente calibrato per il momento in cui, veloce, dovrà andarci per davvero.
Marcell, quando hai scoperto che correvi così forte? «Sin da piccolo. Mi veniva tutto facile. All’inizio, da bambino, praticavo il calcio, ma non ero portatissimo: correvo tanto ma con la palla non ero granché, e poi c’erano tutti quegli schemi da seguire…». Con l’atletica, invece, è stato amore a prima vista: «Se dovevo correre, correvo forte, se dovevo saltare, saltavo lungo. Qualsiasi cosa facessi, la facevo bene». Oggi, che Marcell Jacobs corra più forte di qualunque altro italiano, non è più un mistero: quest’anno ha stabilito ben due record nazionali, a marzo sui 60 metri con il tempo di 6’’47 (valso l’oro agli Europei indoor di Torun) e, soprattutto, i 9’’95 sui cento metri a Savona, lo scorso maggio. È il secondo italiano, dopo Filippo Tortu, a scendere sotto i dieci secondi. Quest’anno solo in tre sono riusciti a battere il suo tempo: i temibili americani Bromell, Kerley e Baker. Jacobs li ritroverà, tutti e tre, a Tokyo. «I risultati che ho fatto mi hanno portato a essere tra i migliori al mondo. Oggi posso puntare a entrare in una finale olimpica, e lì a giocarmi le mie carte».
Marcell ha 26 anni e si gode il momento, pur senza distrazioni. Può farlo, deve farlo, perché oggi la sua carriera è arrivata a un punto di svolta: due anni fa ha abbandonato il salto in lungo per problemi fisici, il suo destino da ora in poi si chiama velocità. «Aspettavo questi risultati da un po’. Li valevo già da tempo, ma non avevo trovato la chiave giusta per raggiungerli. Adesso ho fatto uno step importante: 9’’95 alla prima stagionale, che solitamente è quella dove vado più piano, e poi i 10’’01 ai campionati italiani di Rovereto, ma con un metro di vento contro: con un vento a favore, quel tempo sarebbe valso molto meno…».
Tutto insieme, verrebbe da dire, come se l’energia che covava sotto questi muscoli si fosse sprigionata da un momento all’altro, quasi senza avvertire. E invece bisogna andare più a fondo: Jacobs non ha tentennamenti nell’individuare gli elementi che hanno cambiato il corso della sua carriera agonistica. «Ho creato un team completo, a tutti i livelli», dice. Si sente parte di una squadra: c’è il suo allenatore, l’ex triplista Paolo Camossi, ma anche manager, fisioterapista, chiropratico e l’ultimo innesto, la mental coach Nicoletta Romanazzi. «Con lei ho fatto un lavoro impressionante. Credo che tanto del mio successo sia dovuto a quello: le doti e le capacità fisiche le ho sempre avute, ma mi mancava quel collegamento testa-corpo, che è fondamentale. Ho cambiato il mio approccio mentale in pista: sono focalizzato su certe cose, evito i pensieri negativi quando non servono… Prima potevo pensare “adesso guarderanno tutti me, chissà se andrò piano”, ma adesso capisco che sono paranoie inutili, so che devo stare concentrato su quello che voglio io, non su quello che vogliono gli altri». E dire che a settembre, quando aveva cominciato a lavorarci insieme, Marcell non ne era nemmeno convinto: «Me l’ha consigliata il mio manager, io all’inizio ero scettico. Non avevo problemi da gestire, mi dicevo. Invece è un lavoro che mi ha cambiato sia in pista sia nella vita in generale: adesso la consiglierei a tutti. I miei risultati hanno fatto da apripista in questo senso: quest’anno, su venti atleti, quindici hanno scelto un mental coach».
La prima parte di allenamento è terminata, ed è adesso che Jacobs dovrà azionare le marce alte. Si sfila le scarpe da riscaldamento per indossare quelle da velocista: bianche, con un baffo tricolore sulla tomaia. Un segnale di buon auspicio. Eccolo provare la partenza dai blocchi, uno, due volte, scatti sempre più meticolosi, senza sbavature. Il suo è un lavoro prevalentemente di dettagli o, come dice lui, «di brillantezza». Correre in 9’’95 potrebbe sembrare un punto di arrivo o un traguardo da sbandierare, e invece di lavoro da fare ce n’è ancora molto: «Ehhh, c’è un abisso ancora!», esclama Jacobs. «Ci sono tanti aspetti tecnici da sistemare. A Savona, quando ho fatto il record personale, la partenza non è stata ottimale, così come una parte di corsa. Si può migliorare in tanto, poi man mano che si va avanti nella stagione subentra la condizione migliore, si ha maggior confidenza». E poi svela un piccolo segreto: «Ho cambiato modo di partire. Solitamente gli allenatori dicono: la partenza si fa così, c’è uno schema. E invece ogni movimento deve adattarsi alla tipologia dell’atleta, sia muscolare sia tecnica. Abbiamo “sintonizzato” la partenza con quelle che sono le mie caratteristiche, e i frutti di questo lavoro si sono visti».
A Tokyo Jacobs ha un obiettivo non da poco: essere il primo italiano nella storia a partecipare alla finale olimpica dei cento metri. In pista non ci sarà Usain Bolt, vincitore delle ultime tre edizioni olimpiche, né altri pezzi da novanta come Coleman e Gatlin. Se c’è un favorito numero uno, quello è Trayvon Bromell, che quest’anno ha corso in 9’’77, primo tempo stagionale mondiale. Tra gli avversari annunciati, gli altri due americani Kerley e Baker, e poi il sudafricano Akani Simbine e il canadese André De Grasse. E poi chissà se non possa esserci un derby tutto italiano con Filippo Tortu. Di certo, una contesa molto più equilibrata che in passato: «Sarà una bellissima esperienza, ma sarà una gara come le altre. Il mio obiettivo non è andare alle Olimpiadi, non è dire “che bello, sono qui”. Assolutamente no. Voglio arrivare in finale, voglio giocarmi tutto quello che posso. In finale può accadere di tutto».
La parola d’ordine, per Jacobs, è ambire sempre a qualcosa di più. «Riesco a gioire di quello che faccio, questo sì, ma non mi accontento mai. Sono focalizzato su dove voglio arrivare: è questa la cosa che mi fa dare di più, che mi fa allenare sempre più duramente. Il record italiano mi dà una consapevolezza in più, mi fa capire che quella è la mia base e non solo un colpo di fortuna. L’ho fatto perché lo merito. Ma io voglio di più. Voglio vincere il più possibile, voglio vincere l’Olimpiade, voglio essere l’atleta più forte del mondo». Il suo è un carattere che affascina. È una persona profondamente sicura di sé, ma con un vissuto tutt’altro che lineare. Marcell è nato a El Paso, Texas, da padre americano e mamma italiana. Ma con il padre non ha avuto rapporti per tantissimo tempo: è cresciuto da solo con la mamma, a Desenzano. «È stata una situazione che ha influito sul mio carattere. Da piccolo stavo comunque bene perché andavo spesso dai nonni o da mio cugino, però non vivevo la stessa situazione familiare che potevano vivere tutti gli altri. Sono cresciuto da solo, mia madre lavorava tutto il giorno… ho imparato a essere molto attento a quello che faccio e a quello che vedo. Con le persone, poi, sono andato sempre a pelle. Non mi sono mai sbagliato. E con mio padre ho sempre avuto un rapporto inesistente. Solo adesso sono riuscito a riallacciare con lui, su input della mental coach. Mi ha detto che non potevo mettere su un muro, dovevo riuscire ad aprirmi».
La sua storia la raccontano anche i tatuaggi sul suo corpo. Sulla schiena, una grande tigre: «Il mio animale preferito: solitario, forte, intelligente. Mi rappresenta». E poi, i nomi dei figli. Ne ha tre: Jeremy, nato da una precedente relazione, Megan e Anthony, avuti dalla sua compagna Nicole. «Sono super legati a me, soprattutto il piccolino, Anthony, che ha due anni: è una colla. È bello, ti dà tanto. Emozioni, responsabilità». Sul petto ha ancora impresso il suo “nome di battaglia” CrazyLongJumper (è così che lo trovate su Instagram), ma se il salto in lungo non gli appartiene più, anche la craziness è mitigata: «Un po’ c’è sempre, ma sono più responsabile. Una volta volevo far festa, divertirmi, oggi so dove voglio arrivare, so che per fare certe cose devo fare dei sacrifici. Da un paio di anni sono molto focalizzato su quello che voglio veramente, senza distrazioni. Sono pronto a fare sacrifici per almeno i prossimi dieci anni».Intanto, si gode l’attenzione mediatica: «Mi fa piacere ricevere tutte queste attenzioni, non la vivo affatto come una pressione». Del resto, gli piace molto la dimensione dei giocatori Nba: lo stile, gli interessi extra-campo. Jacobs ha una grande passione per le sneaker («Dunk e Jordan 1, soprattutto») e, come dice lui, «adoro vestirmi un po’ da tamarro».
Ma l’apparenza non è tutto. Anzi. «Lewis Hamilton, LeBron James, Usain Bolt. Sono loro gli sportivi che più mi ispirano. Sono storie di persone che sono riuscite a raggiungere il successo partendo dal niente. Hanno saputo crearsi tutto da soli senza essere benestanti, facendo sacrifici, passando momenti difficilissimi. Le persone che partono da zero e raggiungono i loro obiettivi mi stimolano, e io mi reputo uno di loro. Mia madre oggi è proprietaria di un hotel a Desenzano, ma ha dovuto sudare, è partita dal fare le pulizie». Adesso tocca a lui: «C’è un detto che mi piace: a un certo punto o mangi o vieni mangiato. Io voglio mangiare».