Qualche settimana fa, quando lo avevo incontrato a Roma per il servizio di copertina di Undici, Marcell Jacobs mi aveva detto: «Voglio vincere il più possibile, voglio vincere l’Olimpiade, voglio essere l’atleta più forte del mondo». Non suonavano come parole di circostanza, banalità proferite per interpretare un ruolo, per recitare una parte: non è qualcosa che appartiene a Marcell Jacobs, che in quelle parole aveva trasposto un significato vero, tangibile, qualcosa che sapeva essere alla sua portata e dunque da imprimere nella sua testa non certo come semplice slogan. La gara olimpica, ora, Marcell l’ha vinta, in una delle giornate più incredibili ed emozionanti di tutta la storia dello sport italiano. In quelle parole, adesso appare in tutta evidenza, c’era qualcosa di più di una semplice convinzione: c’erano anni di dubbi, problematiche, paure, che Marcell ha dovuto sciogliere e superare a poco a poco.
Il 2021 di Marcell Jacobs è stato incredibile, e non si limita solo alla gara che lo ha portato sulla cima più alta dello sport mondiale. Ha collezionato record su record, prima nei 60 metri (a marzo, in Polonia), poi nei cento metri (è andato sotto i dieci secondi per la prima volta a maggio, a Savona, e poi più volte a Tokyo, dove è diventato anche primatista europeo della distanza). Sono risultati che non arrivano da un giorno all’altro, eppure per Jacobs, per certi versi, è sembrato che sia andata proprio così. Ma nulla accade per caso, e lo stesso Marcell ne è stato ben consapevole: dietro questi risultati c’è un lavoro di un intero team, lo ha rimarcato a lungo, ma soprattutto una consapevolezza che gli è derivata da un lavoro mentale profondo, incisivo, totalizzante.
C’è una frase che Jacobs ha scandito con fermezza nel corso della nostra intervista: «Aspettavo questi risultati da un po’: li valevo già da tempo, ma non avevo trovato la chiave giusta per raggiungerli». Se c’è una persona che da questo meraviglioso oro è stata meno stupita di altre, quella è proprio Marcell Jacobs. Che ha iniziato a fare i risultati che sentiva di valere quando ha spazzato via le nubi nere dalla sua testa: quando, cioè, ha preso consapevolezza di sé, del suo potenziale, e del modo di realizzarlo appieno.
Lo ha ribadito a più riprese, in queste ore, la sua mental coach Nicoletta Romanazzi, che nei commenti post-gara è stata spesso (ma non del tutto impropriamente) additata come la deus ex machina del trionfo dell’azzurro. «Quando l’ho visto gareggiare per la prima volta», ha detto Romanazzi, «ho avuto la sensazione che non mettesse a frutto il suo potenziale, come se corresse con un elastico dietro la schiena. Il grosso del lavoro fatto con lui è stato togliere tutto quello che gli impediva di volare, lasciare andare le pressioni, tutto quello che subiva dall’esterno. È stato un percorso in cui Marcell ha preso consapevolezza di sé e del suo potenziale». Un lavoro che non ha riguardato solo gli aspetti in pista, ma pure quelli della vita di tutti i giorni: riallacciare i rapporti con il padre, per esempio, è stato uno dei primi consigli che la mental coach ha suggerito al proprio atleta.
C’era qualcosa di irrisolto, evidentemente, nell’animo di Jacobs, e molto passava anche dalla sua situazione familiare: cresciuto da solo con la mamma a Desenzano, soli contro il mondo, si potrebbe dire, un bambino mulatto che si sentiva diverso non tanto per il colore della pelle quanto perché non poteva vivere la situazione familiare che avevano tutti i suoi compagni di scuola. E quindi il senso di ingiustizia, la diffidenza, l’alzare muri: con il padre soprattutto, ma anche in tanti altri aspetti del quotidiano. E pure in pista: è stato difficile sbrogliare fino allo scorso settembre, quando c’è stato l’innesto della mental coach, le questioni spinose che ancora covavano nel suo profondo.
Jacobs di tutto questo oggi ne è perfettamente consapevole, al punto da averlo raccontato sul sito The Owl Post: «Scattava sempre qualcosa nel mio inconscio, giù nel profondo, che finiva col sabotarmi e col farmi finire in un limbo in cui neppure sapevo se essere arrabbiato con me stesso oppure no. Fino all’anno scorso dicevo a me stesso che questo sono io, prendere o lasciare. Sono fatto così, mi mancano dei pezzi, e non potrò mai rimetterli tutti assieme. Gara dopo gara, ho sempre corso con un asterisco vicino al mio nome. Trovare qualcosa che mi impedisse di fare il tempo-che-avrei-potuto-fare, rendeva la delusione meno amara, perché, in fondo, non è mai stata del tutto colpa mia». Forse non lo voleva assaporare sul serio, il sapore della vittoria: forse Jacobs aveva paura di arrivare in cima, magari per evitare di cadere una volta arrivato lì. Forse si è adagiato a lungo su un pensiero: non sono il migliore, perché non posso esserlo. O perché gli altri non pensano che lo sia.
«Dentro di me c’era una voce, una di quelle che bisbiglia, e che se ascolti la musica al volume a cui piace a me, neppure riesci a sentire», continua il suo racconto. «Mi diceva di non provarci per davvero. Di non andare a vedere cosa ci fosse alla fine del rettilineo. Se non dai il massimo e fallisci, non importa, ti sentirai leggero comunque. Ma se dai il massimo e fallisci lo stesso, allora significa che non sei abbastanza. E quindi ecco che il mio cervello mi ha sempre servito una scappatoia, una volta volta arrivato in pista».
C’è tutto un vissuto, in queste parole, e soprattutto c’è l’idea che uomo e atleta sono due concetti perfettamente sovrapponibili. Non si lascia fuori l’uomo quando si va in pista, e dunque non si lasciano fuori paure, insicurezze, ansie e frustrazioni. In questi Giochi si è parlato tantissimo di pressione, di atleti che non ce l’hanno fatta a reggere le aspettative, come Simone Biles e Naomi Osaka, ma è riduttivo credere che queste sono problematiche confinate a una pedana o a un campo da gioco: sono aspetti che toccano, abbracciano, influenzano il quotidiano degli atleti-esseri umani, e dovremmo rendercene conto quando li giudichiamo, quando pensiamo che non siano stati sufficientemente all’altezza o quando li cataloghiamo troppo frettolosamente.
Marcell Jacobs, per anni, è stato imprigionato in quel limbo: delle paure, delle incertezze, del non sentirsi all’altezza. Oggi c’è chi, dopo l’exploit olimpico, ammette: non ne avevamo mai sentito parlare. E poi, di colpo, eccolo lì, l’uomo più veloce del mondo, il protagonista assoluto della gara più importante di tutta la manifestazione. C’è tanto da imparare dalla storia di Marcell: l’importanza di fare i conti con il proprio lato oscuro, l’esigenza di ascoltare se stessi, il sapersi accettare. «Ho distrutto muri, riallacciato rapporti, compreso che gli spigoli della vita a volte possono ferire, e che quando un animale è ferito non c’è vergogna nel nascondersi. Io sono quello che sono, errori e mancanze comprese, ed essere messo di fronte alla delicatezza della vita mi ha risvegliato qualcosa nel profondo. Ho cominciato un percorso per imparare a volermi bene per come sono fatto e per capire da dove vengo davvero».
È un percorso, e dunque non è un semplice clic come per accendere e spegnere una lampadina. Ma in fondo c’è un traguardo, la riscoperta di tutto quello che sappiamo fare. Jacobs ci è arrivato e lo ha scoperto in fretta: in tutte le gare, dalla batteria fino alla finale, ha colpito la sua sicurezza, il fatto che sapesse già che cosa lo aspettasse dopo, e che a comandare gli eventi successivi sarebbe stata, ancora una volta, la testa, quella che indicava con le dita prima di ogni partenza dai blocchi. Ancora, dalla nostra chiacchierata: «Ho cambiato il mio approccio mentale in pista: sono focalizzato su certe cose, evito i pensieri negativi quando non servono. Prima potevo pensare “adesso guarderanno tutti me, chissà se andrò piano”, ma adesso capisco che sono paranoie inutili, so che devo stare concentrato su quello che voglio io». Vincere un’Olimpiade, per esempio. E scusate se è poco.