La carriera di Tamberi è stata “salvata” da Barshim, il suo avversario a Tokyo

Prima dei due ori in condivisione, il rapporto tra i due era già molto significativo, al punto da condizionare in positivo il recupero psicologico di Tamberi dall'infortunio.

«Possiamo avere due ori?». Quando Mutaz Barshim, il saltatore qatariota, chiede all’arbitro di ribaltare la concezione secondo cui debba esserci per forza di cose un primo e un secondo, la storia sta cambiando. Sta cambiando soprattutto per Gianmarco Tamberi, che questa Olimpiade l’aveva inseguita a lungo, dopo l’infortunio che gli aveva costretto a saltare Rio: è per questo che il saltatore italiano ha portato in pedana il gesso con cui aveva avvolto la sua caviglia nei giorni più bui della sua carriera, e su cui la sua fidanzata Chiara aveva scritto “Road to Tokyo 2020”. Dopo la richiesta fatta all’arbitro, senza nemmeno attendere la sua risposta (“Sarebbe possibile, se…” e le parole sono già diventate inutili), Barshim si volta verso Tamberi, gli porge la mano, e Tamberi gli salta addosso, incredulo.

Tra i due c’è un rapporto di amicizia molto profondo, che va oltre la convivenza in pedana. «Gianmarco è uno dei miei migliori amici», ha detto Barshim, «non solo in ambito sportivo. Ci alleniamo insieme, per noi è un sogno che diventa realtà. Abbiamo voluto dare un messaggio di sportività: ne abbiamo passate tante, abbiamo avuto lo stesso infortunio, sappiamo quanto sforzo richiede tornare a grandi livelli, fisicamente e mentalmente. Apprezzo molto quello che ha fatto, e lui ricambia questo sentimento». Tamberi ha aggiunto: «Ne abbiamo parlato anni fa, ci dicevamo: “Pensa se…”, e oggi è successo. Una sensazione indescrivibile, non potrei essere più felice».

Ma non è solo questo, non è soltanto due amici che condividono un oro, in uno dei momenti dello sport che resteranno a lungo. Quell’infortunio, per Tamberi, è stato molto più di un semplice incidente di percorso: ha rappresentato un crollo di tutto quello che aveva costruito, delle sue certezze e della sua voglia di gareggiare. A lungo Tamberi, una volta tornato in pedana dopo lo stop, non è riuscito a tornare ai livelli a cui era abituato, finendo in una pericolosa spirale di malessere. Proprio Barshim, ha raccontato l’atleta azzurro, è stato determinante nella sua “rinascita” sportiva.

«Quando sono tornato a competere dopo l’infortunio, nel 2017, ricordo che a Ostrava saltai 2,20 metri. Sono abituato al fatto che la folla mi inciti, ma in quella competizione sentivo che anche i miei avversari facevano parte in qualche modo della folla: stavano davvero provando a caricarmi. Mi sentivo come un bambino che gareggiava con adulti. A volte un bambino si ritrova a giocare con gli adulti e tutti gli dicono quanto è bravo, gli passano la palla, gli dicono “dai, dai”. Quello ero io. Mi passavano la palla ogni volta, era una cosa da spirito di squadra. Non posso raccontare al meglio quanto lo abbia apprezzato, e quanto lo apprezzi tuttora».

«Con Mutaz Barshim, poi, ho costruito un grande rapporto. Dopo Ostrava, andai a Parigi, e fu orribile. Mi sentivo frustrato, perché non sapevo se sarei mai tornato ai livelli e alla forma dell’anno precedente. Alcuni saltatori vennero da me, ma io non volevo parlare con nessuno. Me ne andai dritto in camera. Il giorno dopo, Mutaz cominciò a bussare alla mia porta: io gli dissi di andarsene, ma lui continuava. “Gimbo, Gimbo, per favore, voglio parlare con te”. Lo feci entrare, e parlammo. Io piansi. Lui provò a calmarmi, e mi disse quello che aveva da dire. «Non precipitarti, hai avuto un brutto infortunio e sei già di nuovo in Diamond League. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Ora devi prenderti il tuo tempo, ma non aspettarti troppo all’inizio”. La cosa più importante è che mi ha aiutato a capire che dovevo fare tutto questo per me stesso, non per gli altri».

«Dopo quella conversazione a Parigi, dove feci tre nulli, feci una lunga camminata fino allo stadio. Quando ci arrivai, presi il telefono per vedere quale altra competizione di salto in alto ci sarebbe stata nei giorni successivi. Trovai questa gara vicino Budapest e chiamai il direttore di gara. Lo pregai: “Per favore, fatemi competere. So che è dopodomani, ma dovete farmi entrare. Non voglio nulla in cambio, non voglio denaro, anche se saltassi 2,40 metri”. Allora presi a guardare i voli, feci tutto da me, prenotai i voli ancor prima di sapere se mi avrebbero ammesso alla gara. Più tardi, il direttore mi richiamò e confermò la mia presenza. Io gli chiesi di non mettermi nella starting list: il giorno dopo dovevo tornare in Italia, ma non presi il volo. Nessuno sapeva dov’ero: la mia ragazza, i miei genitori, i miei amici. Spensi il telefono, non parlai con nessuno per tre giorni. Le uniche due persone con cui parlai furono il direttore del meeting e Mutaz. Andai a Budapest e feci una grande gara. Nessuno sapeva fossi lì, perché io non volevo saltare per nessuno: lo volevo fare solo per me stesso. Qualcosa cambiò dentro di me, iniziai a rivivere per davvero. Ero di nuovo un saltatore in alto».