La rivincita di Vanessa Ferrari è la celebrazione della volontà

A 30 anni, l'argento conquistato a Tokyo racconta la straordinaria tenacia di un'atleta entrata nella storia dello sport italiano.

Vanessa Ferrari possiede una perfetta consapevolezza dello spazio attorno a sé, di ciò che esso contiene, di quel che in esso avviene. Nei sedici anni di carriera che l’hanno portata dalla vittoria ai Mondiali di Aarhus nel 2006 alla medaglia d’argento alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021 non le è mai sfuggito nulla di quel che entrava e usciva nello spazio attorno a sé, non ha mai dimenticato nessuno di quelli che sono venuti e andati dallo spazio attorno a sé. Ed è questa consapevolezza perfetta, questa memoria assoluta a fare di una medaglia un testamento, di una vittoria una rivincita.

Vanessa Ferrari sa che la sua carriera è la coordinata spazio-temporale che separa la ginnastica italiana che c’era prima e quella che c’è stata dopo. Lo sa e lo dice, con la franchezza che non diventa mai arroganza: la verità non ha difetti, d’altronde. Sa di essere stata per la ginnastica quello che Federica Pellegrini è stata per il nuoto, quello che Valentina Vezzali è stata per la scherma e, chissà, quello che Gianmarco Tamberi sarà per il salto in alto, quello che Marcell Jacobs sarà per i corridori: la scintilla che accende il desiderio di emulazione di un bambino, il momento in cui un ragazzino vede il proprio futuro nel corpo presente del campione.

Quando ha cominciato, Vanessa Ferrari, prima che lei fosse lei, non era facile diventare ginnasti (non lo è nemmeno adesso, certo, ma non lo è come all’epoca, ecco): sua madre non trovava un corso di ginnastica che fosse uno tra Soncino, il paese dove Ferrari è nata, e Cremona, il capoluogo di provincia. Alla fine la madre fu costretta a ripiegare su una scuola di danza, perché non era pensabile che una bambina di sette anni facesse ogni giorno avanti e indietro tra Cremona e Brescia o addirittura tra Cremona e Milano. Ma tanto la madre conosce la figlia e sa che la cosa non durerà a lungo: al primo saggio di danza Vanessa fa un capitombolo che la convince che il problema non è la caduta né l’atterraggio ma proprio la danza. D’altronde nemmeno la madre è mai stata granché convinta del futuro da danzatrice di Vanessa: Galya Ferrari è bulgara, segue tutte le gare delle ginnaste sue compatriote alle Olimpiadi, sa che la figlia si è messa in testa di fare quello e quello farà. Quindi Vanessa si rimette in piedi dopo il capitombolo in quel primo e ultimo saggio di danza e parte per Brescia, che è più vicina di Milano, e comincia la sua vita da ginnasta.

Ha sette anni ma ha già quella perfetta consapevolezza di cui sopra, Vanessa Ferrari: sa che lei è indietro e gli altri avanti, sa che cominciare a sette anni, in quel mondo, significa iniziare tardi. Comincia ad allenarsi un numero di ore al giorno e un numero di volte alla settimana tali da riempire i suoi primi anni da ginnasta di scene degne di un montaggio musicale di Rocky. Si forma in lei la convinzione che se non si sente un po’ di dolore allora non ci si sta allenando abbastanza. Forse sta qui l’inizio dei problemi fisici che la tortureranno per il resto della carriera: in questa fretta di raggiungere chi le sta davanti, in questa necessità di passare in testa lei. Con la perfetta consapevolezza di cui si è già detto, in ogni intervista descrive il suo corpo con l’affettuoso e riconoscente distacco che ogni atleta ha per lo strumento della sua grandezza: non parla mai di sfortuna, Vanessa Ferrari, ma sempre del corpo piegato dall’usura delle ripetizioni e dalla crudeltà del perfezionamento, di un “attrezzo” al quale lei non poteva chiedere di più e al quale non può rimproverare nulla.

Più volte è stato detto e scritto che Ferrari era “finita”, parola dentro la quale sta il desiderio segreto eppure manifesto di veder piangere i bambini prodigio. È il desiderio che portava i giornalisti a chiedersi cosa ci fosse che non andava in quella ragazzina che trattava male tutti dopo la vittoria al Mondiale del 2006, è quel desiderio che portava i commentatori a far finta che una medaglia non sia soltanto un peso attorno al collo sottile di una sedicenne. Quindici anni prima di tutto ciò che ci sembra nuovo oggi, Ferrari raccontava già come e perché vittoria e sconfitta hanno spesso le stesse conseguenze sulla mente dell’atleta. Nell’autobiografia di Ferrari (Effetto Farfalla) e nel libro Vincenti di Ilaria Brugnotti si capisce che Simone Biles esisteva già ieri ed è per questo che è così importante che l’americana abbia parlato: perché se non lo avesse fatto, nemmeno oggi staremmo parlando di problemi che erano già noti ieri.

Ferrari si ricorda tutte le volte in cui la parola “finita” le è capitata davanti agli occhi, le è entrata nelle orecchie. Se le ricorda perché per lei in quella parola stanno le ossa spezzate fotografate in una lastra, i tendini recisi da uno sforzo andato al di là del coscienzioso, le riabilitazioni lunghe 503 giorni. Al Mondiale di Stoccarda del 2007 si rompe lo scafoide del piede durante l’esercizio alle parallele, basterebbe questo per dire che il quarto posto che porta la squadra alle Olimpiadi di Pechino è una soddisfazione, e invece qualche giorno dopo l’infortunio vince il bronzo nell’individuale. Comincia qui la serie di sfortunati eventi che segnerà il secondo e il terzo atto della sua carriera: si fa del male pur di vincere, vince pur facendosi del male, e non si capisce più quale delle due cose avvenga nonostante l’altra. Arriva a Pechino con il tendine d’Achille del piede destro tenuto intero solo dal desiderio di affermarsi dove non c’è modo di essere trascurati o ignorati: va male perché fa male. Il dolore diventa una parte del tutto: nel 2009 vince l’argento agli Europei milanesi (unica medaglia italiana) e il tendine fa male. Arrivano le Olimpiadi di Londra e il tendine fa male. Arriva terza ma in realtà quarta nel corpo libero e il tendine fa male, ma i “cavilli regolamentari” di questo non tengono conto e la medaglia di bronzo va attorno al collo di Alija Mustafina. «Quella medaglia la sento mia e credo mi sia stata sottratta ingiustamente», dirà Ferrari con la perfetta consapevolezza, con la pura verità di chi non si è lamentato neanche delle ossa rotte e dei tendini tirati e che per questo sa e dice quando troppo è troppo.

Nel 2012 voleva ritirarsi. Nel 2013 vince l’argento al Mondiale di Anversa. Nel 2014 l’oro nell’Europeo a Sofia. Ma per lei esiste ormai una corrispondenza quasi esatta tra vittoria e dolore, tra successo e sofferenza: nel 2015 la mononucleosi la sfianca e il dolore al tendine, questa volta quello del piede sinistro, le resta come testimonianza. Ai Mondiali di Glasgow c’è bisogno dei suoi punti per portare la squadra ai Giochi Olimpici brasiliani: i punti arrivano anche grazie al suo allenatore e al suo compagno, che la portano in braccio dalla camera d’albergo al palazzetto dello sport e dal palazzetto dello sport alla camera d’albergo perché il tendine fa male, camminare fa male.

Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro il tendine fa male ma nonostante questo Ferrari decide che per vincere il suo esercizio deve essere più difficile di quanto inizialmente non avesse immaginato. La difficoltà è quella giusta per ottenere una medaglia ma il dolore è troppo, il tendine del piede sinistro la costringe a quei “due passettini in più” che le costano un’altra medaglia: arriva quarta, ancora una volta. Ancora una volta vuole smettere. Ancora una volta decide di continuare. Ancora una volta il tendine fa male e questa volta si spezza: il 19 ottobre del 2017, durante l’ultima esibizione della gara del corpo libero ai Mondiali di Montreal, Ferrari cade e resta a terra per 503 giorni tra operazione e riabilitazione. Inizia in quel momento, in quell’evento, ciò che adesso è finito con la medaglia d’argento vinta ai Giochi di Tokyo. E ancora una volta Ferrari dimostra una perfetta consapevolezza, e questa volta anche dello spazio dentro di sé: dopo quasi due anni passati a curarsi, torna a gareggiare e torna a vincere in Coppa del Mondo, prima a Melbourne, poi a Baku e ancora a Doha.

E alla fine torna a curarsi, senza bisogno di aspettare il suono del corpo che si rompe: «La gamba sinistra è quella che ha sofferto più di tutto il resto nel corso mia carriera ed è quella in cui mi hanno operato al tendine d’Achille. Proprio alla base, sull’inserzione del tendine ricostruito, oggi c’è uno sperone osseo, un pezzetto in più di scheletro che gratta e mi fa male ogni volta che salto e che mi alleno. Va tolto, e ho deciso di farlo subito perché ho davanti agli occhi il sogno grande e limpido di Tokyo 2020 e voglio arrivarci libera da qualunque condizionamento esterno indesiderato. Voglio rivivere l’ebbrezza che finora ho provato soltanto a Londra 2012: quella di un’Olimpiade senza dolori, al massimo della forma e libera di giocare tutte le carte che ho nel mazzo senza pensieri per la testa, senza asterischi preoccupanti di cui tenere conto. Affronto, quindi, un’operazione nuova e ne approfitto per dare una ripulita anche all’altra caviglia, quella destra, che sta meglio ma che non sta bene, e che vorrei ritrovarmi ad agosto leggera e forte. Aspettare non sarà facile perché anche se le ginocchia scricchiolano l’unica cosa peggiore di allenarsi sopra il dolore è non poterlo fare in assoluto. Ci vorranno tre mesi per tornare a correre e saltare ma questa volta li affronterò con tutta la calma che il mio corpo mi chiederà di avere perché voglio ricominciare a godermi la pedana senza affanni e senza dolori di alcun tipo», scrive su The Owl Post in un pezzo in cui racconta la sua carriera e quindi i suoi dolori, in cui descrive il corpo con la freddezza inquietante di chi lo considera strumento, di chi fa di un’operazione una riparazione.

In questa Olimpiade abbiamo capito (perché ce lo hanno spiegato gli atleti) che anche chi trionfa andando oltre i limiti del corpo deve sopravvivere dentro i confini della propria mente. La medaglia d’argento vinta da Vanessa Ferrari libera il dibattito dalle urla disperate delle préfiche del no pain, no gain: stiamo insegnando ai bambini che ritirarsi, cioè arrendersi, cioè perdere va bene! Sì, ritirarsi, arrendersi, perdere va bene, soffrire non è necessario, ed è per questo che chi non si ritira, chi non si arrende, chi vince è lodevole, che chi soffre merita l’affetto. La celebrazione della vittoria e dell’eccezionale saranno sempre la parte maggiore del racconto e della storia dello sport, ma ora sappiamo che esiste anche una parte minore dentro la quale sta il prezzo di tentare e il rischio prima di riuscire. Simone Biles che si ritira e rinuncia a vincere e Vanessa Ferrari che insiste fino alla vittoria sono la stessa storia: la storia di quelli che ci provano e che ci riescono, e che sanno che la differenza tra provare e riuscire sta nella loro volontà, e che capiscono che sacrificio e autolesionismo sono due cose diverse. Con la perfetta consapevolezza che viene da chi sta dentro le cose che succedono, Vanessa Ferrari ha riassunto tutto quanto nel ricordo della sua prima volta da ginnasta: «A essere del tutto sincera il primissimo approccio con la palestra non fu esattamente solo rose e fiori. Per fare un esercizio mi avevano tirato le spalle sulla trave e io per il male mi sono messa a piangere disperata. Se vuoi, non ci torniamo più, dolcezze di una madre. Ci sarei tornata, eccome! Mi ci sono quasi trasferita dentro quella piccola palestra!»