Le lacrime di un dio

Sembrava impossibile pensare di vedere Messi con un’altra maglia che non fosse quella del Barcellona.

Certe notizie non andrebbero date d’estate, in giorni così caldi e religiosamente dedicati all’ozio. Proprio in questi giorni leggevo annuendo, d’accordo ma senza troppo emozionarmi – era pur sempre il 5 agosto e non si vorrebbero altre emozioni se non quelle più delicate delle mattine mediterranee – che il calciomercato estivo è troppo lungo, e dovrebbe, il calcio, prendere a modello la Nba, sempre la solita Nba, e sbrigarsi in una settimana e basta, giorno più giorno meno.

Non andrebbero date d’estate certe notizie perché finisce che, quando si dovrebbe dormire in pace, cullati dai grilli e dal far niente, una stupida notizia di un altrettanto stupido calciomercato è capace di rovinarti il sonno. Una certezza che si sgretola: Messi lascia il Barcellona. E quindi, subito dopo, la ancora più faticosa e fastidiosa ricerca delle fonti e delle motivazioni e dei possibili scenari. Ma perché, che è successo. E dove può andare. E il Manchester City, che ha appena dato la dieci a Grealish. Ma davvero, non è che è una finta. E così via. Il calciomercato, quel gossip frivolo a cui si dedicano solitamente poche energie distratte, e qualche emozione estiva, si trasforma all’improvviso in una notizia vera e propria, di quelle di inaspettata serietà.

Quella di Messi e il Barcellona sembrava una convivenza eterna perché, se pure avevamo visto il Barcellona senza Messi, non siamo mai riusciti davvero a immaginarci Messi senza il Barcellona. Non è una questione di bandiere, e neppure un fatto di cromatismi. Non è neanche una questione di riconoscenza, una parola usata quasi sempre a caso e soprattutto nel mondo del calcio, come se le società non si arricchissero loro stesse grazie a quelle che chiamiamo bandiere, e quindi no, non c’entra o almeno non del tutto quella storia della crescita, di Messi bambino, delle cure per superare le malattie infantili, lo sviluppo ritardato, e così via. È una questione che ha a che fare anche, oppure soprattutto, con la politica.

In questo senso, Messi non è stato soltanto il ragazzino argentino arrivato in Catalogna a pochi anni e poi cresciuto fino a diventare il giocatore più forte di sempre, non è stato nemmeno il fenomeno capace di segnare 120 gol soltanto in Champions League – soltanto in Champions League: è una frase che fa paura, se scandita e rimuginata un po’ più a lungo del normale – o di vincere dieci campionati e quattro Champions, ma un inaspettato, se guardiamo sempre la storia partendo dall’inizio, e quindi da quel ragazzino con la faccia silenziosa e sperduta e forse non troppo cattiva o decisa, leader ben più che sportivo, non messo ma cresciuto dentro lo spogliatoio, come il Barça non aveva mai avuto, forse, dopo Cruijff. Lionel Messi era il Barcellona perché la sua voce era fondamentale nello scegliere i compagni, gli allenatori, e pure i presidenti, anche se la sua carriera non da giocatore ma da piccolo ambasciatore in campo del fuoricampo è costellata di delusioni, come la scelta, presa da altri e contestata da lui, di vendere Neymar, quella di licenziare Valverde, di acquistare Griezmann e pure di mettere sotto contratto Koeman, che non l’ha mai trattato come un semidio, ma come un più pratico e contemporaneo – e nordico? – elemento di una squadra in cui “uno vale uno”.

Messi era molto più di questo, naturalmente, per il Barcellona: nessun atleta ha legato, con le sole vittorie, il suo nome così indelebilmente a un club, nemmeno Pelé con il Santos, naturalmente non Maradona con il Napoli, né Cristiano Ronaldo con il Madrid o Cruijff, Van Basten, Ronaldo, Beckenbauer con Ajax, Milan, Inter, e così via. Non è una questione di bandiere, perché allora ci sarebbe Paolo Maldini, ci sarebbero Gianluigi Buffon e Carles Puyol e ci sarebbero Xavi e Scholes e Lahm e chissà quanti altri, tutti fenomeno e tutti forse nella squadra – roster di 23 giocatori, come ai Mondiali – dei migliori di sempre. È più un fatto di unione di terreno e celeste, sacro e profano. Una divinità che, scegliendo di legarsi a una squadra-entità per forza di cose umana, umanissima, fatta di socios e conti da far tornare – ha rinunciato a un pezzo di aura.

Lionel Messi non ha fatto finora il cavaliere errante portando in giro i suoi talenti, come appunto fecero Cruijff o Maradona o Van Basten o pure Ronaldo, ma ha scelto di legarsi per sempre – per quanto lo riguardava – al Barcellona. I critici diranno che così è più facile: essere costantemente protetti da una famiglia, una società oppure un clan, dettare le regole per vincere, mettersi al centro di un progetto come una stella e costringere l’intero sistema a orbitare intorno a sé. È un modo di vederla, ma è vero anche il suo contrario, o forse soprattutto: così è rinunciare a un pezzo della propria forma semidivina per spartirla con il collettivo, è la consapevolezza di prendersi tutte le critiche e metà degli elogi, è la scelta di accettare senza poter replicare la pigra contestazione che fa: l’avrei voluto vedere in un’altra squadra. Anche i vomiti, i giramenti di testa, i crolli nervosi legati all’Argentina e alle innumerevoli sconfitte albicelesti sono figli di questo matrimonio con il Barcellona e di queste contestazioni: hai visto che fuori dalla Catalogna non vince niente?

Sarà difficile pensare Messi con un’altra maglia che non sia quella del Barça perché lui è silenzioso, al limite della patologia o della stupidità, dicono i maligni, certo gli manca qualcosa per essere maledetto e risulta solo triste e afasico, è uno che non fa vanto di niente, non annuncia pubblicamente di voler «portare il suo talento a South Beach» o chissà dove sarà sui Campi Elisi, non urla «sssiiiuuu» quando esulta e non fa vedere gli addominali contratti come nei concorsi di culturisti oliati alle telecamere e ai tifosi, non è abituato insomma a fare un brand di se stesso e a portarlo in giro pubblicamente come oggi sono costretti a fare tutti i suoi colleghi, che registrano le esultanze, fanno dei logotipi dei loro nomi e ci mettono il marchio registrato in attesa di rivenderlo per qualche serie tv o altre pacchianerie.

Dall’esordio nella squadra senior del Bercellona, nel 2004, Leo Messi ha accumulato 778 presenze e 672 gol segnati, con 35 trofei sollevati al cielo (David Ramos/Getty Images)

Dicono che Messi sia antipatico, perché non parla, non scherza, ride poco e non empatizza con nessuno, e dopo la conferenza stampa in cui annunciava, tra molte lacrime e con un fazzoletto bianco così triste e logoro e poco messianico, l’addio a casa sua, hanno detto che è falso, che sono lacrime di Giuda o di coccodrillo, che avrebbe potuto rinunciare a tutto pur di rimanere, dimostrando una volta di più che tra i mali più gravi del calcio c’è la mancanza di empatia, la crudeltà di voler cagare sulle emozioni dei giocatori, che per questi cori di arpie dovrebbero sempre fare il contrario di quello che hanno fatto.

Invece le lacrime di Messi dovrebbero proprio accontentare quelli che dicono che il calcio ormai non ha più emozioni ed è solo dei ricchi, perché lui ha dimostrato quanto è doloroso andarsene nonostante i soldi. Ma invece no, non andrà bene nemmeno questo, è un mondo che d’altra parte non è fatto per gli introversi, sarà sempre un mondo – quello del calcio, del tifo, il peggiore dei molti mondi in cui viviamo quotidianamente – in cui i soldi degli altri sono sempre immondizia e sempre peccato, in cui se hai successo e sei il più bravo in un sistema che ti ricopre di milioni devi essere per forza stronzo a piangere, non ci pensi ai cassintegrati?

Come sarà il nuovo Messi? Non del tutto felice, ha lasciato intuire anche lui. Non ha voluto fingere di essere l’uomo forte, che si lascia tutto alle spalle: «Un po’ di tristezza andrà via», ha detto, quando ricomincerà a giocare e con il tempo, ma non tutta, sciacquarla completamente è impossibile. Sarà forse ancora vincente, ma probabilmente ripenserà al Camp Nou dove, ha detto con un’umiltà che sembra quasi stupida, che spera un giorno gli concederanno di fare la partita d’addio, fingendo di non sapere che a uno come lui dedicheranno forse lo stadio, il municipio, la bandiera catalana. È anche significativo che pensi già al ritiro, che non veda l’ora di tornare a Barcellona anche solo per l’ultima partita: questi anni che ha davanti serviranno, più che a fare più ancora più grande una carriera già straordinaria, a renderla meno dolorosa.