Quale sarà l’anima della nuova Inter?

La squadra nerazzurra si appresta a difendere lo scudetto dopo una rivoluzione che ha tolto ogni punto di riferimento ai tifosi.

Dapprima fu il volto paffuto e sorridente di Erick Thohir a innescare le preoccupazioni di una piazza che, dopo la lunga presidenza di Massimo Moratti, equiparava naturalmente ogni cambiamento a un salto nel vuoto. Il magnate indonesiano acquistò il 70% dell’Inter nel novembre del 2013, tra le risate generali dichiarò che il suo giocatore preferito della storia nerazzurra era Nicola Ventola, e sempre con il sorriso sulle labbra trascinò l’Inter in una mediocrità impensabile per i tifosi nerazzurri dopo i fasti del Triplete. In breve tempo a Milano si guadagnò il soprannome di “filippino”, forse per la sua piccola statura o forse per via di un confronto neanche troppo velatamente razzista con il padre-padrone appena sostituito, fatto sta che i tifosi nerazzurri grazie a lui capirono di essere entrati definitivamente nel calcio moderno, e che la loro Inter da “gioiello di famiglia” poteva benissimo trasformarsi in ricca plusvalenza nel giro di tre anni: 150 milioni il guadagno netto generato dalla rivendita del club nel 2016 al gruppo Suning, la terza impresa privata cinese per giro d’affari.

L’arrivo della nuova proprietà questa volta non fu pasticciato come quello di Thohir, e soprattutto diede alla piazza un’impressione di solidità del tutto differente. Oltre ai grandi numeri di Suning, a rassicurare l’ambiente nerazzurro c’era pure la bella storia personale di Zhang Jindong, numero uno della holding divenuto straricco grazie a una scalata “meneghina” all’insegna del duro lavoro. Dal quartier generale di Nanchino, inoltre, le voci e le dichiarazioni si rincorrevano: “vengono per dominare”, “la Cina si prende il calcio”, e altre frasi così. Nel corso della cena di Natale del 2018, Steven Zhang, rampollo di famiglia e neopresidente dell’Inter a soli 26 anni, diede adito a facili esaltazioni parlando di un’Inter «destinata a schiacciare tutti, dentro e fuori dal campo».

Nel frattempo, sull’altra sponda di Milano, arrivavano i “cinesi fasulli”. Yonghong Li, neopresidente del Milan, si mostrava alle telecamere con la consistenza e l’ambiguità di un ologramma malfunzionante; i rossoneri prima sorpresero tutti con un mercato prepotente da ben 14 acquisti, poi vennero dichiarati insolventi e quindi furono acquisiti dal Fondo Elliott che li aveva in pegno. Tutto il contrario di quanto accadeva all’Inter, apparentemente: l’ambiente nerazzurro, dopo le tribolazioni indonesiane, iniziava finalmente a percepire la possibilità di una presidenza di lungo corso, di una programmazione vincente, ed era addirittura disposto a barattare alcuni valori e alcune “radici” in cambio della promessa di successi.

Negli ultimi due anni abbiamo di fatto assistito a un progressivo mutamento di identità dell’Inter, nel segno del nuovo corso Suning e di un afflato ancora più internazionale di quanto già non suggerisca il suo nome e la sua storia. Mutamenti difficili da digerire per chi si era innamorato della sua squadra in tutt’altro contesto storico ed economico, ma comunque accettati a fronte, si diceva, della possibilità di una nuova stabilità o addirittura dell’inizio di una nuova era. Certo, è stato un po’ strano vedere lo storico centro sportivo di Appiano Gentile divenire di colpo un “Suning Training Centre”, e qualcuno avrà sicuramente borbottato di fronte all’arrivo in panchina di Antonio Conte, simbolo di juventinismo e di quel drammatico 5 maggio 2002 – il cui ricordo non viene ancora affrontato da moltissimi interisti. Ben più consistenti, poi, le questioni della rinuncia all’inno e del corposo restyling di stemma e maglie. Perché ovviamente il mondo va avanti e l’economia vuole la sua parte, ma non è detto che per questo sia necessario rinunciare a caratteri identitari come le strisce verticali nere e azzurre, sempre più zigzagate, sfumate, camuffate. Oppure al colore oro, che nel nuovo “logo” dell’Inter presentato a marzo non è più presente per questioni di visibilità sul digitale, mentre sarebbe presente nella “frase fondativa” del club: «Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle«.

Ma in generale i tanti cambiamenti sono arrivati in concomitanza di una rinascita calcistica evidente, a tratti irresistibile: il ritorno in Champions nel 2018, il secondo posto della stagione 2019/2020 con annessa finale di Europa League, il diciannovesimo scudetto conquistato a maggio dopo undici anni di digiuno e peripezie societarie. Già prima della vittoria del titolo, però, la nuova era Suning stava già cambiando la sua fisionomia: da sogno si è trasformata in realtà incerta, poi in incubo. A risvegliare i tifosi sono state notizie inizialmente derubricate a voci perché troppo distanti dalla realtà percepita: la holding a corto di soldi, l’Inter nuovamente in cerca di acquirenti. La reazione della piazza è stata scomposta, i giornalisti che hanno provato a parlare della questione sono stati aggrediti furiosamente. La fase della negazione ha previsto che nessuno credesse che ciò stesse accadendo davvero finché Antonio Conte ha lasciato la squadra, seguito a stretto giro da Hakimi. Allo scetticismo si è sostituita quindi in breve tempo la certezza di essere vittima di una crisi economica piuttosto importante, dovuta non solo alla pandemia, e poi la triste sensazione di essere stati infiocchettati ancora una volta con lo scopo di costruire una ricca plusvalenza. A quel punto, il paragone con gli sbeffeggiati “cinesi” dei cugini milanisti è divenuto doloroso ma lecito: al momento, del resto, anche l’Inter rischia al momento di finire nelle mani di un fondo.

È stato un “tradimento” questa volta definitivo, capace di gelare un intero ambiente. Così come quello di Lukaku, il calciatore più rappresentativo della gestione cinese: dopo aver proclamato sui social, urbi et orbi, il suo attaccamento ai colori nerazzurri, il belga ha spinto segretamente per andare al Chelsea, forse per salvarsi dalle cattive acque. Un colpo al cuore per i tifosi nerazzurri, l’ennesimo di un decennio turbolento. L’inizio di un’estate calcistica tremenda, tra la paura dello smantellamento e l’aspra contestazione di una proprietà teoricamente nel momento più alto del suo operato, ovvero all’indomani di uno scudetto appena conquistato e che solitamente «si difende, non si vende», come ha scritto sulla Gazzetta dello Sport Fabio Licari, inquadrando però solo parzialmente i tormenti della piazza milanese.

Hakan Cahlanoglu è arrivato dal Milan a parametro zero: gli ultimi calciatori a trasferirsi da una squadra milanese all’altra erano stati Antonio Cassano e Giampaolo Pazzini, nell’estate del 2012 (Marco Luzzani/Getty Images )

Perché l’ambiente nerazzurro sarebbe in realtà anche storicamente abituato, a differenza di altri, a periodici cicli di magra, così come alla cessione di idoli (prima di Lukaku toccò a Ronaldo, Ibra, Mou), mentre ciò che non può invece assolutamente sopportare è soprattutto la mancanza di un contatto con il proprio club, di un rapporto empatico con la proprietà che manca dal 2013, e questo aspetto non viene quasi mai citato quando a più riprese – e non solo riguardo la questione nerazzurra – ci si interroga sulla disaffezione dei tifosi verso la propria squadra, o su alcune dinamiche del calcio moderno. La presidenza Moratti aveva permesso l’umoralità dei sostenitori della Beneamata, l’aveva anzi stimolata, e non a caso questa è stata considerata a lungo una sorta di topos letterario (ben riassunto dagli “interismi” di Beppe Severgnini). L’ex patron era capace di comprare un Roberto Carlos «per fare un regalo ai tifosi», un Baggio per accontentare la sorella Bedy e uno Sneijder, uomo fondamentale del Triplete, dopo il suggerimento di un barista interista. Come poteva in quel contesto un tifoso nerazzurro sentirsi fuori dai giochi?

Certo, sembra ormai impossibile tornare a quell’epoca di presidenti-tifosi. Ma non per questo si può omettere che, oltre ai risultati sportivi, le piazze e i tifosi pretendono ancora di avere un rapporto con le proprietà, con le società, con i giocatori. Non è possibile discutere di quanto sta succedendo all’Inter e non parlare, allora, della fredda mentalità di Suning e di Steven Zhang: nel momento della controversa cessione di Lukaku – non solo un asset societario, ma anche un simbolo fuori dal campo – non si trovava neanche in Italia.Il tifoso nerazzurro, confuso, si è così ritrovato a cercare spiegazioni in un messaggio Instagram dell’agente Federico Pastorello, che ha parlato – come è naturale che sia – adoperando il linguaggio anti-emotivo dell’economia, e in una “lettera” tardiva dello stesso Lukaku, ovverosia le sei/sette frasi con sintassi da quarta elementare con le quali l’attaccante belga, pur ringraziando tutti, ha comunque ammesso candidamente di ritenere l’Inter un club di secondo piano, da abbandonare per potersi giocare l’occasione della carriera. Parole di ghiaccio in entrambi i casi, incapaci di trasmettere il minimo calore e di risvegliare dal torpore una tifoseria che in pieno agosto è stata abbandonata dalla sua proprietà e sta vivendo un anticipato inverno dei sentimenti.

Difficile infatti continuare ad amare incondizionatamente la propria squadra, come si richiederebbe a un vero fan, se questa non sembra conferire un minimo di senso comunitario al proprio agire, se la volatilità economica e l’urgenza diventano la norma e non l’eccezione, se il futuro diviene di colpo, per l’ennesima volta, un enorme punto interrogativo. Eppure a ciò sono chiamati i tifosi nerazzurri, che già da Inter-Genoa, prima gara del nuovo campionato, torneranno a invadere San Siro. Perché se «la luce sembra morire nell’ombra incerta di un divenire», come cantava De Andrè, c’è da sperare con il poeta che “anche la neve morirà”.