Perché i top club italiani sono poco competitivi sul mercato?

Il successo agli Europei e lo stato di salute della Serie A ci dicono che il nostro movimento non si può considerare in crisi, eppure c'è ancora una grande distanza con le società più ricche e forti d'Europa.

La vittoria dell’Italia agli Europei 2020 ha generato un po’ di confusione. Oppure, diciamola meglio: il luccicante percorso e il trionfo della squadra di Mancini hanno confutato, almeno in parte, alcune teorie ormai radicate nella mente dei calciofili medi italiani, e non parliamo solo di appassionati, ma anche di analisti e sedicenti esperti. Il punto fondamentale di questo pensiero comune e comunitario riguarda il valore – inteso come competitività economico-sportiva – del campionato di Serie A, ormai da decenni alle prese con una crisi gigantesca e manifesta, con un decadimento etico, gestionale e tecnico che ha scavato un solco apparentemente incolmabile con le altre leghe top in Europa.

Tutto vero e verificato, o magari non è tutto così nero, così oscuro: un campionato di livello ormai medio-basso, se rapportato ai più grandi competitor, può produrre 26 giocatori e ospitarne 22 che hanno vinto – con pieno merito, tra l’altro – un’edizione degli Europei? Difficile rispondere a questa domanda in maniera affermativa senza sembrare affrettati, ingenerosi, un po’ miopi. L’andamento degli Europei, anche al netto del trionfo dell’Italia, ha offerto altri segnali contraddittori rispetto a questo palese impoverimento del nostro campionato: alla fine del torneo, i giocatori di Serie A sono quelli che hanno segnato più di tutti (37 gol complessivi, mentre quelli che militano in Bundesliga si sono fermati a 28 e quelli di Premier a 27) e che hanno conquistato il maggior numero di premi Star of the Match, assegnati ai migliori in campo di ogni partita (sono 13 considerando anche lo svincolato Donnarumma, contro i 12 della Premier e gli otto della Bundesliga).

Sono numeri significativi, che non possono essere ignorati. La vera domanda è: sono sufficienti a riabilitare la Serie A come lega e ambiente davvero competitivo? I disfattisti potrebbero rispondere che non è così, anche perché i libri d’oro delle coppe europee parlano chiaro: è dal 2010 che un nostro club non solleva al cielo un trofeo internazionale; inoltre, solo tre mesi fa due giocatori con passaporto italiano (Jorginho ed Émerson Palimeri) sono tornati a vincere la Champions League dopo undici anni di digiuno assoluto – gli ultimi a riuscirci furono Balotelli e Materazzi, con l’Inter di Mourinho. Allo stesso modo, però, ragionare solo in questi termini è frutto di un approccio metodologicamente incompleto, che non tiene conto di alcuni aspetti fondamentali: i 34 trofei per club messi in palio dalla Uefa dal 2011 a oggi anni sono finiti nella bacheca di nove club, tutti inglesi o spagnoli a parte il Bayern Monaco; nello stesso periodo, le squadre di Serie A hanno disputato tre finali e sei semifinali tra Champions ed Europa League, praticamente lo stesso numero raggiunto dai club tedeschi – tre finali di Champions, tra cui il derby Bayern-Borussia del 2013, e sette semifinali complessive. Certo, Liga e Premier sono evidentemente inarrivabili – con 13 e sette trofei conquistati, rispettivamente – ma è eccessivo pensare che le squadre italiane, nel complesso, valgano meno di quelle tedesche e/o francesi, anche alla luce del fatto che le società di Ligue 1, considerando sempre il periodo dal 2011 a oggi, hanno vinto zero competizioni internazionali e hanno disputato solamente due finali (Psg 2020 e Marsiglia 2018) e tre semifinali.

Alla luce di questi dati e di queste valutazioni, è chiaro che il vero gap non è quello tra i vari movimenti calcistici – intesi come somma ideale tra il valore del campionato, la forza della Nazionale di riferimento, il prestigio dei calciatori stranieri che militano in quel Paese. Anzi, parlare in questi termini è piuttosto obsoleto. La Serie A, più che altro, paga e sta pagando un grosso gap economico e manageriale tra i suoi top club e quelli degli altri Paesi: le Big Six del calcio inglese, le tre grandi storiche del calcio spagnolo, il Bayern Monaco e il Paris Saint-Germain. Basta guardare a due classifiche recenti e oggettive per rendersene conto: la Deloitte Football Money League 2021 e quella degli affari di mercato più costosi nella storia del calcio. Nella graduatoria Deloitte, che individua le società con i fatturati più alti e ovviamente tiene conto anche della pandemia, ci sono solamente tre club italiani nella top 20: Juventus (al decimo posto, con 397 milioni di introiti), Inter (14esima, 291 milioni) e Napoli (19esimo, 176 milioni); prima dei bianconeri ci sono Barcellona, Real Madrid e Bayern Monaco, cinque delle Big Six del calcio inglese e il Psg, con un fatturato che va dai 715 milioni del Barcellona fino ai 415 del Tottenham; prima dei nerazzurri ci sono l’Arsenal, il Borussia Dortmund e l’Atlético Madrid; prima del Napoli ci sono Zenit, Schalke, Everton e Lione. Da questa classifica, discende direttamente quella degli affari di mercato: nella top 20, che si costituisce esclusivamente da operazioni concluse nell’ultimo decennio, ci sono solo due affari fatti dalla Juventus, ovvero quelli per portare a Torino Ronaldo e Higuaín; tutti gli altri sono del Psg, delle Big Six di Premier o delle tre grandi di Spagna.

Ora, quello che è accaduto e che sta accadendo a diverse squadre europee – tra cui Barcellona e Inter, costrette a rinunciare a Messi e a Lukaku per risanare parzialmente il proprio bilancio – dimostra come avere grandi introiti non significhi aver messo a punto una gestione virtuosa. Ma certe cifre del fatturato restano, nel senso che restano un indicatore di forza economica e di movimento sul mercato, anche se posseduta solo nel passato. E allora è inevitabile che questa Serie A debba impoverirsi, o meglio che i club italiani siano costretti a cedere i campioni più giovani e più appetibili all’estero (Lukaku e Hakimi, ma anche Romero e De Paul), e a non figurare nella lista di possibili destinazioni per i grandi fuoriclasse in partenza – Messi alla fine è andato al Psg, per Mbappé esiste solo di Real Madrid e in passato si è parlato al massimo di un club di Premier League, Sancho ha scelto il Manchester United.

Secondo i dati di Transfermarkt, i 40 milioni investiti dalla Roma per rilevare Tammy Abraham dal Chelsea sono la cifra più alta investita da una squadra di Serie A, nella sessione di mercato in corso, per un affare in entrata (Paolo Bruno/Getty Images)

Tra il 2018 e il 2019, gli arrivi di Ronaldo, Lukaku e De Ligt sembravano aver dato nuovo impulso al mercato della Serie A, del resto era da molti anni che calciatori appetiti dalle grandi squadre europee, con un valore importante e già riconosciuto su scala planetaria, non accettavano di trasferirsi in Italia. Poi, però, è arrivata la pandemia, e allora tutti i club del mondo si sono ritrovati a dover rivedere i propri progetti, a ridiscutere le proprie strategie: ad aver pagato di più sono stati quelli gestiti in maniera scellerata – primo tra tutti il Barcellona – e quelli italiani. Che, ormai da vent’anni, pagano la scarsa lungimiranza manifestata all’inizio degli anni Novanta, quando la Serie A era la lega più ricca del mondo e non vennero fatti gli investimenti giusti nelle infrastrutture, non vennero differenziati i ricavi, praticamente tutti gli incassi vennero destinati all’acquisto e al pagamento degli stipendi dei migliori giocatori sul mercato – e infatti c’erano cinque club di Serie A nei primi dieci posti della Deloitte Football Money League 2001, ma due anni dopo erano sopravvissute solo Milan, Inter e Juventus, insieme alle due grandi di Spagna, al Bayern Monaco e a cinque società della Premier League, ovvero Manchester United, Arsenal, Liverpool, Chelsea e Newcastle.

In virtù di tutto questo, la Serie A 2021/22 – così come quella degli anni a venire – deve essere considerata come un campionato di buon livello che però non può esprimere più grandi eccellenze europee. Che ha un valore complessivo delle rose piuttosto elevato – 4,6 miliardi di euro secondo Transfermarkt, una cifra molto inferiore rispetto alla Premier League (9,02 miliardi), ma allo stesso livello della Liga (4,9 miliardi) e della Bundesliga (4,2), e superiore alla Ligue 1 (3,7 miliardi) – ma in cui i top club, per diversi motivi, non riescono a mantenere questo status in maniera convincente, duratura. In un mondo più globalizzato, in cui ormai ha poco senso parlare di calcio italiano senza tener conto del contesto internazionale, questa è la vera mancanza, quella decisiva. È la condizione che esclude i club di Serie A dagli albi d’oro delle coppe europee, ma intanto crea un contesto in cui una buona generazione di calciatori, quella nata a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, possa arrivare sul tetto d’Europa. Sembra una contraddizione, ma in realtà non è così. Perché la qualità, in Italia, c’è ancora. Però all’estero ci sono club che sono stati gestiti meglio in un certo momento storico, o che sono semplicemente più ricchi. E allora possono comprarne ancora di più.