Parigi, la città del calcio

Reportage dall’Île-de-France, il bacino di talento più rigoglioso del mondo: qui, tra case popolari e campetti in cui si insegue una difficile integrazione, sono cresciuti Mbappé, Pogba, Kanté e tanti altri giocatori.

Tre adolescenti sono sedute su delle sedie da campeggio Quechua. La prima, truccata come se dovesse andare a ballare, sfoggia un leggero décolleté. Il viso della seconda è coperto da un velo. La terza indossa una tuta coi colori della squadra locale e si è appena innamorata. Non sa cosa fare perché il ragazzo in questione è più grande di lei. «L’amore non ha età», taglia corto, perentoria, la ragazza col velo incoraggiandola a dichiararsi. Qualche metro più in là, alcuni ragazzi commentano gli ultimi avvenimenti in città: uno spacciatore dei palazzoni di fronte è stato arrestato quattro giorni prima. La rivolta che ne è seguita è durata buona parte della sera. Uno di loro ha filmato tutto dalla sua finestra. Il telefono passa di mano in mano. «Wallah, era un delirio», giura il più giovane del gruppo dopo aver guardato lo schermo per qualche secondo.

Intorno, ci sono degli anziani seduti e dei bambini che corrono; un trentenne che fa delle derapate col quad e un ragazzino che cerca di fare delle impennate con una piccola moto da cross; uno scoppio di risate e urla. Dopo, nel mezzo della confusione generale, s’impone il suono di un fischietto: comincia la partita. Allora le circa 300 persone presenti, nonostante le misure restrittive sanitarie, si avvicinano al campo di gioco come un sol corpo e quello che fino a pochi istanti prima sembrava una fiera di paese diventa un’altra cosa: una questione di vita o di morte. La scena accade a Les Ulis, 25 chilometri a sud di Parigi, sabato 8 maggio verso le 18. È una partita della “Coppa d’Africa delle nazioni” organizzata da alcuni abitanti della città. Non serve essere d’origine africana: a questa competizione possono partecipare anche la Francia o il Portogallo. Basta aver vissuto a Les Ulis ed essere in grado di formare una squadra di nove persone in funzione delle loro origini. La partita del giorno vede fronteggiarsi il Marocco e il Mali. Non ci sono telecamere, non c’è niente da vincere ma il coinvolgimento è smisurato. Il pallone circola velocemente, i passaggi sono precisi e i dribbling ambiziosi. Chi perde palla non se la prende coi compagni ma fa di tutto per recuperarla e ogni azione di classe è accolta da degli urrà. In piedi vicino alla bandierina del calcio d’angolo, Youssouf Coulibaly osserva l’incontro, concentrato: «Quello lì ha giocato in Serie C», dice indicandolo col dito, «quest’altro è nella squadra riserve del Paris Football Club ma il prossimo anno dovrebbe passare in prima squadra in Ligue 2. Quest’altro ancora ha l’oro nei piedi, è il più tecnico di tutti, ma la sua testa non lo ha mai seguito. Non ha mai fatto il grande salto».

Coulibaly, 31 anni, è assistente allenatore nella categoria National 3 (equivalente alla nostra Eccellenza, nda) al CO Les Ulis, la squadra di questa cittadina di 25mila abitanti. Qui Anthony Martial, Patrice Evra e Thierry Henry si sono calcisticamente fatti le ossa. Henry è cresciuto nei palazzoni che si stagliano sopra gli alberi, proprio qui di fronte. È lui che ha pagato il campo sintetico in cui si gioca la partita e l’impianto porta il suo nome. «Se il livello è così alto è perché nessuno ha voglia di farsi umiliare davanti alla gente del suo quartiere», spiega Coulibaly. «Nei quartieri l’agonismo è innato, è come se lo si possedesse dalla nascita. Quando un giocatore di queste parti si ritrova poi in un’academy avrà già questa determinazione fuori dal comune che gli altri non posseggono». Accanto a lui Anthony Oxybel, un vecchio allenatore del CO Les Ulis e amico della famiglia Martial, precisa: «Quando Martial parla del suo percorso, non ricorda gli allenatori o la sua formazione. Dice “vengo da Les Ulis”, come se ciò spiegasse tutto da solo. Questo succede a Les Ulis, ma è più o meno simile in tutta la regione parigina».

La Regione di Parigi si chiama Île-de-France. È suddivisa in otto dipartimenti (il secondo livello di suddivisione territoriale dopo le Regioni, simili alle province italiane, nda) identificati con dei numeri spesso citati dai rapper nelle loro canzoni. Parigi, numero 75, ne è il cuore. Gli altri sette ospitano realtà molto diverse che si raggruppano sotto il nome-calderone di banlieue: Seine-et-Marne (77), Yvelines (78), Essonne (91), Hauts-de-Seine (92), Seine-Saint-Denis (93), Val-de-Marne (94) e Val-d’Oise (95). È come se tutta la Lombardia fosse considerata una banlieue di Milano o che il Lazio fosse la banlieue di Roma. Con oltre 12 milioni di abitanti, questa regione è la più popolosa di Francia, la più ricca ma anche la più diseguale. Qui si concentrano tutti i poteri: politici, economici e culturali.

Da poco, è anche il maggiore vivaio di calciatori professionisti del mondo: «È una delle regioni più cosmopolite del pianeta e i calciatori che escono da qui ne sono l’immagine», commenta Anthony Oxybel. C’è di tutto: giocatori neri, arabi, bianchi, grandi, piccoli, forti fisicamente e tecnici. Il fatto che si giochi tutti insieme ci permette di ispirarsi l’un l’altro. È una ricchezza rara». La lega calcistica Paris-Île-de-France ha fatto i conti: nel 2019 159 calciatori dei cinque principali campionati europei erano di Parigi o dei dintorni. Il 6 per cento dei giocatori in attività dell’élite del calcio. 60 “parigini” hanno partecipato alle ultime cinque edizioni dei Mondiali, più della conurbazione di San Paolo, in Brasile, che ne conta 54. Per quanto riguarda le coppe europee della stagione 2020/21, è semplice: tre delle quattro squadre in finale di Champions ed Europa League contano un calciatore originario dell’Île-de-France: Kanté al Chelsea, Mahrez al Manchester City e Pogba al Manchester United. Una cosa mai vista.

Perché la regione parigina è una fucina di così tanti talenti? «Perché non c’è altro che il calcio», ha risposto un giorno Pogba durante un’intervista con Espn quando gli hanno fatto questa domanda. Lui è cresciuto nel quartiere della Renardière, a Roissy-en-Brie (77), 30 chilometri a est della capitale. La maggior parte dei sobborghi si assomiglia e anche questa non fa eccezione. Al di fuori del centro città calmo e fiorito, incasellato tra un cimitero e una linea ferroviaria su cui i treni dei pendolari transitano col loro viavai, offre un paesaggio ingrigito fatto di palazzoni da 15 piani e di palazzi più bassi. Ai piedi degli edifici si trova un campetto sportivo attorno a cui gravitano i giovani del quartiere. Il piccolo campo da gioco sta al quartiere come la chiesa, un tempo, stava al villaggio: il cuore pulsante di una vita locale che offre poche alternative.

Questo pomeriggio, 12 ragazzini sono divisi in tre squadre da quattro: hanno dagli 8 ai 14 anni. Non c’è un regolamento scritto ma è come se fosse scolpito nel marmo di ogni quartiere: chi tocca per ultimo la traversa sta in porta, le partite durano fino a che una squadra fa due gol o al massimo dieci minuti e chi perde esce mentre chi vince resta in campo. «Questo crea un tipo di calciatore che non c’è da nessun’altra parte», ritiene Papis Magassa, originario del quartiere e vecchio allenatore di Pogba ai tempi dell’US Roissy. «In provincia, ci sono degli spazi verdi. Nella periferia parigina si comincia invece a giocare sempre negli spazi minuscoli o in strada. Essere in otto o in dieci in 30 metri quadrati, con i grandi del quartiere intorno, ti obbliga a essere super tecnico ma anche aggressivo. Risultato: sono tutti affamati. Non puoi fare l’esteta o ancora meno giocare semplicemente per divertirti».

Magassa si ricorda di quando Pogba aveva sei anni e giocava ai suoi ordini: nella squadra che allenava, cinque bambini sugli otto titolari provenivano dalla Renardière. «All’inizio, gli altri tre erano “morbidi”. Ma il fatto di avere dei compagni di squadra che ti entrano duro anche in allenamento ti porta molto velocemente a un’alternativa: o molli o diventi come loro. Tutto ciò innalza il livello. Lo vedi nelle partite del weekend: dai dieci anni i ragazzini sono pronti a lottare fino alla morte in campo. L’allenatore non deve fare altro che canalizzare questa aggressività per farne qualcosa di positivo».

Nella sua prima vittoria internazionale nell’Europeo del 1984, la Nazionale francese aveva in rosa soltanto un giocatore originario dell’Île-de-France. Erano invece otto nel 2018, quando la Francia ha vinto il suo secondo Mondiale. Tra i due successi c’è stato «l’arrivo di immigrati maghrebini e poi subsahariani nella regione che offre maggiori possibilità d’impiego, in particolare nell’industria automobilistica o nel settore terziario», spiega Julien Sorez, docente di Storia dello sport all’università di Parigi-Nanterre e specialista del calcio di Parigi e del suo hinterland. «Questa gente si è concentrata soprattutto nelle zone periferiche e siccome il calcio è lo sport più popolare, lì si è sviluppato enormemente».

La politica non è estranea alla questione. A partire dalla campagna elettorale per le presidenziali del 1981, i candidati non vedono più le banlieue come zone operaie ma come il territorio che cristallizza la paura per la disoccupazione di massa e l’aumento dell’insicurezza. I nuovi “problemi” dei giovani erano uno dei temi caldi portati avanti dal partito socialista che avrebbe vinto le elezioni. Come fare per ricucire questo legame sociale che non smette di sfaldarsi? L’idea allora in voga nella cerchia della sinistra era quella di considerare lo sport come collante o almeno come modello d’integrazione per coloro che erano già soprannominati “i giovani dei quartieri”. Queste riflessioni avrebbero portato al piano “J Sports” votato nel 1991 e all’installazione in tutto di 1000 «impianti sportivi di prossimità» sul territorio. In un tempo rapidissimo, i campetti di quartiere spuntarono come funghi in tutta la regione parigina.

«C’era bisogno poi di una scintilla che accendesse la miccia e questa è stata la vittoria al Mondiale del 1998», commenta Jean-Luc Vasseur. L’ex giocatore e poi allenatore dell’Under 17 del Paris Saint-Germain – che ha avuto tra le mani Sakho, Coman, Mike Maignan e Kimpembe, tutti dell’Île-de-France – spiega che «per la prima volta dei giovani dei nostri quartieri hanno visto trionfare dei giovani come loro. Questo li ha spinti a voler fare lo stesso e la Federazione calcistica francese si è resa conto di avere dell’oro tra le mani. Aveva dei diamanti grezzi e non doveva far altro che lavorarli». Per farlo, si è appoggiata alle 1200 squadre di una regione che conta 1268 comuni. La quasi totalità di queste società applica dei prezzi abbordabili per tutti.

«Il livello generale dei giocatori si è impennato a tal punto che le società hanno cominciato a chiedere dei diplomi a tutti i loro allenatori, anche quelli dell’Under 7», osserva Gilles Bibé, direttore sportivo dell’ACBB, la squadra di Boulogne-Billancourt (dipartimento 92) da 18 anni. Ha visto passare, tra gli altri, Ben Arfa e i figli di Lilian Thuram. «A poco a poco, si è passati da un calcio di massa a un calcio d’élite». Youssouf Coulibaly aggiunge: «Oggi gli educatori hanno tutti un progetto per la società, con una direzione da seguire su diverse fasce d’età». Quella di Les Ulis consiste nel «costruire dal basso e sviluppare il quoziente intellettivo del giocatore a partire dall’Under 15: perché in campo succede così? Perché fare questo movimento? Il tutto accompagnato dalla conoscenza di almeno tre sistemi di gioco».

Kylian Mbappé incarna meglio di chiunque altro il successo del calcio parigino. L’attaccante è cresciuto a Bondy, città popolare del dipartimento 93, dove ha cominciato a giocare in una squadra e dove oggi il suo viso campeggia sulla facciata di un casermone nei quartieri settentrionali. Ma Mbappé non è cresciuto nel quartiere né in una famiglia modesta. Dopo aver frequentato scuole private, è stato scelto a Clairefontaine (la Coverciano francese, centro tecnico federale), poi è andato al Monaco prima di riunirsi al Psg che l’aveva lasciato scappare in precedenza. Per non ripetere l’errore, il Psg ha messo a punto la sua struttura di reclutamento. Una struttura di cui è a capo Pierre Reynaud, che supervisiona cinque osservatori che setacciano gli otto dipartimenti dell’Île-de-France praticamente sette giorni su sette. «Ognuno ha un settore che deve conoscere a memoria, dalle squadre Under 10 alle Under 19», spiega. Reynaud fa le cose per bene dando «la stessa importanza ai risultati scolastici rispetto al talento calcistico», anche se altre persone sono meno scrupolose. Queste, purtroppo, sono le più numerose.

In questi ultimi anni i campi da calcio della regione hanno finito per assomigliare a una caccia al tesoro. «Sono cinque o sei anni che il calcio è fuori di testa», si lamenta Bibé. «Sempre più famiglie vedono il calcio come il mezzo più rapido per uscire dalla miseria». Magassa concorda: «Prima l’iniziativa scaturiva dai club. Era: “Ho un buon giocatore, vieni a vederlo”. Adesso ci sono dei selezionatori a ogni partita, a volte addirittura agli allenamenti. Alcuni hanno un procuratore a partire dai 13 anni e tutti quanti impazziscono: le famiglie, perché sperano che loro figlio diventi il prossimo Kylian, e i selezionatori perché sperano di mettere le mani sulla prossima pepita d’oro». Niente di anomalo, dopo tutto: se il livello è cresciuto sui campi da gioco della regione, la situazione dei quartieri non è affatto migliorata dopo le rivolte del 2005. «L’ascensore sociale è sempre fermo. In mancanza di altri sbocchi, l’orizzonte di ascesa coincide sempre di più col calcio», constata Julien Sorez.

Tutto questo non importa alla giovane ragazza di Les Ulis innamorata. All’altezza della linea di centrocampo, incollata davanti al prato sintetico verde, per tutto il primo tempo è tesissima. Accenna un sorriso quando il suo amato segna il quarto gol per la sua squadra. Soltanto la sua amica col velo ha notato il trambusto e la stringe discretamente a sé. Il Mali ha vinto 4-2.

Da Undici n° 38
Foto di Renaud Bouchez