Chi ha più da perdere in questa nuova Champions League?

È la competizione più bella, più attesa, ma anche la più crudele: quale squadra, quale giocatore o quale allenatore non può proprio permettersi di fallire?

La Champions League è storicamente dipinta e presentata come la competizione più bella e più importante, come un vero e proprio teatro dei sogni. Non c’è iperbole in queste parole: è davvero il torneo più affascinante, quello che tutti sperano di giocare e soprattutto di vincere, anzi probabilmente nell’era moderna ha un valore uguale – se non addirittura superiore – alla Coppa del Mondo, da cui si differenzia solo per il carattere annuale, non quadriennale. Proprio per lo stesso motivo, per questa sua grandezza, la Champions League può diventare anche fonte di ansie, di frustrazione, un incubo irrisolto. Basta chiedere a coloro che non sono riusciti a vincerla, a giocatori come Nedved, Buffon, Ibrahimovic, per loro è un’ossessione. Basta chiedere agli allenatori che non sono mai arrivati fino in fondo o fanno fatica a riuscirci di nuovo, con continuità. Anche un po’ sadicamente, quindi, abbiamo deciso di presentare l’edizione 2021/22 selezionando e raccontando le storie di chi non può fallire. Sono soprattutto i favoriti della vigilia, i più attesi, ma non solo. Perché la Champions è bella, anzi bellissima, ma può e sa essere davvero molto, molto crudele.

Il Chelsea campione in carica
Pochissimo tempo fa, tra l’estate e l’autunno 2019, il Chelsea sembrava un club allo sbando: Roman Abramovich era desaparecido, il mercato era bloccato da una sanzione Fifa, la squadra era stata sedotta e abbandonata da Conte e poi da Sarri, e per via di tutto questo fu costretta ad affidarsi a un gruppo di ragazzi cresciuti nell’Academy e a Frank Lampard, un manager senza grande esperienza. In realtà il lavoro fatto negli anni precedenti – a tutti i livelli – e la guida severa e sicura di Marina Granovskaia stavano dando nuova linfa ai Blues, poi a cavallo tra il 2020 e il 2021 sono arrivati un mercato faraonico e Thomas Tuchel, ovvero il tecnico giusto per dare compiutezza a questo nuovo, grande progetto. Il trionfo in Champions League è arrivato subito, forse prima del previsto, e così il Chelsea ha dovuto rilanciare in grande stile: l’ha fatto sul mercato con Lukaku e Saúl, ma soprattutto si è già presentato ai tavoli della Premier e della Champions con l’etichetta di squadra-favorita. Ecco, questa è una condizione scomoda, difficile da sopportare: per vincere, infatti, non bastano grandi investimenti e una programmazione strutturata, servono anche destrezza, fortuna, capacità di lettura e adattamento alle situazioni. E allora il Chelsea ha molto, moltissimo da perdere in questa Champions e in tutta la sua stagione: finora a Tuchel e ai suoi giocatori è sempre riuscito tutto, non sappiamo come riusciranno a gestire i tanti impegni senza potersi lasciare nulla alle spalle, come potrebbero reagire a un periodo negativo, o magari all’infortunio di uno dei pilastri della rosa – Thiago Silva, Kanté e Lukaku non hanno dei veri e propri sostituti, solo dei surrogati. Insomma, il Chelsea stavolta avrà tutti gli occhi puntati addosso, non potrà più essere considerata una squadra underdog, e questo significa che non sono ammessi errori, passi falsi o anche solamente lenti, a maggior ragione in un girone di Champions composto da Juve, Zenit e Malmö. Del resto non sono le aspettative a determinare la grandezza reale di una squadra, quanto la capacità di superarle. A volte è più facile che rispettarle. (Alfonso Fasano)

Cristiano Ronaldo, vicino al crepuscolo
Dove eravamo rimasti? Ah, sì: a quella che è, probabilmente, la peggior doppia recita di Cristiano Ronaldo in Champions League. Le deludenti prove contro il Porto negli ottavi della scorsa edizione hanno di fatto segnato la separazione con i colori bianconeri: non gli è riuscito, nei tre anni di permanenza a Torino, di vincere il trofeo a cui più di tutti è legato il suo nome. Non gli è riuscito né di spezzare il digiuno della Juventus in Europa, né di agguantare Gento nella classifica dei plurivincitori, né di far compagnia a Seedorf nel privé riservato ai vincitori della Champions con tre maglie diverse. Pazienza, la sfida che ora CR7 si è messo in testa è egualmente suggestiva: riportare il Manchester United al vertice del calcio europeo, come non succede dal 2008, quando c’erano Rooney, Tevez, Ferguson e, soprattutto, lui. Il Ronaldo juventino non ha certo deluso in Champions (14 reti in 23 partite, a segno in tre dei quattro turni a eliminazione diretta disputati) ma, rimonta contro l’Atletico Madrid del 2019 a parte, non ha lasciato in eredità le serate da leggenda a cui ci aveva abituato. Del resto, quando a Kiev, fresco di vittoria della sua quinta Champions personale, aveva annunciato il suo addio al Real Madrid, Ronaldo ha voluto evidenziare la sua dimensione – il più grande di tutti che può permettersi di lasciare la squadra più grande di tutte. Se il Real, senza di lui, ha ottenuto una sola semifinale e molti sberleffi, CR7 non può permettersi, ora che il tempo rimastogli a disposizione si assottiglia sempre di più, di lasciare l’amato terreno della Champions senza un’ultima maestosa recita. (Francesco Paolo Giordano)

Kylian Mbappé e tutto il Psg

Aver vinto un Mondiale da protagonista quando non aveva ancora compito vent’anni ha completamente alterato il modo in cui pensiamo  e raccontiamo Kylian Mbappé. Nel bene, certo, ma anche nel male: ancora oggi, la sua narrazione è quella di un giocatore ancora alla ricerca della sua legittimazione in Champions League, di un campione che però “sparisce nelle occasioni che contano”. E questo nonostante i sei gol realizzati a Barcellona e Bayern Monaco nell’ultima fase a eliminazione diretta – tra cui la tripletta al camp Nou che ha chiuso di fatto l’era Messi – e i record di precocità sbriciolati in serie insieme a Erling Haaland, anticipando quella che sarà la rivalità dei prossima dieci anni. Su Mbappé abbiamo una percezione sbagliata, quindi, eppure destinata ad alimentarsi ulteriormente nella stagione in cui il Psg è una squadra pensata e assemblata per non poter perdere, e che quindi deve vincere l’unico trofeo che le interessa davvero. La squadra di Messi, di Neymar e di Mbappé, appunto, che prima di prendersi il futuro del Real Madrid dovrà fare i conti – ritrovandoseli nello spogliatoio ogni giorno – con i fantasmi di quel passato e di quel presente che sembrava aver già spazzato via, segnando nei più grandi stadi del mondo contro i campioni che avevano segnato la sua generazione. Dover fare la differenza, per di più da potenziale separato in casa, potrebbe togliere a Mbappé parte di quella spensieratezza e di quella leggerezza mentale che hanno da sempre fatto parte della sua carriera e che gli hanno permesso di dominare naturalmente in ogni contesto. Convivere con la pressione di dimostrare di poter essere il fenomeno (che già è) in una squadra di fenomeni, perciò, rappresenterà il primo vero momento di svolta di una carriera da predestinato che deve evolvere verso qualcosa di diverso, qualcosa di meglio, di più grande. Kylian può riuscirci, ha le capacità per riuscirci, solo che non sarà facile. (Claudio Pellecchia)

Kylian Mbappé ha esordito in Champions League nel 2016 con la maglia del Monaco; da allora, ha accumulato 45 presenze e 27 gol nel torneo (Franck Fife/AFP via Getty Images)

Il Barcellona in crisi di identità

Il calciomercato del Barcellona si è concluso con la partenza di Antoine Griezmann e l’arrivo di Luuk de Jong. Basterebbe questo a tracciare il perimetro della crisi, per eleggere il Barça come la squadra che si è indebolita di più quest’estate, almeno tra le grandi d’Europa. L’attaccante olandese – giocatore che può essere anche molto funzionale in certi sistemi – è diventato suo malgrado il simbolo di una rosa costruita al ribasso, con ambizioni rimpicciolite e un’aura di decadenza difficile da scalfire. Ai blocchi di partenza della Champions League non c’è un singolo pronostico che veda il Barcellona tra le candidate al titolo. È forse la prima volta che succede negli ultimi quindici anni, cioè da quando Messi è diventato un’assicurazione su un livello minimo di prestazioni e risultati. Eppure nella rosa blaugrana ci sono ancora talenti giovanissimi e pure già esplosi, come Frankie de Jong e Pedri, altri con buone prospettive – il nuovo 10 Ansu Fati, poi Eric García, Dest, Riqui Puig – e in più un Memphis Depay che sembra pronto a caricarsi l’attacco della squadra azulgrana sulle spalle. Questi nomi, però, non possono portare il Barça nel novero delle favorite. E forse non consentono nemmeno di pensare che la qualificazione agli ottavi sia cosa fatta, anche perché nel girone la squadra catalana affronterà una superpotenza come il Bayern Monaco e due underdog pericolosissime (Benfica e Dinamo Kiev). Ci sarebbero tutti gli elementi, insomma, per buttare giù una trama con il Barcellona protagonista di una catastrofe quasi-annunciata. E forse questo è l’unico elemento a favore dei blaugrana: basterebbe una sola nota positiva – una vittoria con il Bayern, un quarto di finale, qualcosa del genere – per dare a tutto il mondo culé un motivo per essere ottimisti. Che è già tanto, di questi tempi. (Alessandro Cappelli)

Pep Guardiola, alla penultima occasione (per vincere come vuole lui)

Pep Guardiola ha detto che la sua esperienza a Manchester finirà alla scadenza del contratto in essere con il City, quindi a giugno del 2023.  Quindi a Guardiola restano ancora due occasioni per vincere finalmente la Champions lontano da Barcellona, la Champions senza Messi. Non c’è un altro allenatore al mondo che abbia esercitato sulla sua squadra il potere e la fascinazione che Guardiola ha esercitato sul City. Si potrebbe dire Zidane al Real Madrid o Klopp al Liverpool, ma blancos e reds esistevano come esistono oggi anche prima di loro. Il City prima di Guardiola era Calogero Sedara di Donnafugata: un pezzente arricchito, abito costoso e barba malfatta. Pep è stato sia il principe Fabrizio che Angelica, fautore e strumento della nobilitazione del parvenu. Ma il parvenu non può diventare più di se stesso se Angelica non sposa Tancredi, e Tancredi qui è la Champions League. Guardiola, quest’anno come gli altri anni, ha tutto per vincere. Ha scampato il pericolo Cristiano Ronaldo e questo, assieme al mancato arrivo di Harry Kane, gli dà un’altra possibilità di vincere come vuole lui: senza sostituire Agüero, spiegando a Foden come diventare il più forte in quello che fa, insegnando a Grealish come si fa la mezzala. Facendo, insomma, della vittoria la fine di un processo di crescita individuale e collettiva che è ciò che resta di lui quando va via. Sono i suoi tic e le sue nevrosi, i suoi eccessi e le sue vanità: sono le cose che lo hanno reso grande, perché ci ha vinto la Champions. Solo che così l’ha anche persa, e potrebbe succedere di nuovo. E a quel punto come la mettiamo? (Francesco Gerardi)

Pep Guardiola è alla sua sesta stagione sulla panchina del Manchester City: è il suo periodo più lungo alla guida della stessa squadra di club (Michael Regan/Getty Images)

Inter, Juve e Atalanta, su di loro il peso di una nazione

Da più di un decennio, ormai, una squadra italiana non può pensare di partire favorita per la vittoria in Champions League, a parte qualche caso rarissimo, davvero eccezionale – la prima Juve di Higuaín e/o la prima Juve di Ronaldo, stop. Pure quest’anno è così, dopotutto l’Inter ha ceduto Lukaku e Hakimi e ha cambiato allenatore, la Juventus ha ceduto Ronaldo e ha cambiato ancora allenatore, l’Atalanta resta una bellissima squadra-progetto fondata sulla valorizzazione del talento, non certo un’aspirante contender per il più importante titolo calcistico del mondo. Magari partire a fari spenti potrebbe essere positivo, ma la verità è che nessuna di queste tre squadre può permettersi di fallire: l’Inter, dopo due cocenti eliminazioni ai gironi, deve staccarsi di dosso l’etichetta di squadra senza dimensione internazionale, di carneade del calcio europeo, in più ha un bilancio un po’ annaspante che non disdegnerebbe l’iniezione di liquidi garantita dall’approdo agli ottavi di finale; la Juventus ha iniziato malissimo il campionato e non può consentirsi ulteriori passi falsi, a maggior ragione in un girone in cui Zenit e Malmö sembrano essere destinate al ruolo di vittime sacrificali, in più un approdo – per esempio – ai quarti di finale potrebbe dare una legittimazione migliore, più certa e profonda, alla ricostruzione avviata da Max Allegri; l’Atalanta deve aspirare a fare uno step in più, in realtà l’ha già fatto sul mercato (tenendo tutti i big a parte Romero e potenziando la rosa con Musso, Demiral, Zappacosta e Koopmeiners) ma ora deve farlo anche in campo, quindi l’eliminazione in un girone che comprende Villarreal e Young Boys (oltre al Manchester United) sarebbe da considerare come una grande occasione perduta, come un passo indietro. Tutte e tre queste squadre devono pure portarsi dietro, sulle spalle, il peso di rappresentare un campionato che ha espresso la Nazionale campione d’Europa, un movimento in cerca di rilancio nella platea internazionale, una Serie A che sta provando ad accorciare il gap con i top club delle altre nazioni europee. Anche il Milan è dentro questo discorso, ma Pioli e i suoi giocatori sono protagonisti di un progetto giovane, ancora in costruzione, sono tornati in Champions dopo otto anni e sono ripartiti dalla quarta fascia, trovandosi per altro in un girone d’inferno con Atlético Madrid, Liverpool, Porto. Quello che verrà, per i rossoneri e per il calcio italiano attraverso di loro, sarà davvero tutto di guadagnato. (Alfonso Fasano)