È giunto il momento di fare una riflessione su un’idea che abbiamo ereditato dal calcio di prima, dal calcio del passato, e che ormai occupa la nostra immaginazione nel format del rimpianto, della nostalgia, nel faldone delle cose che il mondo moderno ci ha tolto: le bandiere. I giocatori simbolo di una città, di una storia, mezzi sindaci e santi laici al di là del bene e del male, del risultato e della sconfitta, figure alle quali avevamo imparato ad attribuire un valore morale più che sportivo. Giannini era Giannini, Bruscolotti era Bruscolotti. La bandiera come uomo di valori, di fedeltà, costanza, attaccamento. Nel calcio di prima la bandiera era spesso un mestiere che si imparava da giovani, un attributo a metà tra il pensiero magico e la profezia che si autoavvera.
Non credo che ci sia stato un momento in cui Totti, Del Piero, Maldini, Bergomi non erano le bandiere che avremmo poi ricordato, sono cresciuti dentro lo status. La Roma, perché è Roma e per tutto il valore che hanno romanità e romanismo quando si intrecciano, è un buon laboratorio per capire la metamorfosi e la scomparsa della bandiera, perché ha avuto dinastie, linee di successione come i Tudor o i Windsor, principi, re, imperatori. L’etichetta di Capitan Futuro attribuita al giovanissimo e poi per sempre giovane Daniele De Rossi era quasi un ricatto emotivo, un marchio assegnato in gioventù che era già tre quarti di destino: tu resti qui, noi ti basteremo e tu ci basterai. Dopo di lui, però, la successione dinastica romanista si è spezzata, nessuno avrebbe fatto quell’investimento reciproco per il futuro su Florenzi e Pellegrini, romani e romanisti che avrebbero potuto (Florenzi) o potranno ancora diventare (Pellegrini) bandiere, ma solo seguendo la filiera contemporanea che tocca a tutti gli altri. Insomma, le bandiere magari non sono ancora scomparse, ma sono una cosa diversa: diventarlo è molto meno un destino, e più un misto di caso, circostanze e volontà. Oggi si scopre solo verso fine carriera di essere stati una bandiera, come gli amori che dall’ansia di perdersi trovavano la certezza di aversi nelle canzoni di De André.
È nella classe media del calcio italiano che si sente di più la perdita nel senso di destino che c’è nelle bandiere di oggi. Al gradino di sopra c’è Chiellini, a tutti gli effetti una bandiera: sedici anni alla Juventus ma con reciproco interesse sportivo ed economico, la società bianconera non avrebbe potuto avere nessuno meglio di lui per il suo quasi decennio di dominio, Chiellini non avrebbe potuto aspirare a meglio, non c’è quella componente di sacrificio che dà il senso morale alla cosa. Nel calcio minore si resiste per l’inerzia nelle difficoltà o nelle ascese, è una meccanica diversa, più schiettamente romantica, il poverty porn con cui guardiamo al rapporto tra Pellissier e il Chievo o al lungo viaggio di Magnagnelli col Sassuolo dalla C2 alla A.
Il Napoli o la Lazio, con le loro arcigne presidenze e le tifoserie sentimentali ma scorbutiche, sono il laboratorio della bandiera nuova. La filiera attuale sono le incertezze che solo a posteriori ci spingono a dire che Hamsík, Koulibaly o Mertens sono bandiere per i tifosi del Napoli, nonostante i tanti addii schivati. Milinković-Savić è alla settima stagione alla Lazio, spesso è stato in procinto di partire, forse è rimasto incastrato, forse è felice, forse – come a volte succede – entrambe le cose. Ma dopo quanto accederà allo status di bandiera della Lazio? Sono storie da coppie turbolente, non è il romanticismo delle famiglie in cui si stava insieme decenni senza un fiato e che andava bene per i Bergomi o i Maldini, ma l’amore al tempo della tentazione perenne. Oppure c’è Lorenzo Insigne: in un altro decennio sarebbe stato bandiera per status, diritto di nascita e precocità del talento, invece la sua condizione – capitano napoletano e miglior giocatore del Napoli da dieci anni, più o meno – non lo ha preservato dal dover seguire il percorso del suo gemello Mertens: meritarsi la possibilità, fare pure una maledetta fatica e comunque vivere sempre con la valigia mezza pronta e la lite sempre innescata.

Meridiano di sangue di Cormac McCarthy è la storia di un gruppo di cacciatori di scalpi dell’Ottocento americano che si legge come la genesi violenta del capitalismo, accumulazione senza legge morale. «Tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perché in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto», dice una notte, ai compagni riuniti attorno al fuoco, il diabolico ideologo del gruppo, il fisicamente immenso giudice Holden, rivolto soprattutto al ragazzo senza nome e in cerca di sé protagonista del romanzo. Anche per la descrizione fisica che ne fa McCarthy, sembrano davvero Raiola e il giovane Donnarumma. Holden a un certo punto aggiunge alla sua arringa: «La guerra è un’effrazione dell’unità dell’esistenza», una frase bellissima e tremenda, un’idea che si può applicare bene al calciatore contemporaneo, che tutto può aspettarsi (gloria, fallimenti, soldi, infortuni) tranne l’unità dell’esistenza, perché sarà in perenne movimento tra un deserto all’altro come i cacciatori di scalpi del west di McCarthy. Vite (sportivamente) brevi, inquiete e instabili, qui un’esistenza immobile viene sconsigliata dai mentori, sembra uno spreco, la negazione del gioco, bisogna agitarsi, chiedere, accumulare, aspirare, brigare, arrivare in cima e poi eventualmente cominciare a scendere. E chi spezza questo percorso, oggi, e si ferma perché ha trovato un posto dove trova ragionevole e bello farlo, forse sarà felice (quanto è stato felice, per esempio, Mertens a Napoli?) ma poi avrà un prezzo di pagare. Non solo i mancati guadagni di una carriera più inquieta e affamata, ma anche quel difetto di grandezza che vediamo nelle precarie bandiere contemporanee.
È uno dei pregiudizi più solidi del calcio oggi: chi si ferma fuori dalle squadre di élite è per forza di cose meno forte, è una discussione che non si ha quasi più nemmeno al bar, a un certo punto abbiamo deciso che era così. Viene da chiedersi se sia proprio vero guardando allo strapotere col quale ha iniziato la stagione Koulibaly, atleta appagante da guardare e ormai definitivo, un punto di arrivo del gioco. Eppure, quando si scriverà la storia del suo ruolo, ci si ricorderà di lui? Un pari grado e talento come Virgil van Dijk lascerà in eredità una bacheca molto più vistosa e così avrà un biglietto per la storia del calcio che nessuno gli potrà negare. La fedeltà di Koulibaly a una città che non era la sua, dove è stato felice, si è formato come uomo e calciatore, che ama e dalla quale è amato, porta con un sé una pregiudiziale: non è così grande, se si è fermato lì è perché ha raggiunto il suo limite, non perché aveva costruito un legame che valesse più dei gradini successivi. Forse siamo i primi a non credere più all’«unità dell’esistenza» e quindi alle bandiere, nemmeno quando ne vediamo una. Ci siamo convinti di quella terribile verità che Holden spaccia ai suoi soldati in Meridiano di sangue: «La legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprivare il più forte a vantaggio del più debole».