Alla conferenza di presentazione come allenatore della Roma, José Mourinho rilasciò una dichiarazione che a prima vista sembrò esclusivamente una frecciata ad Antonio Conte. Lo era, ma c’era dell’altro. «Ci sono allenatori nella storia dei club, che tu non devi paragonare mai. Ok? In questo club ad esempio se parli di Liedholm o di Fabio Capello, non paragonarli mai con nessuno. Quando tu parli dell’Inter, non paragonare nessuno con me o con Helenio Herrera». Prendi e porta a casa. In quelle parole, però, c’è anche la capacità di Mourinho di mettere a fuoco una situazione. Lo Special One studia. Sempre. E ha studiato i profili di chi a Roma ha vinto. Nils Liedholm, decisamente distante dal portoghese pur possedendo una battuta fulminante ma meno diretta: le sue erano freddure a lento rilascio, che ti lasciavano interdetto. E Fabio Capello, che è quanto di più lontano possa esserci dall’essere istrione. Non ci ha messo molto, José, a capire che avrebbe dovuto limare qualcosa del suo repertorio.
Perché Roma è complicata. È il trionfo del cinismo. Ha lo sguardo attento ma disincantato di chi ha osservato la storia in prima fila. Ama essere adulata, certo, ma ti sgama (per dirla come i romani) se provi a prenderla per i fondelli. E se Roma scopre il tuo gioco e non ti stima più, è finita. Devi solo andare via. E allora Roma preferisce chi la vive con rispettosa distanza – Liedholm, soprattutto, che nella capitale è ancora venerato, e Capello – a chi gioca a fare il “gaggio”, lo splendido, l’esibizionista. E ci fermiamo qui per non usare parole volgari.
Già nell’accoglienza riservata allo Special One, Roma scelse il tono della relazione che avrebbe desiderato. Un murales piccolo, non invasivo: lo Special One in Vespa nel cuore di Testaccio tempio della romanità, proprio di fronte alla ex sede dello storico Roma Club. Un richiamo a Vacanze Romane. Fu una richiesta di stile, sobrietà, eleganza. È il motivo per cui Mourinho non sta ripetendo il solito copione. Stavolta è concavo, non convesso. Rispetto a dieci anni fa, i capelli bianchi sono tanti, lo sa bene, e sta interpretando il ruolo del saggio. Non ha più le physique du role dell’impulsivo. Sembrerebbe fuori tempo, per non dire patetico.
Il portoghese è uno straordinario osservatore, assorbe tutto quel che lo circonda. Studia quotidianamente come prendere la città e i suoi tifosi. Sta lavorando per creare l’ambiente, l’entorno come dicono gli spagnoli. Ha preso casa ai Parioli e la mattina lo si trova in un bar a prendere il caffè. Appena arrivato, disse che sarebbe stato bellissimo se i calciatori potessero essere già in campo quando all’Olimpico si suona “Roma Roma” di Antonello Venditti. E ha ragione. Perché è da brividi, sempre, il momento in cui la musica sparisce ed è lo stadio a cantare le ultime strofe. In quel momento, senti di poter andare in battaglia. E José, da autentico condottiero, lo ha capito.
Mourinho alterna bastone e carota. Corre sotto la Sud quando El Shaarawy segna nel finale contro il Sassuolo e subito dopo quasi chiede scusa e si rifugia nel fanciullino: «È stata la corsa di un bambino». Ha scoperto la tenerezza. O, più probabilmente, sa che la tenerezza a Roma può funzionare. Soprattutto quando vinci e da te nessuno se lo aspetta. Vince cinque partite di fila e dichiara: «Ne abbiamo vinte cinque, non cinquanta. La gente, i tifosi, sono felici. Penso però che anche loro devono essere equilibrati come lo siamo noi». Non sarà mai Liedholm, ne è consapevole. Ma è affascinato da questo nuovo ruolo. Per una volta, gli è richiesto di essere più pompiere che incendiario.