A Salerno il calcio è del popolo

La Salernitana è di nuovo in Serie A dopo 23 anni, ma una promozione non è abbastanza: una delle tifoserie più calde d’Italia sente che la società di Lotito non ha alcun legame con la città, con la storia e l'identità granata.

Anche se si trova all’interno del territorio comunale di Salerno, lo stadio Arechi è piuttosto distante dal cuore della città. Per arrivarci partendo dal centro storico – un groviglio di vicoli che si arrampicano in collina, un luogo bello, disordinato, pregno di vita – si deve fare un piccolo viaggio che racconta la storia di Salerno, la sua evoluzione architettonica e socioculturale: dopo aver attraversato il Lungomare Trieste, un salotto in stile liberty che si affaccia sulla spiaggia e sugli scogli, si costeggiano i quartieri residenziali sorti in epoca fascista; poi si passa accanto ai condomini e alle villette a schiera della periferia sud, il frutto di un’espansione che risale agli anni Sessanta e Settanta, dopo il boom economico.

A pochi metri dallo stadio, infine, si incrocia lo scheletro del palazzetto dello sport, un’opera incompiuta i cui lavori sono stati appaltati nel 2005, e i cui cantieri sono stati aperti e poi chiusi pochi mesi dopo. Nel luglio del 2021, il Comune di Salerno ha annunciato che il vecchio progetto, obsoleto e sovradimensionato, è stato accantonato. Al suo posto sorgerà un palazzetto più piccolo, «proporzionato ai bisogni della città». Salerno, nel frattempo, non ha potuto fare altro che aspettare.

Nel mezzo dell’estate 2021, Salerno è evidentemente reduce da una festa. In tanti punti della città ci sono bandiere e nastri e striscioni granata. Alcuni sono rimasti intatti, altri sono stati strappati dal vento, altri ancora sono scoloriti al sole. Salerno aspettava questa festa da tanto tempo: era dal 1998, infatti, che la Salernitana non raggiungeva la Serie A. Ci è riuscita pochi mesi fa, al termine di due decadi piuttosto confusionarie: dopo l’immediata retrocessione del 1999, la società è fallita ed è rinata due volte, nel 2005 e nel 2011; dopo la seconda rifondazione ha anche disputato il primo e unico campionato non professionistico della sua storia, la Serie D 2011/12 – però con il nome apocrifo di Salerno Calcio.

Il ritorno in Serie B si è concretizzato nel 2015, quattro anni dopo la salvezza è arrivata al termine di un drammatico playout contro il Venezia. In virtù di questo calvario sportivo, e considerando che quello iniziato da poche settimane è solo il terzo campionato di Serie A nella storia del club (l’esordio risale alla stagione 1947/48), la festa per la promozione avrebbe potuto e dovuto essere travolgente, un momento indimenticabile per un’intera generazione di tifosi. Non è andata proprio così: Cristian, studente d’arte che vive in città, racconta che «Salerno ha celebrato il ritorno in Serie A con un po’ di distacco. Certo, i tifosi storici sono scesi in strada a festeggiare, si sono mescolati a tanti ragazzi che erano molto felici, anche perché non avevano mai assaporato questa gioia. Ma devo dire che non c’è stato grande trasporto. È stato bello, sì, ma non quanto ci aspettavamo».

Il primo stadio della Salernitana è intitolato dal 1952 a Donato Vestuti, fondatore del Football Club Salerno – uno degli antenati diretti della società granata – morto sul Carso nel 1918. Il calcio e la Salernitana non abitano più qui da molto tempo, oggi al “Vestuti” ci sono delle palestre e degli uffici non proprio modernissimi, né belli a vedersi. La vera anima dello stadio, però, resiste ancora, sopravvive al suo esterno: circumnavigando il muro di cinta – grigio, altissimo, del tutto simile a quello di un carcere – ci si imbatte in molti murales e manifesti sulla Salernitana. O meglio: alcune di queste opere grafiche riguardano effettivamente la squadra, ma molte altre – a cominciare da quella che immortala Carmine Rinaldi detto O’ Siberiano, capo-ultras morto nel 2010 – sono dedicate ai gruppi organizzati, oppure a persone comuni che tifano Salernitana. Ed è così anche in altri quartieri del centro, addobbati da stendardi stampati con nomi e volti che sono familiari solo a chi frequenta l’Arechi. Persino sui cartelli degli annunci mortuari ci sono dei riferimenti alla Salernitana, ai club di tifosi, al fatto che il defunto fosse «un fedelissimo granata».

A Salerno, è evidente, il pensiero comune e radicato è che il calcio appartenga sul serio al popolo. È una rivendicazione costante, urlata, non è solo uno slogan preconfezionato anti-Super Lega. I tifosi granata sanno e sentono di essere i veri protagonisti della storia della Salernitana, quindi del loro stesso racconto; sono idoli, modelli da seguire per gli altri tifosi, molto più dei giocatori, degli allenatori, dei presidenti. Luca, impiegato 50enne, spiega che tutto questo «è legato all’identità localistica di Salerno, il piccolo capoluogo di una provincia molto estesa fatta di tanti paesi in cui ci sono squadre con una certa tradizione, anche a livello di Serie C. Negli anni Settanta e Ottanta si giocavano dei derby infuocati e andava affermandosi il movimento ultras, e quindi seguire la Salernitana in casa e in trasferta significava vivere certe dinamiche, provare certe emozioni. Forse a Salerno siamo ancora legati a quell’idea di calcio sociale, di tifo come aggregazione, solo che da allora sono cambiate troppe cose e quindi ci siamo dovuti costruire dei miti diversi. Oggi non c’è più niente, manca una reale identificazione tra città e squadra. E quindi noi non possiamo fare altro che ricordare, e aspettare un nuovo cambiamento».

I quattro settori senza raccordi dell’Arechi hanno una forma squadrata e sono ripidissimi. Guardandoli da fuori, ricordano le curve dei grandi stadi argentini, ma anche una costruzione fatta coi Lego. La Salernitana gioca qui da 31 anni, e anche il trasloco dal vecchio “Vestuti” fu la fine di un’attesa lunghissima: Salernitana-Padova del 9 settembre 1990 fu la prima partita nel nuovo stadio, ma sancì anche il ritorno dei granata in Serie B dopo 23 stagioni vissute in terza divisione. Di lì a poco le quote del club vennero rilevate da Pasquale Casillo, presidente del Foggia e poi anche socio del Bologna. Casillo fu il primo grande fautore della multiproprietà nel calcio italiano, e si scontrò frontalmente con la città e la tifoseria proprio perché possedeva un’altra società, per di più in Serie A.

Nel frattempo, però, lui e il suo uomo d’azione e poi successore, Aniello Aliberti, assunsero Delio Rossi come allenatore e avviarono un’era indimenticabile per tutti i tifosi granata. Mario, docente di liceo che segue la Salernitana allo stadio da trent’anni, racconta che «guardare la squadra di Rossi era un’esperienza magica, e non solo perché con lui abbiamo assaggiato la Serie A: anche nelle stagioni precedenti, in Serie B e in Serie C1, riempivamo lo stadio ogni domenica per poter apprezzare un gioco offensivo, intenso, spettacolare. L’Arechi era un laboratorio calcistico e noi eravamo orgogliosi, non a caso abbiamo applaudito anche una retrocessione. In quella Salernitana del 1999 che mancò la salvezza solo all’ultima giornata, e che fece benissimo anche con Oddo in panchina, c’erano Di Vaio, Gattuso, Di Michele, Fresi, i fratelli Tedesco. Il fatto che quella squadra giocasse così bene, che avesse tanti calciatori di ottimo livello, ci faceva sentire rappresentati».

Da molto tempo, ormai, il rapporto tra la Salernitana e la sua gente è davvero teso: un anno fa, dopo l’ennesima protesta nei confronti della proprietà di Claudio Lotito e Marco Mezzaroma, i dirigenti sono arrivati persino ad annullare la presentazione alla stampa di Fabrizio Castori, il nuovo allenatore. Fin dal suo arrivo a Salerno, nel 2011, i tifosi contestano a Lotito – coerentemente con l’era-Casillo – un interesse relativo nei confronti della squadra granata, il fatto che la consideri poco più che una succursale della Lazio, ma anche alcuni atteggiamenti e dichiarazioni poco concilianti nei loro confronti. Una su tutte: nel 2019, l’anno del centenario del club, Lotito disse che «il problema della Salernitana è l’ambiente che si lamenta a sproposito. Dov’è stata questa società in cento anni di storia?».

La promozione in Serie A è arrivata nel mezzo di questa guerra aperta, per merito di una squadra «che ha saputo isolarsi, chiudersi in una bolla, e poi è riuscita a esprimere un’identità di gioco peculiare, grintosa, che ha fatto affezionare i tifosi. Tutto grazie a mister Castori, che ha dato una direzione chiarissima ai suoi ragazzi fin dal primo giorno di lavoro». Queste parole sono di Tommaso D’Angelo, direttore del quotidiano Le Cronache di Salerno, volto storico del giornalismo locale. Quando D’Angelo spiega qual è lo stato attuale del rapporto tra società, squadra e tifoseria, sono passati pochissimi giorni dall’iscrizione della Salernitana in Serie A, un atto formalizzato al termine di un lungo contenzioso con la Federazione e solo dopo il passaggio delle quote di Lotito e Mezzaroma a un trust – che ha l’obbligo di trovare un soggetto compratore entro il 31 dicembre 2021, pena l’esclusione dal campionato.

«Quello che è successo prima dell’iscrizione», spiega D’Angelo, «ha determinato lo strappo definitivo tra Lotito e la città. La proprietà aveva assicurato che non ci sarebbero stati problemi, e invece abbiamo rischiato di non disputare la Serie A. La paura è che da qui al 31 dicembre possa succedere l’irreparabile. Nel frattempo la società avrà lavorato per mesi senza una guida e senza certezze, e la squadra avrà giocato metà campionato contro avversari molto più forti. È una situazione negativa soprattutto per i tifosi: loro sono sempre stati legati alla maglia indipendentemente dalla categoria, ma ad oggi la Salernitana non ha un progetto, e soprattutto non ha un’identità. Così sono riusciti a rovinare persino una promozione attesa per 23 anni».

Il 6 settembre 2021 la Salernitana ha annunciato l’acquisto di Franck Ribéry dalla lista degli svincolati, e poi lo ha presentato nel corso di un evento allo stadio Arechi. Qualche ora prima, il direttore sportivo Angelo Fabiani ha detto in un’intervista che «Ribéry a Salerno è come Maradona a Napoli». Forse prendere un giocatore di questo calibro, anche se 38enne, era l’ultimo e unico tentativo ancora possibile – un tentativo di certo suggestivo, ma anche comodo, furbo, proiettato solo nel presente – per provare a riallacciare un rapporto con la città, per tentare di riaccendere l’entusiasmo almeno per qualche istante, per cercare di ripagare tanti anni di attese e mancanze, di identità perduta. Questo tentativo, almeno nelle sue intenzioni iniziali, sembra aver funzionato: ad accogliere e ad applaudire Ribery c’erano 13mila tifosi. E tra questi c’erano anche gli ultras della Curva Sud Siberiano, che nelle ultime stagioni disertavano lo stadio e invitavano gli altri tifosi a farlo. È un gesto che significa molto, da queste parti. È un nuovo inizio, forse. L’ennesimo.

Dal numero 40 di Undici
Foto di Piergiorgio Sorgetti