Non si può togliere il ghetto da Zlatan Ibrahimovic

Un'infanzia e un'adolescenza complicate a Malmö, le discriminazioni, la voglia di rivalsa: il giovane Ibra è ancora vivo nel calciatore diventato icona.

Zlatan Ibrahimovic nasce a Malmö il 3 ottobre 1981, figlio di Sefik Ibrahimovic, impiegato alla manutenzione in alcuni condomini del quartiere, e Jurka Gavric, donna delle pulizie dal carattere particolarmente sanguigno: uno dei primi ricordi del nostro eroe sono le cucchiaiate di legno ricevute in generosa quantità dopo ogni piccola o grande marachella domestica – talvolta venivano impartite con così tanto vigore che il cucchiaio si spezzava a metà. Dal loro breve matrimonio nascono Zlatan e Sanela; ma alla famiglia vanno aggiunti anche i fratelli Aleksander e Sapko, morto di leucemia fulminante nel 2014 a soli quarantun anni, e le sorellastre Monika e Violeta, figlie di una successiva relazione di Šefik con un’altra donna, uscite di scena dopo litigi insanabili con Jurka.

Per il primo decennio abbondante della sua vita, Ibrahimovic è essenzialmente un ladro di biciclette. Non è tanto questione di poesia neorealista: Zlatan è proprio un abilissimo scassinatore di lucchetti, nonché fine conoscitore di tutti i trucchi necessari per non farsi beccare. Solo una volta gli viene il dubbio di aver esagerato, quando scatena un putiferio per aver rubato la bici del suo allenatore in seconda: in quel momento, illuminato da una peculiare e selvaggia intelligenza da strada, ritiene che sia più giusto confessare il misfatto. La sua infanzia è punteggiata di traslochi, rivelazioni, epifanie, album di figurine, bivi decisivi e una lunga catena di classici what if: cosa sarebbe successo se papà Šefik non si fosse scapicollato in ospedale, intimando alla tassista di bruciare ogni semaforo rosso, con il piccolo Zlatan devastato da un attacco di meningite? Cosa sarebbe successo se la sua famiglia fosse stata solo un po’ più ricca, in modo tale da potersi permettere l’attrezzatura necessaria per giocare a hockey su ghiaccio, lo sport nella cui direzione Zlatan aveva sterzato dopo una delusione calcistica subita, incredibile ma vero, da portiere? Cosa sarebbe successo se il suo alter ego Tony Flygare, eterno compagno di squadra nove mesi più grande di lui, non avesse sbagliato un rigore decisivo contro l’Halmstad, sparendo definitivamente dai radar della prima squadra e spianando la strada per l’ascesa del giovane Zlatan? Cosa sarebbe successo, banalmente, se avesse cercato di uniformarsi alla massa, invece di mantenere alte le piratesche insegne dello zlatanismo, senz’alcuna voglia di accettazione sociale né alcuna stilla di orgoglio nazionalista né di semplice gratitudine verso una bandiera, quella svedese, che non ha mai sentito propria finché non ha indossato il giallo e il blu della maglia Blågult – sintomatico l’aneddoto in cui svela di non sapere sostanzialmente chi sia Thomas Ravelli, eroe nazionale dopo i Mondiali di USA ’94 terminati al terzo posto dalla Svezia («Io tenevo per i brasiliani, Romário e Bebeto»)?

La scalata di Zlatan segue per certi versi le tappe obbligate di ogni buon romanzo di formazione, scandita dalla trafila nelle squadre giovanili della città natale, dal fin troppo fighetto Mbi frequentato dalla «Malmö bene» al più adeguato Fbf Balkan pieno di «slavi pazzi che fumavano come ciminiere e lanciavano scarpe»: un girovagare a vuoto prima del contatto fatale con il grande Malmö di cui comunque ignorava il prestigio e anche il peso politico, la chiave d’accesso a una condizione economica e sociale altrimenti inaccessibile in eterno. E sempre rimanendo uno zingaro: non nell’accezione bassamente razzista del termine, che detterà legge negli stadi italiani e negli insulti dei suoi detrattori, ma nel senso di scavezzacollo, ipercinetico, un Peter Pan che un minuto dopo aver ricevuto la notizia della promozione in prima squadra, per festeggiare, frega un’altra bici fuori dal centro d’allenamento.

Il suo stile, pluriimitato ma fondamentalmente inimitabile, forgiato nel sangue amaro degli spaghetti col ketchup serviti a tavola in infiniti pranzi e cene, ne fanno un idolo per tutti i «nuovi svedesi», dal collega Kulusevski (di origini macedoni) al tennista Mikael Ymer, che ha incrociato la strada del nostro Sinner al Roland Garros 2021, nato a Skara, Svezia profonda, da genitori etiopi: «Ho letto e visto tutto di lui. Quando sono in difficoltà, penso a Zlatan per avere le motivazioni giuste per superare i problemi e continuare a lottare». Tra i venti giocatori con più presenze in Nazionale, è l’unico con entrambi i genitori nati all’estero: non sarà diventato svedese nel senso tradizionale del termine, non gli saranno mai cresciuti i capelli biondi né spuntati gli occhi azzurri, ma Ibrahimovic ha fatto tantissimo per trascinare e aggiornare la sua Svezia alla realtà contemporanea. Pur essendo partito dal ghetto.

Danesi e svedesi non si stanno esattamente simpaticissimi: eppure la principale attrazione e monumento di Malmö è il ponte di Øresund, un corridoio stradale e ferroviario di quindici chilometri che collega la città a Copenaghen e al resto del continente. Invece il quartiere più reietto di Malmö, quello di cui tutti farebbero volentieri a meno, è Rosengård, dove Zlatan Ibrahimovic è cresciuto e ha prosperato almeno fino ai suoi diciotto anni prima di diventare grande e famoso e abbandonarlo, proprio in coincidenza con l’inaugurazione del ponte (1° luglio 2000). In una retorica un po’ da gangster che pure si attaglia benissimo al personaggio, è il famoso «ghetto», anche se non ci sono mai stati rastrellamenti né retate della polizia a interrompere la grigia quotidianità di un calderone di etnie e civiltà dove tutto ci si sente, fuorché svedesi.

 

Sicuramente da bambino Zlatan non aveva consapevolezza di vivere in un ghetto: ha potuto constatare la buca da cui si è miracolosamente tirato fuori solo da grande, magari cogliendo l’attimo di piccole rivelazioni domestiche. Nella sua autobiografia ricorda il momento in cui suo figlio Vincent protestava e strillava perché aveva fame ma i maccheroni erano ancora in pentola sul fuoco: «Avrei voluto urlare: “Se solo sapessi quanto sei fortunato!”». E qui un grande sceneggiatore aprirebbe un flashback monumentale, con il primo colpo di scena di un Ibrahimovic piccolo e gracile, bisognoso di una logopedista che lo aiutasse a pronunciare correttamente la lettera «s», il nasone come unica traccia dell’Ibra che sarà e che sarebbe stato colpito da fulmineo e improvviso allungamento solo nell’adolescenza.

Un Ibrahimović più avanti umiliato dalla scelta di assegnargli un’insegnante di sostegno per smorzare certe fiammate e certi eccessi scolastici, con una cecità burocratica uguale in tutte le latitudini del mondo. Un Ibrahimovic bullizzato eppure bullizzante con la palla tra i piedi, in eterna ricerca del trick da brasiliano che gli procurasse rispetto e ammirazione, «l’arte per l’arte» diremmo oggi, il mormorio di approvazione che vale più del risultato finale. Una logica da campetto che ha raccontato senza veli e senza censure nella bellissima autobiografia Io, Ibra uscita nel 2011, dove c’è tutto il necessario e sufficiente per una serie tv di successo. Delicato ma non elusivo sui propri furti da supermercato e sui problemi di droga dell’amatissima sorella maggiore Sanela, sincero e divertente nel racconto dei primi tremendi approcci con l’altra metà del cielo, didascalico ma inevitabile nell’identificazione dei suoi tre miti di gioventù: Ronaldo (il Fenomeno) per il talento e la fantasia, Bruce Lee per le arti marziali, Muhammad Ali per il carisma e la capacità di andare oltre gli steccati fissati da altri.

E poi il ghetto come stato mentale, usato anche a sproposito per giustificarsi, autoassolversi, ma mai autocommiserarsi. Con una frase-mantra buona per tutte le salse, scomodata da tv e giornali con un robusto pizzico di classismo nei momenti più controversi, che è diventata anche la didascalia di un gigantesco mosaico raffigurante il suo sorriso, situato all’ingresso del quartiere: «Puoi togliere il ragazzo da Rosengård, ma non potrai mai togliere Rosengård dal ragazzo». Due anni fa, nel pieno delle polemiche relative al suo ingresso nell’Hammarby, società di Stoccolma (a Malmö c’è una rivalità accesissima verso la capitale), qualcuno ha aggiunto la frase: «Sì, però il ragazzo può anche pagare per uscirne». I soldi sono l’ossessione di tutti gli abitanti di tutti i ghetti del mondo: servono ad acquisire street credibility, scarpe e abiti costosi, jeans firmati, camicie, polo Ralph Lauren, e poi auto veloci, ville lussuose, boschi interi, un’altra vita. Zlatan Ibrahimović è stato pure manifesto vivente di come si esce materialmente da un ghetto, anche e soprattutto conservando la stessa forma mentis mantenuta per tutto il tempo in cui ci si è rimasti dentro, come se fosse un carcere. «Ti sei arricchito, e poi ti sei dimenticato di noi: è così, Zlatan?» Zlatan sorride e non risponde: per quanto malsana e autodistruttiva sia quasi sempre, l’invidia è anche un motore formidabile, e in questo momento, in una qualche cameretta da letto di una qualche Rosengård del pianeta, c’è un ragazzino che digita su YouTube: Zlatan Ibrahimovic. E si mette a guardare.

Questo brano è estratto dal libro Ibrahimovic. In terza persona, scritto da Giuseppe Pastore e pubblicato da Centauria