Dennis Johnsen, un po’ di inutile bellezza

L'attaccante del Venezia è uno dei giocatori più entusiasmanti in Serie A, ma commette anche degli errori incredibili.

È il minuto 81′ di Venezia-Spezia. Un cross della squadra ospite taglia il campo rasoterra. La palla, non trovando destinatari, schizza verso l’out di sinistra dove l’accorrente Dennis Johnsen, norvegese del Venezia, è chiamato a uno stop complicato, vista la velocità con cui sta arrivando la sfera e il pressing dell’avversario alle sue spalle. Predispone il corpo al controllo del pallone ma, all’ultimo istante, lo lascia scorrere tra le gambe con un velo, mandando a vuoto il marcatore e conquistando la rimessa laterale. Lo stadio risuona in un piccolo boato. Dal gradone superiore della curva, il mio amico mi si avvicina con la testa e sentenzia: «Lui non vuole essere utile, vuole essere bello».

L’antitesi bello/utile è il punto di partenza migliore per comprendere Johnsen, forse uno dei giocatori più talentuosi passati in laguna negli ultimi anni, di sicuro il più spettacolare, ma con un difetto che lo accompagna come una maledizione: l’innata capacità di sciogliersi sul più bello, al momento del tocco finale (che sia un tiro o un assist), frantumando con i suoi stessi piedi le azioni da cineteca che si era costruito. In un calcio che sempre di più sacrifica l’estetica sull’altare dell’utilità (la prestanza atletica, il tatticismo esasperato, il gioco di posizione, il killer instinct e altre brutte parole), Johnsen è un lampo di bellezza che cerca di adattarsi per istinto di sopravvivenza – un attaccante deve pur sempre fare gol. Solo che i suoi tentativi sembrano fallire maldestramente a causa della sua stessa natura: Johnsen non sembra fatto per segnare, ma piuttosto per ricordarci ogni volta quanto può essere bello il gioco del calcio. Nel suo modo di giocare si rintracciano facilmente le metafore della vita, quelle che riportano alla costante ricerca di ciò che è apparentemente irraggiungibile, a quel qualcosa che sempre ci sfugge, alla bellezza dell’incompiuto, alla dannazione del quasi perfetto.

È così fin dall’inizio, dall’agosto 2020. Johnsen compare a Venezia all’improvviso, quando la società annuncia l’acquisto di un giovane e sconosciuto attaccante norvegese dall’Ajax.  La sua esistenza viene constatata dai tifosi grazie a un video di presentazione ufficiale in cui si vede Johnsen apparire in Piazza San Marco, maglia arancioneroverde su bermuda bianchi e mocassino, mentre accarezza un pallone con la sua chioma bionda ossigenata. L’aura di tamarragine che lo avvolge è inevitabilmente alimentata dai video skills and goals su YouTube che lo ritraggono intento in ruletas e brucianti discese sulla fascia per gli stadi olandesi, sulle note di un immancabile sottofondo electro house. Inevitabili curiosità e mistero muovono i tifosi che, a fronte delle voci sul costo del cartellino (circa 2,5 milioni), si chiedono cosa abbia portato un giocatore dall’Ajax in Serie B. La risposta è in parte data dalle stats di Johnsen relative alle due stagioni in prestito all’Heerenven e al PEC Zwolle – due gol e tre assist in 36 presenze – e alla sua conferenza stampa di presentazione, in cui parla di «nuovi stimoli» e di «bivio per la carriera» come se avesse molti più anni dei ventidue che porta. A fare da sfondo alle sue parole pende l’etichetta di promessa mancata, di giocatore scaricato dall’Ajax, che l’aveva prelevato a diciannove anni, e dall’Under 21 norvegese, che a sua detta vuole puntare solo sui calciatori del campionato nazionale.

Dopo un precampionato convincente, la voglia di riscatto di Johnsen si manifesta nella sua prima gara ufficiale, un Venezia-Carrarese di Coppa Italia in cui firma una doppietta con tanto di banfella per il 2-0 finale. Nel contenuto – siamo pur sempre a Venezia – entusiasmo per i due gol segnati, in pochi fanno caso agli altrettanti sciupati dal norvegese, come lui stesso fa notare rimproverandosi in sala stampa: ne arriveranno tanti altri, sembra essere la risposta consolatoria. Nella prima parte della scorsa stagione, Johnsen ha difficoltà a relazionarsi con le dinamiche tattiche del calcio italiano: pur concedendo pillole entusiasmanti del suo talento, per gran parte dei match sembra avulso dal gioco, troppo statico nell’aspettare il pallone sulla fascia e carente in fase di copertura. Questo aspetto è rimarcato più volte da Paolo Zanetti, che gli preferisce Di Mariano – più generoso in fase difensiva – sfruttando la sua velocità come arma a gara in corso. Più di ogni altra cosa, però, inizia a emergere la scarsa lucidità in fase conclusiva, testimoniata da tiri ciabattati e passaggi fuori misura che rivelano i suoi limiti nel decision making. Al termine del girone d’andata, il suo score recita zero gol e un assist, un numero considerevole di legni e profonde tracce di bipolarismo seminate nei tifosi, spaccati tra l’entusiasmo di aver trovato finalmente un giocatore che salta gli avversari come birilli e la desolazione nel vedere così tante occasioni gettate via.

È in questo periodo che va in scena la partita che, a oggi, è l’autentico manifesto del calcio di Johnsen: è il 28 ottobre e al Bentegodi si gioca il terzo turno di Coppa Italia, Hellas Verona-Venezia. Al minuto 65′, 2-0 per i padroni di casa, il norvegese fa il suo ingresso in campo ed è caricato dal “vai e spacca” di Zanetti. Senza farselo ripetere, si beve due volte la difesa avversaria a un ritmo che dalla televisione pare supersonico, firmando un gol e un assist in tre minuti: 2-2 e tempi supplementari. Non c’è nemmeno il tempo per godersi il replay che Johnsen si prende un’altra volta la scena, questa volta esibendo, quasi per par condicio, il suo lato oscuro: nel ribaltamento di fronte dell’ultimo secondo, con il risultato che nel frattempo si è trasformato in un pirotecnico 3-3, il Venezia si presenta in tre contro zero davanti al portiere. Di Mariano, arrivato a tu per tu con Pandur, scarica – va detto, con un passaggio arretrato ai limiti del criminale – per Johnsen che calcia a lato a porta sguarnita. Il Venezia perderà 6-4 ai rigori.

Questa partita ci porta così dritti al primo paradosso che attanaglia Johnsen giocatore, ovvero una pulizia dei movimenti che può cambiare – nel senso di involvere – fin troppo nel corso della stessa azione. Il norvegese si dimostra infatti impeccabile al momento della ricezione, del controllo orientato del pallone che serve a involarsi sulla fascia o a convergere al centro con una sterzata decisa. Messo a punto lo stop, è qui che si consuma il clou del suo spettacolo: mentre punta il difensore, Johnsen sembra danzare sulla sfera, portandola avanti con la suola in una specie di carezza, posata con grazia e un garbo delicato. Ma è proprio in questo momento, superati gli avversari e presentatosi davanti alla porta, che la sua meccanica sembra incepparsi, e la grazia delicata di un secondo prima lascia spazio a una strana goffaggine, che porta Johnsen a mancare l’appuntamento finale. Non si capisce bene cosa porti a un esito negativo così ripetuto nel tempo, forse il fatto che il norvegese arrivi al momento del tiro troppo stanco o troppo velocemente per coordinare il corpo, alzare la testa ed elaborare la posizione del portiere o dei compagni a cui scaricare. A volte si ha l’impressione che Johnsen non abbia proprio idea di cosa fare una volta arrivato davanti alla porta, come se il suo compito fosse terminato dopo l’ultimo dribbling, o se fosse addirittura sorpreso dall’essere arrivato indenne fino a lì.

Un minuto di cose belle di Dennis Johnsen, in 16:9

Dopo la partita di Verona Dennis Johnsen crescerà, adattando il suo gioco al calcio italiano e imparando ad avere più continuità nel corso del match, fino a conquistarsi il posto da titolare e diventare un giocatore decisivo per la vittoria ai playoff, con un gol e un assist nelle gare post-season che portano il Venezia in Serie A. Tuttavia, in queste due stesse giocate ritroviamo nitidamente il paradosso di cui si è parlato finora: la grazia è l’assist per Di Mariano nella finale di andata contro il Cittadella, quando dimostra al mondo intero che è possibile scartare un avversario senza nemmeno toccare il pallone, ma con il solo ausilio di un doppio passo e una finta di corpo; la goffaggine è il gol del 3-2 nel primo turno contro il Chievo: a tu per tu con il portiere avversario, Dennis scaglia un tiro strozzato che ha la sola fortuna di essere deviato in rete dal tentativo in scivolata del difensore. Lo stesso tipo di tiro che si è visto quest’anno contro Udinese ed Empoli, sbattuto irrimediabilmente addosso al portiere dopo quaranta metri di fuga in solitaria.

Nel tentativo di spiegare la sua insistenza all’errore come assenza di fiducia, ecco che Johnsen ci accoglie in un altro dei suoi paradossi: durante la partita, il norvegese sembra effettivamente perdere convinzione dopo aver sbagliato, inducendolo a un’espressione sconsolata e a peggiorare ancora. Al tempo stesso però, sembra appartenergli una sorta di distacco emotivo, un’atarassia che lo isola dalla pressione esterna e che lo porta ad accrescere la sicurezza in sé stesso di partita in partita, a prescindere dagli errori dei turni precedenti. È proprio questa continua crescita, che lo ha reso ormai il giocatore offensivo di riferimento della squadra, a caratterizzare la sua maturazione calcistica: paradossalmente (ma non ci si stupisca nemmeno più), l’impatto di Johnsen è molto più marcato in Serie A che nella serie cadetta. Potrebbe dunque essere solo questione di “quando” e non di “se”, per vederlo liberarsi dallo stigma di giocatore incompiuto e completare quell’ultimo tassello mancante: la finalizzazione. Nel frattempo, Johnsen potrà insegnarci ad apprezzare anche quello che apparentemente non ci serve, come un tiro sbilenco finito in curva: perché è stato bello ciò che è venuto prima, e lo sarà ancor di più quel che seguirà, se si ha fiducia nel futuro. Alla fine, scriveva Calvino, «a volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane».