Lorenzo Lucca, una nuova specie di centravanti italiano

Il giovane attaccante del Pisa sta dominando la Serie B grazie alla sua strepitosa fisicità, e a una tecnica non banale: è il primo erede italiano delle punte altissime che sanno anche giocare molto bene a calcio?

La rete del 2-0 con cui Lorenzo Lucca ha chiuso la sfida tra Pisa e Alessandra dice molto della sua natura di freak tecnico e atletico, di giocatore letteralmente sovradimensionato rispetto a tutti gli altri. Non solo dal punto di vista fisico: sull’assist acrobatico di Masucci, il 21enne attaccante della squadra nerazzurra gira attorno al suo avversario sfruttando l’inevitabile mismatch, gli prende un metro sullo scatto successivo e poi, poco prima di entrare in area, accorcia il passo quel tanto che basta per calciare di controbalzo, di collo pieno, a incrociare. La particolarità del gol sta nel come questi gesti tecnici appaiano credibili a chi li sta guardando: sembra un controsenso, eppure siamo già abituati all’idea che, per un attaccante alto più di due metri, sia assolutamente normale fare quel movimento e calciare la palla in quel modo, di fare tutto questo in meno di cinque secondi.

Il gioco e l’esplosione di Lorenzo Lucca ci spingono – anzi: ci costringono – ad accettare un cambio di paradigma imposto fisicamente al calcio contemporaneo da diversi attaccanti come lui, una trasformazione per cui la rapidità d’esecuzione e l’espressione della tecnica in velocità ora appartengono anche a centravanti dalle misure così elevate. È successa la stessa cosa nel basket Nba, uno sport ormai dominato da combo guards super-atletiche e da point center che diventano i veri playmaker della squadra: l’altezza, il peso e la muscolarità non sono più i fattori indicativi di ruoli, compiti, funzioni, caratteristiche. Anzi, in molti casi questi limiti sono diventati un punto di forza, hanno alterato il rapporto tra eccezione e regola e demolito quei bias cognitivi per cui un giocatore di quelle dimensioni non sappia trattare il pallone, oppure sappia farlo declinando il gioco esclusivamente attraverso la componente fisica.

In una recente intervista alla Gazzetta dello Sport, Lorenzo Lucca – nel frattempo arrivato a quota sei gol nelle prime sette partite al suo esordio assoluto in Serie B – ha detto di ispirarsi a Ibrahimovic. Lo svedese, oltre all’inarrivabile Van Basten, è il principale riferimento narrativo quando si parla dei centravanti alti e tecnici di nuova generazione: «Sono alto come lui, anche un po’ di più, quindi cerco di imitarlo. Ne studio i movimenti, le giocate, e provo a ripeterli. Come Zlatan, anch’io sono agile e bravo in acrobazia nonostante la statura».

Andando oltre quello che è l’ovvio termine di paragone, la sensazione che si ha guardando giocare centravanti come Lucca, ma anche come Haaland, è quella di trovarsi al cospetto di attaccanti che sono comunque rapidi e iper-tecnici nonostante un corpo che non dovrebbe permettere loro di muoversi a quella velocità, con quella rapidità di piede e di pensiero, con quella facilità d’esecuzione in spazi che il tempo di azione-reazione rende sempre più stretti. Oggi Lucca risulta difficilmente marcabile perché allo strapotere fisico con cui mortifica i centrali avversari unisce la mobilità e il dinamismo della punta che taglia dall’esterno verso l’interno con e senza palla; Haaland ovviamente è già allo stadio successivo, domina un calcio verticale e ipercinetico dall’alto di un fisico – 1.94 per 90 chili – che, in ogni caso, non gli impedisce di interpretare la transizione come se fosse la finale olimpica dei 100 metri piani.

In virtù di tutto questo, il gioco di Lucca e dei suoi colleghi contemporanei – i già citati Ibrahimovic e Haaland – può essere considerato il punto d’arrivo di un percorso evolutivo che, negli ultimi vent’anni, ha prodotto diversi freak tecnici e fisici in grado di andare oltre l’idea del centravanti statico chiamato a contendere ai centrali avversari i palloni vaganti all’interno dell’area di rigore. Si tratta di un’idea – anzi: di un ideale – di giocatore trasversale che non può essere costretta o comunque circoscritta in un pattern fisico predefinito e ormai superato da molti anni.

Prendiamo Jan Koller, per esempio. È stato considerato a lungo un attaccante dalla tecnica grigia, perfettamente aderente a una certa visione “spigolosa” del calcio, quella che siamo abituati ad associare ai calciatori della sua stazza – era alto, anzi altissimo (202 cm), pesante (quasi 110 kg), dominante nel gioco aereo, in grado di ridimensionare anche uno come Jaap Stam. Ma se ne facciamo una questione di rapporto peso/potenza/mobilità, Koller sapeva giocare a calcio. Pared ideale per chiunque cercasse uno scambio in spazi stretti, la sua capacità di crearsi da solo l’occasione da rete attraverso un dribbling, un movimento o un tocco contro-intuitivo era addirittura strabiliante. Definito da Alessandro Nesta come «uno dei giocatori più difficili da marcare» Koller aveva nel tiro al volo o di controbalzo il colpo migliore del repertorio, espressione di un tempismo e di una capacità di coordinazione misteriosi per un giocatore di quelle dimensioni: la rete più famosa della sua carriera – quella del 3-2 contro il Feyenoord nella finale UEFA di Rotterdam nel 2002 – arrivò proprio così, un arcobaleno all’incrocio dei pali a chiudere un’azione in cui il pallone non toccava terra da una ventina di secondi.

La qualità della tecnica di calcio è un altro degli indicatori possibili del cambio di paradigma: i limiti tecnici in relazione alle dimensioni fisiche sono stati progressivamente e profondamente ridefiniti. Se oggi non stupisce che Lucca sia in grado di calciare così dal limite dell’area o di segnare su punizione colpendo con le tre dita, è perché uno dei migliori kicker degli ultimi venti o trent’anni era alto 1.93: si tratta di Pierre van Hooijdonk. Autore di 33 gol in carriera da calcio piazzato, Van Hooijdonk era un tiratore formidabile che aveva elevato a forma d’arte l’idea di Ronald Koeman per cui mirare all’altezza del secondo o del terzo uomo in barriera equivalesse a un gol quasi certo, indipendentemente dalla distanza rispetto alla linea di porta. Nella già citata finale di Coppa Uefa contro il Borussia Dortmund di Koller, quando il risultato era ancora fermo sullo 0-0, l’attaccante allora al Feyenoord aveva calciato a giro da trenta metri colpendo il palo alla destra di un Lehmann impietrito dalla velocità con cui il pallone si era abbassato dopo aver superato la barriera; a cinque minuti dall’intervallo, dopo aver segnato il rigore del vantaggio, aveva calciato allo stesso modo ma con il pallone spostato dieci metri più avanti, e Lehmann non aveva potuto far altro che rassegnarsi all’inevitabile.

Il dettaglio fondamentale era la rincorsa, diventata un’autentica signature move, al pari di quella iconica di Beckham: disponendosi quasi perpendicolarmente al pallone, Van Hooijdonk riusciva a torcere al massimo la caviglia al momento dell’impatto, accelerando la parabola discendente di una conclusione molto più forte e tagliata del normale e senza la necessità di centrare sempre e comunque l’incrocio dei pali per togliere il tempo dell’intervento al portiere. L’olandese, però, è stato molto di più di un cecchino delle palle inattive: la sua naturale associatività, la capacità di giocare accanto a un’altra prima punta, la qualità nel primo controllo e nel gioco di sponda, la grande mobilità unita alla sua tecnica di base, gli hanno permesso di diventare una sorta di “proto-Ibra”, il primo 9 in grado di dare un senso tecnico e tattico all’anacronismo del doppio centravanti, portando l’interpretazione del ruolo da statica a dinamica, fino al punto di prescindere – o quasi – dal numero di gol segnati.

Secondo voi è un caso che di questa top 10 i gol su azione siano appena quattro?

L’ultima volta che una squadra italiana è arrivata in finale di Champions League lo ha fatto perché Mario Mandzukic (1.90) è diventato l’equilibratore dell’intera fase offensiva, riciclandosi come esterno a tutta fascia nel 4-2-3-1; e oggi, se pensiamo al regista offensivo ideale di una squadra che intende dominare attraverso il possesso, tra i primi nomi della lista c’è quello di Edin Dzeko (1.93), uno degli ultimi 9 abituato a pensare, prima che a giocare, come un 10. Il riferimento principe, in questo caso, è Dimitar Berbatov: ospite di un’era calcistica in cui si pensava che un attaccante di 1.90 dovesse per forza essere affiancato da una seconda punta che gli girasse intorno, Berbatov ha rivoluzionato l’idea stessa di attaccante associativo che sa fare altro – oltre a segnare, ovviamente – trovando il compromesso perfetto tra la fase di rifinitura e quella realizzativa. E facendoci accettare, anzi dimostrandoci, che un fantasista può fare il centravanti.

E non perché sia più alto del normale: dipende tutto dal primo controllo, dalla postura del corpo, dalla pulizia tecnica nell’esecuzione, dalla compostezza nei movimenti, dalla capacità di deformare la dimensione spazio-tempo per adattarlo al timing della giocata, dalla qualità nelle letture con e senza palla. Parliamo di un attaccante visionario da 251 reti in carriera – tra cui questa – e che però è passato alla storia per aver fatto segnare a Cristiano Ronaldo il gol più facile della sua carriera con una giocata a metà tra la ruleta di Zidane e la croqueta di Iniesta. Facendo tutto questo mentre zampettava sulla linea di fondo:

Come vedete, questo video è intitolato “Dimitar Berbatov – When Football Becomes Art”: è il primo risultato che si ottiene digitando “Dimitar Berbatov” nella query di YouTube

Lorenzo Lucca non appartiene, almeno non ancora, alla categoria di Berbatov e Dzeko. Così come non appartiene al gruppo di Haaland, cui pure lo accomuna la brutalità nell’azione e il senso di sopraffazione fisica e mentale che promana da ogni cosa che fa e a cui sottopone i suoi avversari, pur se in un contesto competitivo differente: non è ancora così fulminante sotto rete, ovviamente gli manca qualcosa nel puro scatto, soprattutto sul lungo. Eppure possiamo ugualmente considerarlo come il prodotto finale dell’evoluzione, un’anomalia prevista e prevedibile dal primo momento in cui abbiamo visto Koller spedire una palla al’incrocio o Van Hooijdonk segnare su punizione come e meglio di Beckham. Di certo è il primo centravanti italiano che sembra poter appartenere davvero a questa nuova specie, una specie per cui l’altezza – seppur molto elevata – è solo uno dei pregi, dei caratteri distintivi. Perché oggi essere un attaccante prestante non preclude nulla a livello tecnico, non più.

Foto tratta dall’account Twitter del Pisa