Orgoglio e solitudine del secondo portiere

Il dodicesimo è una delle figure più poetiche del calcio: ma come si fa a passare una stagione, se non addirittura una carriera, tutta in panchina?

Per la stagione 1965/1966 Panini stampò un album Calciatori diverso dai (pochi) precedenti: era la prima volta che sulla copertina e sulle bustine compariva un’illustrazione che poi sarebbe diventata un’icona, quella che immortala – letteralmente – la rovesciata di Carlo Parola in un Fiorentina-Juventus del 1950. Ma non era questa l’unica novità, anche all’interno l’album era diverso dalle edizioni che erano venute prima. Per ogni squadra di Seria A c’erano dodici caselle da riempire invece delle undici alle quali i collezionisti erano abituati. Dodici nomi, volti e numeri, per uno sport che si gioca in undici. Tantissimi tifosi scoprirono così che il Consiglio Federale aveva approvato una norma – inizialmente provvisoria – che prevedeva la possibilità per le squadre di portare un giocatore in panchina: un portiere di riserva che «in qualsiasi momento e per qualunque motivo» (tranne in caso di espulsione) può sostituire il titolare. Una scelta che meritava di essere festeggiata per «l’evidente significato di giustizia sportiva cui esso si ispira», si leggeva sulle prime pagine dell’album Panini.

Il portiere di riserva doveva indossare un completo identico a quello del titolare, a distinguerli sarebbe stato il numero: al titolare l’1 e per la riserva il 12. Era ancora l’epoca in cui i ruoli erano numeri ma – come nelle parole – anche in questi c’erano sfumature di significato: per i titolari si usavano i cardinali, per le riserve si decise di passare agli ordinali. Il portiere titolare era il numero 1, quello di riserva divenne il dodicesimo: parte di un insieme (una squadra, appunto) il primo, voce in una sequenza (la lista, non per nulla) il secondo. Negli anni verranno altre riforme ma, al cambiare del numero e della natura delle sostituzioni, cambieranno anche le denominazioni: nella lingua che oggi usiamo per parlare di calcio non esistono tredicesimi e quattordicesimi uomini. Esiste ancora, però, il dodicesimo, che è sempre il portiere di riserva anche se, ormai, il mercato dei numeri di maglia è stato liberalizzato e vale tutto per tutti purché sia compreso tra l’1 e il 99. Oggi il dodicesimo uomo è il nome del pubblico, non per niente altra parte del gioco che il suo contributo lo dà standosene a guardare.

Il numero 12 vale l’1, il 6, il 9, il 10: non ruoli ma mestieri, come disse Dadá Maravilha. Anche più che mestieri, addirittura caratteri: l’1 è solitario e pazzo, il 6 attento e preciso, il 9 egoista e cinico, il 10 fantasioso e imprevedibile. E il 12? Il 12 è un portiere raddoppiato, se è vero di lui quello che diceva Albert Camus, portiere mancato (o Nobel guadagnato, a seconda dei punti di vista) per colpa di una tubercolosi presa a diciassette anni: «Sono un combattente solitario. Dopo di me non c’è più nulla. Sono l’ultimo uomo, ne sono consapevole, nessuno può far nulla per me…». Ma almeno il numero 1 sta da solo in campo, il numero 12 sta da solo in panchina: il suo ingresso è un imprevisto, la cosa che non succede ma che se succede significa che qualcos’altro è andato storto. «Nessuno può far nulla per me» e lui non può certo sperare nella malasorte di un compagno, del titolare nel ruolo.

The waiting is the hardest part/every day you see one more card/you take it on faith, you take it to the heart/the waiting is the hardest part, cantava Tom Petty. Il secondo portiere si mette lì e aspetta, sempre “all’ombra della luce”, come scrive Nicola Calzaretta nel suo Secondo me. Una carriera in dodicesimo. Calzaretta fa la biografia di Luciano Bodini, il secondo portiere della Juventus, “il 12° per eccellenza”, come lo definivano i contemporanei. Passò dall’Atalanta alla Juventus sapendo che sarebbe stato la riserva ma sapendo pure che Zoff aveva già 38 anni. Zoff fu titolare fino a 40: «Mi ha fregato», commenterà anni dopo Bodini. Poi la Juventus prese Tacconi dall’Avellino e Bodini si ritrovò più vecchio ma sempre riserva. Scelse di rimanere per tutte quelle ragioni che sono calcio ma non stanno nel campo: Trapattoni lo rispettava a tal punto da farlo giocare tutte le volte che Tacconi non era al meglio, Boniperti gli voleva bene, la maglia della Juventus era un orgoglio. Lo era nonostante Bodini fosse interista («sempre stato»), tant’è che l’ultimo anno della sua carriera lo passerà a fare il terzo a un altro hall of famer dei secondi portieri: Astutillo Malgioglio, vice di Walter Zenga, uno che finito l’allenamento scappava a Piacenza (casa sua) perché aveva da dare una mano dentro Era77, l’associazione che aveva fondato per aiutare i bambini affetti da distrofia muscolare. Quando giocava nella Lazio, i suoi “tifosi” esposero uno striscione con su scritto Tornatene dai tuoi mostri. Quando Malgioglio lo vide si tolse la maglia, ci sputò sopra e la lanciò verso la curva. Lasciò la Lazio subito dopo, contratto rescisso.

Bodini e Malgioglio fanno parte della Santissima Trinità dei numeri 12 (ovviamente ne esiste anche una di riserva: Nando Orsi-Michelangelo Rampulla-Alberto Maria Fontana). L’altro è Giulio Nuciari, che oggi è il preparatore dei portieri della Nazionale. È il giocatore che detiene il record di panchine in Serie A: 333 tra Milan e Sampdoria. Per le 17 volte in cui fu titolare deve ringraziare un Pagliuca troppo felice di potersi finalmente permettere una Porsche per prestare attenzione al limite di velocità. Bodini, Malgioglio e Nuciari appartenevano a una generazione che mai si sarebbe immaginata quel che è venuto dopo. Un giorno arriva Arrigo Sacchi e decide che in campionato la porta del Milan la difende Pazzagli e in Coppa dei Campioni invece Galli, un’alternanza mai vista né, soprattutto, immaginata. Tant’è che nella Restaurazione di Capello che seguì la Rivoluzione di Sacchi uno dei punti programmatici riguardò proprio il portiere: è un ruolo diverso, disse Capello, serve fiducia e non competizione. Bodini, Malgioglio e Nuciari che ne potevano sapere che questa storia dell’alternanza tra portieri sarebbe stata messa alla prova tante volte da diventare quasi una teoria: porta fortuna in Champions League, come dimostrano il Real Madrid di Ancelotti-Diego López-Casillas e il Barcellona di Luis Enrique-Bravo-Ter Stegen. Però c’è anche il Liverpool di Klopp-Mignolet-Karius, quindi la comunità scientifica deve ancora decidere se tra alternanza dei portieri e notti magiche europee c’è caso, causa o correlazione.

Un secondo portiere si pone una domanda che nessun altro giocatore si pone con la stessa frequenza e intensità: perché lo faccio? Che le motivazioni siano importanti si sa, spesso è una frase fatta e talvolta una scusa pronta. Ma si parla sempre delle motivazioni di chi gioca, perché quali possono essere quelle di chi sta in panchina? Magari è l’orgoglio di Bodini, che è quello di chi si è trovato dietro ma accanto al più forte e ai più forti. Stefan Wessels è stato il secondo portiere del Bayern Monaco dal 1999 al 2003, gli anni in cui Oliver Kahn avrebbe bloccato anche i proiettili. «Anche se sono stato un vice per la maggior parte della mia carriera, mi sentivo comunque parte di quella squadra. Ovviamente Kahn contava più di me nella squadra che vinse la Champions, ma comunque io quel trofeo sento di averlo vinto. Penso che il 99% dei professionisti invidi la mia carriera». Secondo e orgoglioso, pure vanitoso, addirittura smorfioso.

Salvatore Sirigu è stato il primo portiere di riserve nella storia della Nazionale a vincere un grande trofeo entrando in campo nel corso della manifestazione: nelle fasi finali dei Mondiali in cui ha trionfato l’Italia (1934, 1938, 1982 e 2006) e degli Europei 1968 hanno giocato sempre e solo i titolari, vale a dire Combi, Olivieri, Zoff (agli Europei 1968 e ai Mondiali 1982) e Buffon (Alberto Lingria/Pool/AFP via Getty Images)

Perché lo faccio? Magari è il tifo interista di Malgioglio, che è quello di chi è disposto (quasi) a tutto pur di realizzare il sogno più infantile di tutti: giocare nella squadra del cuore. Si dirà che sono bambinate finite quando il calcio ha smesso di essere bambino, e in parte è così, e magari è vero. Basta avere la gentilezza di non dirlo a Steve Harper, riserva di Shay Given. L’irlandese era uno che parava anche con la testa, quindi Harper ci mise poco a capire che con uno del genere due mani non sarebbero bastate. Decise comunque di rimanere dov’era: a Newcastle ci era nato e cresciuto, «l’avrei sempre preferita a qualsiasi altra possibilità». Anche alla felicità, e alla fine questa è una delle definizioni possibili dell’amore: «La gente pensava io fossi felice a starmene seduto in panchina. No, non lo ero», dice Harper, ancora oggi. «Ho passato dei momenti brutti, pesanti. Me la sono cavata grazie all’aiuto della mia famiglia e a quello dei professionisti che il club mi mise a disposizione». Harper è diventato il giocatore più “fedele” della storia del Newcastle: 20 anni, che sono talmente tanti che non si possono cambiare in presenze sul campo.

Perché lo faccio? Magari è l’umiltà di Nuciari, che sotto sotto lo sa che quell’anno la Sampdoria non riuscì a qualificarsi alla Coppa Uefa per colpa sua. È l’umiltà di chi sa che la panchina è il posto giusto, d’altronde c’è un regolamento che dice che un secondo portiere ci deve essere e qualcuno lo deve pure fare. Raimond van der Gouw arrivò al Manchester United a 32 anni, scelse i Red Devils negli anni in cui quella porta la difendeva Schmeichel. Tornò a scuola con un certo entusiasmo, van der Gouw: «Era bellissimo vedere come si preparava Schmeichel, la sua concentrazione, cose che devi sapere quando giochi in una grande squadra. Uno guarda sempre al passato e si dice che avrebbe voluto giocare di più, ma alla fine sono stato molto fortunato. Ero parte della squadra, è così che mi sentivo». Remy Vercoutre è un idolo per i tifosi del Lione, anche e soprattutto perché all’inizio dell’unica stagione da titolare della sua vita con i Les Gones concesse un’intervista a Le Parisien passata alla storia per una risposta: «Come si fa a paragonarmi a Lloris?», che ovviamente, giustamente, dell’intervista divenne anche il titolo.

Perché lo faccio? Magari la risposta non esiste e, se esiste, non la possiamo conoscere. D’altronde dei giocatori sappiamo quello che ci fanno vedere in campo e «se non scendi in campo, senti di essere stato dimenticato», così la mette Stuart Taylor, ex-portiere dell’Arsenal, eterno erede di Seaman, una carriera da vice. Perché lo faccio? Forse la risposta esiste e, se esiste, ce l’ha data Manuel Pinto, vice di Valdes al Barcellona: «Non me ne frega niente di quello che pensano gli altri. Alla fine, l’unico che sa davvero cosa poteva essere la mia carriera sono io. D’altronde le opinioni sono come i culi: tutti ne hanno una, no?».