Quanto contano i tifosi nel rebranding dei club?

A volte la creazione di nuovi loghi e nuove identità visive stride col rispetto delle tradizioni. Che peso hanno, in questo senso, le opinioni e a volte anche le proteste della fanbase?

Nuove identità visive «proiettate verso il futuro», in grado di «raggiungere target globali», di affermarsi anche lontano dal campo da gioco o, quantomeno, di ottenere una «migliore fruibilità digitale» grazie a «rivisitazioni moderne e minimali».  Il lessico dei rebranding e restyling sportivi è definitivamente familiare anche al tifoso di calcio, che appare ormai abituato – ma in molti casi è più che altro rassegnato – ad accettare il distacco dalla tradizione, in nome della crescita economico-sportiva della squadra del cuore. Ma non è detto che i supporter debbano essere sempre dei semplici destinatari passivi di questi processi. A volte possono far valere le proprie ragioni o – addirittura – essere coinvolti nel processo dai board delle squadre, come dimostrano alcuni casi esteri anche piuttosto recenti.

Il metodo-Chicago Fire
L’ultimo esempio in ordine di tempo arriva dagli USA. A inizio ottobre i Chicago Fire, dopo le anticipazioni estive, hanno cominciato a utilizzare la loro nuova identità (la seconda in due anni) realizzata assieme ai fan. Quegli stessi fan che, alla fine del 2019, avevano bocciato senza appello il precedente rebranding. La proposta di due anni fa venne giudicata eccessivamente astratta e priva di legami con la storia di una franchigia che si preparava a festeggiare lo storico ritorno in città, al Soldier Field, dopo aver giocato quasi 15 stagioni a Bridgeview, una quindicina di miglia fuori da Chicago.

La “Fire Crown”, ovvero le fiamme rosse stilizzate che, specchiate, disegnavano una corona al centro dell’ovale che sostituiva la vecchia croce di San Floriano (il protettore dei pompieri), è stata così archiviata a tempo di record, anche per volontà del miliardario Joey Saputo, che all’epoca aveva appena preso pieno controllo del club. Giusto il tempo di ideare e avviare un nuovo processo creativo, questa volta pienamente condiviso con la tifoseria e le comunità locali. Al comando delle operazioni il designer Matthew Wolff (già autore delle identity di LAFC e New York City FC), supportato da due agenzie (Studio/lab e rEvolution) e dalla community degli appassionati.

L’esito? Un nuovo crest e una nuova identità, risultato di un processo di consultazione giustamente rivendicato come un successo dal club americano. Sono stati consultati tifosi nei 77 quartieri della città, in 152 città dell’Illinois e in 10 Paesi extra-USA. La raccolta dei pareri ha coinvolto più di 10mila fans solo sui social network, senza contare lo spazio dedicato sul sito ufficiale e le oltre 500 ore di tavole rotonde online. Il risultato è uno stemma moderno, aderente alla tradizione dei Fire e alla cultura della città ma, soprattutto, pienamente condiviso con la community. I quattro elementi fondamentali della nuova identità, infatti, sono stati scelti collettivamente: dalla Florian Cross (qui in versione stilizzata) alla grande “C”, fino alla stella rossa a sei punte e al colore celeste, che derivano entrambi dalla bandiera cittadina. Inoltre, la griglia geometrica all’interno del quale è costruito il nuovo crest è ispirata alla iper-razionale logica urbanistica con cui la città venne ricostruita dopo l’incendio del 1871, il Great Chicago Fire a cui la franchigia di soccer deve il nome.  Per questo finale di stagione è probabile la convivenza con il vecchio-nuovo-crest sulle divise, ma dalla MLS 2023 dovrebbero tornare anche le classiche maglie di casa rosse, abbandonate per un più anonimo blu notte proprio in coincidenza del lancio della “Fire Crown”.

Un altro bel caso di “branding condiviso” made in USA è poi quello, freschissimo, del Monterey Bay FC, che inizierà a giocare in USL (secondo livello del calcio americano) solo nel 2022 ma – intanto – ha scelto uno stemma e una identity pienamente rappresentativi del territorio e della comunità che vuole esprimere e raccontare nei prossimi anni.

La rivolta-lampo di Columbus

Altrettanto significativo, quanto successo nel giugno 2021 ai Columbus Crew, storici rivali di Chicago e prima franchigia a essere accolta nella nascente MLS, nel lontano 1994. All’inizio di maggio il board ha svelato in grande stile la nuova identity della franchigia, la seconda in sette anni: nuovo crest minimale ispirato alla forma della bandiera dell’Ohio, modifica del peso dei tre colori primari della franchigia, con il giallo che esce dal cuore dello stemma, cambio ufficiale di denominazione in Columbus Soccer Club.   Proprio la rinuncia al nome, con la conseguente trasformazione di “The Crew” in una sorta di nickname non ufficiale è stata probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso. I tifosi si sono fatti sentire rumorosamente attraverso i social e in città e la dirigenza ha saggiamente deciso di aprire immediatamente un tavolo delle trattative per apportare delle modifiche.

Dall’incontro fra la proprietà, il general manager, il Chief business officer, il movimento “Save the Crew” e i rappresentanti del Nordecke, la “curva Nord”, il più importante gruppo indipendente di tifo organizzato della squadra di Columbus, è nata una sintesi accettata da tutti: confermati la forma “a rondine” e i colori del nuovo crest, ma nello stemma torna la denominazione ufficiale di Columbus Crew, assieme al numero 96, che riafferma l’orgoglio di essere una delle franchigie che parteciparono alla prima stagione della Major League Soccer. Caso chiuso in una settimana o poco più, grazie alla collaborazione di tutte le parti in causa. Pazzesco, no?

Cosa succede in Europa? 

Nel nostro continente il clima non è così collaborativo e, generalmente, il ruolo dei tifosi è solo quello degli “oppositori”. Le decisioni prese dai board dei club il più delle volte restano inalterate anche in caso di proteste. D’altro canto, molte volte la disapprovazione si ferma allo step della polemica da social, quella che dura un weekend o poco più, prima che l’indignazione si spinga verso altri lidi. Nonostante ciò, qualche esempio non manca. Il caso più eclatante è senz’altro quello del gennaio 2018, quando il Leeds United, investito da una valanga di proteste e di meme, decise di rinunciare in 24 ore al nuovo crest, l’ormai famigerato scudo con il “Leeds salute” che a tanti ricordava uno dei badge di Pro Evolution per le squadre della Master League di cui non erano disponibili i diritti. La società del presidente Andrea Radrizzani, però, si è semplicemente fermata per via delle proteste del tifo, decidendo di confermare lo scudo gialloblu con all’interno il monogramma LUFC e la rosa bianca di York, usato dall’ormai lontano 1998, rimandando il discorso brand a tempi migliori e concentrandosi (con successo, bisogna dire) sulla rinascita sportiva di una delle più gloriose squadre d’Inghilterra.

Proteste simili furono decisive per fermare Assem Allam, che nel 2014 voleva trasformare l’Hull City negli Hull Tigers prima di incassare per ben due volte dal voto contrario del Football Association Council, grazie anche all’incessante lavoro dell’Hull City Supporters’ Trust e al sostegno della Football Supporters Federation. Ancora di più durò la battaglia dei supporter del Cardiff City, che per quasi tre anni dovettero convivere con il folle cambio di identità e colori pensato dal magnate malese Vincent Tan, non a caso inserito quasi sempre nelle varie classifiche dei peggiori rebranding sportivi di sempre. Dal classico blu al rosso fuoco sulle maglie, dal bluebird al dragone come animale simbolo, alla ricerca di un’identità che potesse piacere sui mercati asiatici: 28 mesi di calvario e proteste, prima della retromarcia, a inizio 2015.

Diverso l’approccio dell’Everton, che cambiò il proprio stemma all’inizio della stagione 2013/14, incassando numerose critiche per lo stile troppo minimale e per la scomparsa di diversi dettagli importanti per i propri appassionati, fra cui il motto latino Nil satis nisi optimum. Critiche incassate e trasformate rapidamente in un’ampia consultazione fra i fans per arrivare a tre differenti proposte di crest, poi votate per “eleggere” a maggioranza l’attuale stemma, in vigore dall’estate 2014.

Italia e futuro

E in Italia come vanno le cose? Le squadre si stanno parecchio, a tutti i livelli. I due principali rebranding degli ultimi cinque anni (Juventus e Inter) sono stati semplicemente comunicati al momento della presentazione in grande stile, così come accaduto per i lavori eseguiti da altre società (Milan, Cagliari, Palermo, etc.). Tutti sono stati analizzati e commentati e, in qualche modo, raccontano la corsa al cambiamento delle società di una Lega Serie A a sua volta all’affannosa ricerca (tre restyling in tre anni) di un’identità più moderna.

I tifosi, in tutto questo, stanno perlopiù a guardare, fatta eccezione per qualche caso isolato nelle categorie minori. Ma il desiderio dei tifosi della Roma (autori di mille proteste e petizioni) di tornare al vecchio stemma, quello con l’acronimo ASR sotto la lupa, sostituito nel 2013 da un più lineare e “spendibile all’estero” Roma 1927, è finalmente stato soddisfatto dalla famiglia Friedkin e da New Balance con il lancio della quarta divisa 2021/22. Che sia un preludio del ritorno su tutte le maglie dei giallorossi?

Una possibile lettura del futuro la dà l’inizio, anche in Serie A, dell’era dei fan token, sancita anche dall’arrivo di Socios.com come main sponsor dell’Inter. Molte delle principali squadre europee stanno avviando una strategia di emissione e vendita dei token, una sorta di “gettone digitale” che permetterà ai tifosi-acquirenti di accedere a contenuti esclusivi, di ottenere particolari sconti, ma anche di partecipare in prima persona ad alcune delle decisioni del club. E se il prossimo rebranding del calcio italiano venisse realizzato così?