Roger Federer, ragazzino lamentoso

L'adolescenza turbolenta di un fuoriclasse in costruzione. Un estratto di Roger Federer è esistito davvero, il nuovo libro di Emanuele Atturo edito da 66thand2nd.

Roger Federer ha otto, forse nove anni. È all’Old Boys Club di Basilea, il circolo dove ha iniziato a giocare a tennis insieme ai maestri Adolf Kacovsky e Peter Carter. Gira per il circolo e si annoia, deve disputare una partita di torneo ma i campi sono occupati e deve aspettare il suo turno. Allora decide di arrampicarsi sulla cima di un albero, un po’ per il piacere di farlo, un po’ perché si domandava quanto ci avrebbero messo a ritrovarlo. Si è gustato da lì la scena dei suoi genitori che lo cercavano disperati. Sua madre, Lynette, è sudafricana e ha conosciuto il suo futuro marito, Robert, nel bar dell’azienda di Johannesburg dove lavoravano. Non sanno come fare con Roger. Il problema non è che perda le partite, ma i suoi atteggiamenti in campo.

In un servizio televisivo vengono mostrati alcuni filmini di Federer ragazzino sui campi di Basilea. In uno avrà massimo tredici anni, le gambe a stecchino, i capelli corti e tagliati come veniva. Lo vediamo lasciar andare una racchetta per terra rassegnato, allargare le braccia, indicare qualcosa, parlare con sé stesso piagnucolando. Butta la racchetta al centro del campo, prende la rincorsa e prova a calciarla. Al centro d’allenamento di Ecublens, dove era stato spedito adolescente e infelice, passa il suo tempo a svegliarsi presto, pulire i bagni e sistemare i campi. Sono le punizioni per qualcosa che ha combinato. Sua madre Lynette racconta che aveva bisogno di ribellarsi con tutti, scuola, allenatori, istituzioni in generale. Quando le cose non andavano come voleva buttava la racchetta per terra e si metteva a piangere. Poteva piangere anche mezz’ora dopo la partita.

Oggi è difficile immaginare che quel ragazzino sia diventato l’uomo che conosciamo. Si racconta di giri in macchina insieme al suo allenatore, Peter Lundgren, con gli AC/DC a tutto volume; Federer col sedile sdraiato e i piedi stesi sul finestrino. Si racconta di imitazioni di Hulk Hogan sotto la doccia; Federer che contrae le braccia e mostra i quadricipiti sgonfi. Si racconta di partite alla PlayStation tirate fino a tarda notte; Federer che poi il giorno dopo faceva fatica ad alzarsi per andarsi ad allenare. È «rumoroso», loud, un aggettivo che usano in tanti per descriverlo in quegli anni e che è quanto di più lontano dalla nostra idea di lui come statua neoclassica di silenzio. I suoi compagni di Ecublens raccontano che quando sentivano un grido arrivare dagli spogliatoi era lui. Gridava per scaricarsi. Mangia pizza, pasta e hamburger, è schizzinoso ma va matto per i dolciumi, ha la pancia. Il suo gioco è ancora infantile, non dà importanza ai singoli punti, è lezioso e si specchia troppo nei suoi colpi. Dice di amare Marcelo Ríos perché «è diverso». Non legge libri; il suo film preferito è Will Hunting – Genio ribelle, che racconta di un ragazzo sregolato con una brillante mente matematica ancora nascosta al mondo. Bruce Willis e Will Smith sono i suoi attori preferiti.

In una foto di quegli anni lo si vede entrare in camera, una leggera ricrescita nera sotto la chioma platinata, e spalancarci il suo mausoleo adolescenziale: su un mobile, affastellati senza senso, i suoi trofei giovanili, sono tantissimi e viene da chiedersi quanti ne abbia oggi, e se possiede una casa intera per custodirli. Fra i trofei spicca un tubo di palline Slazenger, quelle ufficiali di Wimbledon. Come a dire, in assenza della coppa mi bastano anche solo le palline. Alle spalle, come moniti, i poster di Shaquille O’Neal e Michael Jordan. Sulla porta l’immagine di Pamela Anderson che si accarezza i capelli seducente; su un’altra parete una bandierina della Macedonia, un cappello da safari, un gagliardetto della Coppa Davis, un adesivo dei «campionati svizzeri di Bellinzona 93», una foto insieme a Jimmy Connors in occasione del torneo indoor di Basilea. Era il 1995 e Jimbo, il re dei tornei minori, aveva liquidato in due set un tardo McEnroe. Prima della partita il vecchio Connors incombe sulle spalle del quattordicenne Federer, non sa che arriverà a minacciare i suoi record di longevità, di partite e tornei, giocati e vinti. In un’intervista di quegli anni in cui inizia ad affacciarsi nel circuito gli chiedono un aneddoto simpatico e lui ne racconta uno macabro in maniera divertita. Dice che un giorno che si stava allenando un uccellino si è posato sulla rete. Nessuno se ne è accorto, Chiudinelli ha servito e ha preso l’animaletto in pieno, sbalzandolo ai piedi di Federer ancora tremante. «E poi boom. Morto. C’erano penne ovunque per il campo e lui non si era accorto di niente. È stato incredibile».

Non sopporta quando le persone mentono, «perché io non mento mai». Nell’intervista, davanti a microfono e telecamere, ha i capelli biondo platino, le guance butterate e un’aria goffa e tesa. Ogni tanto gli esce un sorriso scemo, di chi forse si guarda dal di fuori. Starebbe bene nei panni di Fraser Wilson in We Are Who We Are: un adolescente isterico alla ricerca della propria identità. Dice che non gli piace allenarsi, che è un giocatore da match. Federer viene da una famiglia borghese. L’hanno spinto sui campi da tennis con dolcezza e senza esagerazioni competitive. La sua infanzia, lo sappiamo, è priva di tutta quell’aneddotica di durezza e rinunce che caratterizza le biografie della maggior parte dei grandi tennisti. Un aspetto che magari diamo per scontato, ma che non lo è pensando ai primi anni di altri campioni come Djokovic´, Murray o Nadal, Serena Williams o Naomi O¯ saka, tutti – chi più, chi meno – forgiati nell’ambizione sin da piccoli. Per non parlare di Andre Agassi, a cui hanno infilato delle palline da tennis direttamente in culla; o di Marat Safin, portato in braccio sul campo da tennis al suo primo giorno di vita fuori dall’ospedale. A Federer è stato concesso il lusso della ribellione. Nessuna spinta a vincere e a primeggiare, Lynette e Robert gli dicevano solo di rilassarsi, giocare a tennis e comportarsi bene. Questo gli ha probabilmente permesso di sviluppare un approccio più sensibile ed estetico al gioco. Da giovane, però, nei tornei cerca più che altro di tenersi a galla tra un crollo mentale e l’altro. David Law, il vecchio responsabile della comunicazione dell’Atp, lo ricorda come un crybaby, cioè un ragazzino lamentoso. Se la prendeva con sé stesso non solo quando perdeva il punto, ma anche quando non lo vinceva come avrebbe voluto.

Nel 1996 incontra Lleyton Hewitt a Basilea, le racchette volano sui teloni, le imprecazioni viaggiano da un lato all’altro del campo. Darren Cahill, coach di Hewitt, commenta disincantato: «Niente di strano per due ragazzi della loro età». In quel torneo Federer batte Hewitt, che andrà comunque più avanti di lui e batterà anche Fernando «Mano de Piedra» González. Il cileno racconta che gli amici lo prendevano in giro: «Come hai fatto a perdere da uno che ha perso da Federer?». Leggendo di Federer adolescente non viene fuori il ritratto di un classico bad boy. Piuttosto di un ragazzo infantile, che non andava a dormire tardi per andare in discoteca ma per giocare ai videogiochi; che all’ira sostituiva la lagna. Qualcosa non gli permetteva di concentrarsi in campo, una specie di nugolo di energia oscura tipica dell’adolescenza, simile a quella raccontata da Musil nei Turbamenti del giovane Törless. In tanti evocano questa angoscia: «Qualcosa in lui che lo sopraffaceva». «Non riusciva a non lasciarsi sovrastare dalle energie negative» dicono di lui.

Di sé stesso Federer invece racconta la frammentazione interiore. Dice che in campo faticava a «mettere insieme i pezzi di sé stesso. Comportarmi come si deve per me era un grande problema». Roger Federer nel 2001 è ancora nel mezzo della lotta contro le proprie fragilità, alla faticosa ricerca di un equilibrio tra la rabbia adolescenziale e l’imperturbabilità che sarà la sua cifra. Fra la sua sensibilità artistica e il suo spirito competitivo. Non sa che nel quinto set di quella partita contro Sampras capirà alcune cose su sé stesso.