Non c’è più niente da aspettare con Jude Bellingham

Ha soltanto 18 anni, eppure è riuscito a mantenere le incredibili promesse del suo esordio, a diventare subito un centrocampista di livello internazionale.

Scrivere dei giocatori-teenager che riescono ad avere impatto tra i professionisti significa ritrovarsi, presto o tardi, a dover fare i conti con il paradosso di considerarli giovani per sempre, in una dilatazione – anzi: una distorsione – della linea temporale su cui siamo abituati a collocare le varie fasi della carriera di un calciatore. Si potrebbe quasi dire che non accettiamo l’idea per cui un calciatore considerato predestinato, che fa della precocità la sua cifra distintiva, possa crescere davvero. E allora tendiamo a spostare sempre un po’ più in là il momento dei bilanci definitivi, delle definizione ultima del fu wonderkid: per esempio abbiamo considerato giovane – quindi futuribile, quindi meritevole di una seconda, di una terza, di una quarta occasione – un giocatore come Obafemi Martins, abbiamo continuato a farlo anche dopo aver letto, su Wikipedia, che Oba-Oba ha ormai ha 37 anni e che, dal 2016, la sua carriera si è sostanziata in una cinquantina di presenze mal contate nella Chinese Super League; probabilmente consideriamo ancora giovane il 31enne Mario Balotelli ora che è ai vertici della classifica cannonieri del campionato turco; da qualche parte nel mondo è praticamente certo che qualcuno creda ancora in un altro 31enne come Bojan Krkic, nel fatto che possa diventare il nuovo Messi. E chi se ne importa se, nel 2021, ha passato più tempo da svincolato che da tesserato – attualmente è sotto contratto con il Vissel Kobe di Iniesta: un gol in sei presenze il suo score stagionale, non certo ragguardevole.

Con Jude Bellingham è accaduto, sta accadendo, l’esatto opposto. Non c’è più nulla da aspettare, non c’è nessuna parabola da tracciare, nessuno scenario futuro da immaginare: pur essendo nato da pochissimo tempo, per la precisione il 29 giugno del 2003, Jude Bellingham è un calciatore già fatto e finito. È qui e ora, nell’immanenza tipica del predestinato che sembra appartenere da sempre al mondo in cui si trova adesso, quando in realtà ha cominciato a esplorarlo sul serio da tre stagioni scarse.

Nel novembre del 2020, Ed Aarons riportò sul Guardian una dichiarazione di Bellingham: il giovanissimo Jude sosteneva come, in fin dei conti, fosse tutta una questione «di saper crescere in fretta, di sapersi lasciare alle spalle le abitudini di un normale adolescente, perché bisogna essere allo stesso livello dei tuoi compagni di squadra. Se non fosse così è come se deludessi loro e me stesso, perché vorrebbe dire che non starei sfruttando al meglio le mie capacità». Jude Bellingham, un ragazzo che aveva visto ritirare la sua maglia dopo una quarantina di presenze in Championship con il Birmingham City, ha dunque deciso di trasferirsi al Borussia Dortmund proprio perché sentiva l’esigenza di intraprendere un percorso di crescita e miglioramento più veloce del normale; perché per lui era la strada giusta da percorrere per raggiungere il luogo cui era destinato, per avere successo, per ritagliarsi il suo posto nel calcio dei grandi: «Il modo in cui il BvB favorisce l’inserimento dei giovani è di un livello superiore, nessun club in Europa è come loro: le tue prestazioni vengono riviste e analizzate, c’è uno staff che lavora con i giovani, c’è un intero sistema di supporto che aiuta a sviluppare le tue qualità in funzione di ciò che serve alla prima squadra». Insomma, come se le strade di Bellingham e del BvB fossero state destinate ad incrociarsi per forza, due facce della stessa medaglia per cui il giocatore non è altro che «il riflesso scintillante di ciò che questa squadra vuole essere», come ha scritto Raphael Honigstein su The Athletic.

Lo scorso 23 ottobre, quindi nemmeno a un anno di distanza da quelle dichiarazioni, è arrivato il gol contro l’Arminia Bielefeld che lo ha definitivamente messo sulla mappa dei migliori centrocampisti d’Europa, che ha dimostrato come e quanto fosse giusto trasferirsi in Germania, al Borussia, come e quanto avesse avuto ragione a voler andare ad affermarsi fin da subito, senza la necessità di tappe e passaggi intermedi. Il modo in cui Bellingham quasi si ferma dopo aver spezzato il primo raddoppio, giocando sulla contro-intuitività degli appoggi per sbilanciare l’ultimo difensore semplicemente spostando il pallone da destra a sinistra, è tipico di chi ha già imparato a far prevalere la componente tecnica su quella istintiva, resistendo alla tentazione di fare tutto e subito, di fare tutto alla massima velocità possibile – come sarebbe stato naturale, in fondo, per un centrocampista box-to-box di neanche 19 anni, nevrile e dinamico. «Non può essere così giovane, non gli credo, è troppo forte per gli anni che dice di avere: c’è stato un momento in cui ha chiesto, anzi ha preteso che uno dei due centrali gli passasse la palla. A quell’età è un dettaglio che fa la differenza, che significa tanto», ha detto Pep Guardiola lo scorso aprile, quando Bellingham ha segnato al Manchester City il suo primo gol in Champions League – diventando il secondo più giovane marcatore nella storia della competizione, il più giovane di sempre tra gli inglesi, a 17 anni, nove mesi e 17 giorni.

Il gol contro l’Arminia

Qualche giorno dopo la rete all’Arminia, sul sito ufficiale della Bundesliga è comparso questo articolo in cui ci si chiedeva se Bellingham non potesse essere considerato, già oggi, il miglior giocatore del BVB – che, ricordiamolo, è la squadra di Erling Haaland. È una domanda che non sembra esagerata, perché viene posta dopo aver parlato del modo in cui ha «ridefinito il ruolo del centrocampista, potendo agire indifferentemente da numero 8 o da numero 6 e, più in generale, essendo in grado di fare qualsiasi cosa in qualsiasi momento su un campo di calcio». Il fatto che Bellingham si sia dimostrato così pronto per realtà competitive di alto livello non significa che non abbia margini di miglioramento o aspetti del suo gioco su cui lavorare: i suoi limiti e le sue potenzialità sono ancora tutti da esplorare, per quanto le caratteristiche di base siano già ben definite e riconducibili a quella multidimensionalità che ormai caratterizza i centrocampisti di nuova generazione.

Ambidestro naturale, Bellingham nasce mezzala sinistra all’interno di un 4-3-3 in cui può rendersi utile sia per consolidare il possesso che per offrire soluzioni off the ball con i suoi frequenti tagli esterno-interno ad attaccare lo spazio tra il centrale e il terzino avversari; tuttavia le sue qualità in conduzione e la sua dimensione associativa hanno suggerito ben presto un maggior coinvolgimento anche nella fase di prima costruzione, così da sfruttare la qualità del primo controllo orientato e la capacità di mettersi sempre in visione del portatore di palla quando questa esce dalla difesa. Non è un caso, perciò, che prima Terzic e poi Rose gli abbiano allargato il raggio d’azione e la zona d’influenza, portandolo progressivamente ad agire dentro il campo, diventando una sorta di regista aggiunto tra le linee: all’inizio questa scelta ha fatto in modo che venisse sacrificata parte della sua incisività negli ultimi trenta metri, ma ha aumentato i suoi compiti, la sua partecipazione e quindi le sue responsabilità all’interno del sistema.

Oggi Bellingham è una sorta di pendolo che oscilla sulla fascia centrale, è allo stesso tempo costruttore e rifinitore. Il suo gioco è caratterizzato dalla pulizia di esecuzione in ogni singolo fondamentale, ed è questo il dettaglio attraverso cui filtrare e interpretare il passing-game a due tocchi di Bellingham, che è progressivamente aumentato nel volume – dai 35 passaggi di medi del 2020/21 ai quasi 44 attuali – senza perdere nulla in termini di efficacia– 85% di precisione negli appoggi, dato rimasto pressoché invariato negli anni. Per quanto riguarda l’ultimo passaggio, Bellingham non sembra ancora in grado di manipolare a piacimento la difesa avversaria con una singola giocata. E allora preferisce giocare sui controtempi e soprattutto nella transizione, utilizzando la punta o l’esterno del piede destro per premiare il movimento del compagno sulla direttrice di corsa opposta a quella dell’ultimo difensore. Operando, quindi, la scelta più ambiziosa e meno conservativa possibile, anche se non proprio, o comunque non sempre, la più visionaria.

Da quando si è trasferito al Borussia Dortmund, nell’estate 2020, Jude Bellingham ha accumulato 60 presenze ufficiali in tutte le competizioni, con sette gol segnati: tre in Bundesliga, due in Coppa di Germania e due in Champions League (Lukas Schulze/Getty Images)

 

In un’intervista alla BBC di qualche tempo fa, Jude Bellingham ha rivelato come il Dortmund lo avesse convinto a trasferirsi in Germania prospettandogli una sorta di roadmap dalla scadenze precise: «Mi dissero: se vieni da noi ti miglioreremo, avrai il tuo spazio in partita e diventerai un giocatore di livello internazionale nel giro di due anni». Il fatto che questa tabella di marcia sia stata non solo rispettata ma addirittura anticipata – Bellingham è stato convocato nella Nazionale maggiore appena quattro mesi dopo il suo passaggio al Borussia – è forse il dettaglio meno importante o comunque una delle tante implicazioni pratiche che dipendono da ciò che Bellingham è già oggi, dalla sua unicità rispetto a tanti suoi coetanei. Un giocatore che è riuscito ad avere un impatto in un contesto competitivo di molto superiore rispetto a quello di provenienza, che non ha avuto la necessità di un fisiologico periodo di adattamento in un nuovo mondo anche geografico, che non si è ancora scontrato, e chissà se mai lo farà, con il classico rookie wall; ma soprattutto un atleta che ha già tutto chiaro, che non ha bisogno di scoprire cosa è in grado di fare e cosa no, che sa dove, come e su cosa lavorare per diventare il fuoriclasse che già sente di essere.

Quest’estate, mentre ci si stupiva del poco spazio che Bellingham stava trovando nelle rotazioni di Southgate agli Europei, come se fosse del tutto inconcepibile che un diciottenne disputasse appena 55’ alla sua prima competizione internazionale, Otto Addo – l’assistente allenatore del BvB che lavora a più stretto contatto con i giovani della rosa – ha detto che «è diventato sempre più difficile misurare e capire quanto Jude sia migliorato. Di fatto è già diventato impossibile da sostituire, e in un certo senso è persino spaventoso pensare a tutto quello che ha già fatto alla sua età». Come se fosse già tutto programmato, come se fosse tutto già accaduto. Come se Jude Bellingham fosse già diventato il Jude Bellingham migliore possibile quando, in realtà, abbiamo solo iniziato a grattare la superficie.