Genova Città Vecchia

È una realtà divisa in modo ben poco netto per quanto riguarda la cartografia del tifo: le identità si smarriscono, si ritrovano e si sfumano nei caruggi stretti del centro storico.

La notte in cui abbiamo vinto l’Europeo – lo confesso qui per la prima volta – ho avuto un attimo di annebbiamento. È durato poco, un istante, mentre gli amici saltavano sul terrazzo dopo il rigore parato da Donnarumma non so se chiamarlo proprio annebbiamento, decidete voi, ma sì, è stato quando i due si sono abbracciati in lacrime sul prato di Wembley. «Un abbraccio storico, un cerchio che si chiude», e quindi per settimane abbiamo dovuto vedere le immagini di questi due signori commossi che si corrono incontro e si stringono, felici per la vittoria della Nazionale proprio sullo stesso campo dove 30 anni prima la squadra in cui entrambi giocavano, la Sampdoria, aveva perso la finale di Coppa dei Campioni.

Ecco, il mio momento di annebbiamento (ma non so se chiamarlo proprio così, decidete voi) è consistito nel formulare un pensiero fugace ma netto, e cioè qualcosa come: piangi, piangi, come piangevi trent’anni fa] Quando ero ragazzino su di un muro in via Isonzo, tra Sturla e Borgoratti, per anni ha campeggiato la scritta Amaro a Berna che mi faceva tanto ridere, perché si riferiva ad un’altra sconfitta in finale della Sampdoria, pochi anni prima dell’altra, questa volta in Coppa delle coppe, sempre con il Barcellona, e giocata appunto nella capitale della Confederazione elvetica.

A questo punto dell’articolo, però, lo so cosa si potrebbe pensare: ma che rosiconi questi genoani. Pure gli altri, però, non scherzano: nel corso degli anni – viste le tante retrocessioni – ho smesso di contare i simpatici funerali scherzosi organizzati dai doriani in Piazza De Ferrari, con le undici bare, le B gigantesche di cartone, i falsi necrologi… Già, Piazza De Ferrari: è il centro della città, ha una fontana in mezzo, e ogni volta che una delle due squadre vince qualcosa (cioè praticamente mai, per quello che si festeggiano le disgrazie altrui) si riempie di tifosi che alla fine fanno pure il bagno, prima di sciamare nei caruggi che – spiace dirlo – un colore ce l’hanno, anzi due: il rosso e il blu.

Eppure De Ferrari è considerata zona neutra, ed è proprio lì che lo scorso maggio la Samp ha esposto manco fosse la Sindone la coppa dello storico scudetto del ‘91, ed è stata dura, perché tutti sono andati a farsi i selfie e hanno invaso le bacheche di ogni social, alla facciazza nostra di cui, ahimè, non esiste praticamente più un vivente in grado di avere memoria dell’ultimo scudetto del 1924. Il tema del tempo è infatti il grande vantaggio doriano in città: chiunque si ricorda di Vialli e Mancini, di Pagliuca e Cerezo, dello scudetto dei miracoli e di Boskov, nonostante, appunto, siano passati trent’anni, mica tre o quattro. Dall’altra parte, che poi è la mia, invece ci si appiglia al fatto di essere il club più antico d’Italia, fondato da un inglese: insomma, almeno roba nobile. Ma i cui ricordi delle vittorie si perdono in epoche remote, senza neanche filmati, con foto in bianco e nero o in episodi sporadici (la vittoria col Liverpool in Coppa Uefa nel 1992, prima squadra italiana della storia a vincere all’Anfield Road, e poco altro).

Per capire: con i miei occhi ho visto l’intero stadio di Marassi – mi pare fosse il 2004 – acclamare Julio Abbadie, el Pardo, come se avesse smesso di giocare ieri, mentre la maglia la vestì dal 1956 al 1960, cioè 50 anni prima, quando la stragrande maggioranza di chi lo applaudiva in gradinata non era ancora nato. La colorazione calcistica delle zone della città è però tema delicatissimo perché non è nettissima: l’esempio per tutti sono due balconi vicini che affacciano su Corso Europa, a Quarto, che da anni (decenni credo) espongono due striscioni: uno genoano e uno doriano. Ma sono striscioni professionali, di plastica, fatti fare apposta, e quando uno lo rinnova lo rinnova anche l’altro e io mi sono sempre chiesto se i due si parlano, si conoscono, si odiano, boh.

Di certo sugli scogli di Boccadasse sventola orgogliosamente la bandiera rossoblu: «Ce l’abbiamo portata con la barca», ti raccontano i pescatori che stanno lì e parlano in dialetto, ed effettivamente che il luogo iconico, la creuza de mä, mostri i colori del grifone è motivo di orgoglio. Poi lui, De André: grande tifoso genoano, così come Paolo Villaggio – suo amico, alter ego, e archetipo del genovese doc, cioè vecchio e cattivo – era dichiaratamente doriano. Se quindi il levante cittadino guarda al grifone il ponente è spesso accostato alla Sampdoria: d’altronde il nome viene proprio da lì, da Sampierdarena, quartiere all’estremo ovest della città, sede un tempo di fabbriche e porto. Ma sono semplificazioni, la città lotta divisa, e soffre, da troppo. Ancora il tempo, quello è sempre dalla nostra: per il decimo scudetto della stella, per una nuova favola blucerchiata. D’altronde Leicester non è lontana, no?

Da Undici n° 40
Foto di Mattia Parodi