La grande Italia di Mancini è già scomparsa?

Gli Azzurri hanno conosciuto il lato oscuro del progetto che li ha portati a vincere gli Europei.

Ridurre il calcio e lo sport alla pura casualità è un atteggiamento non costruttivo, se non addirittura distruttivo. Se ragioniamo in questo modo, non può essere giusto pensare e dire che l’Italia di Mancini abbia vinto gli Europei in maniera accidentale, così come non sarebbe corretto pensare che il mancato raggiungimento del primo posto in un girone con Svizzera, Nord Irlanda, Bulgaria e Lituania sia da attribuire solo agli episodi, ai rigori falliti nelle due gare contro la Svizzera, al pareggio casuale – quello sì – contro la Bulgaria, allo 0-0 contro l’Irlanda del Nord. La verità, come succede più o meno sempre, è sfumata e sta nel mezzo: la Nazionale che ha vinto gli Europei e quella che ha vinto solo due delle ultime sette partite – contro la Lituania e contro un Belgio a dir poco dimesso e rimaneggiato – sono unite da un filo sottile ma ben evidente, un filo su cui Mancini ha deciso di camminare utilizzando un monociclo e facendo volteggiare dieci palline, incurante del pericolo di cadere. Alla fine è caduto, ma sotto c’era – c’è ancora – la rete di protezione dei playoff. Proprio come succede al circo: restano la brutta figura, la paura molto umana di doverci riprovare, di poter cadere di nuovo. Ma c’è ancora tempo per portare a termine il numero e prendersi un applauso.

Fin dal giorno della sua nomina come ct della Nazionale italiana, Roberto Mancini ha fatto scelte radicali. Se non negli uomini, quantomeno nell’impostazione tattica e mentale: la sua squadra si sarebbe fondata sulla qualità tecnica e sull’aggressività, sul possesso palla e sulla difesa alta, senza compromessi, senza deviazioni, soprattutto senza fare calcoli. Era una grande rivoluzione, visto il passato dell’Italia, considerando la retorica della grinta e della difesa da cui il nostro calcio si è fatta ammaliare, fino a diventarne prigioniera, per non dire ergastolana. Il fatto che questa strategia abbia funzionato fin da subito, e poi fino in fondo, fino alla vittoria degli Europei, ha fatto sì che tutti dimenticassimo – o tralasciassimo – un aspetto fondamentale: che non c’erano e non ci sono alternative. E che, sotto la patina – preziosa ma anche funzionale – di un gioco ricercato e sofisticato, questa Nazionale ha dei valori importanti ma non proprio eccellenti.

Anche Roberto Mancini se n’è dimenticato, o non ha individuato quali potessero essere le strade di riserva. E quindi ha preferito radicalizzare ancora di più il suo progetto, si è avvitato su ciò che aveva costruito. Considerando la gara contro l’Irlanda del Nord, le due partite contro la Svizzera e quella contro la Bulgaria, l’Italia si è schierata con un totale di 16 calciatori titolari su 44 slot potenziali; tra questi 16 ci sono anche Florenzi e Tonali, che però hanno giocato una sola volta dall’inizio, rispettivamente contro Bulgaria e Irlanda del Nord; nei due match contro Bulgaria e Irlanda del Nord – quelli che, di fatto, hanno determinato l’arrivo al secondo posto dietro la Svizzera – il primo giocatore a subentrare dalla panchina è stato Bryan Cristante, non proprio un talento creativo; in tutte queste partite, la prima alternativa tattica offensiva – dall’inizio o a gara in corso – è stata l’utilizzo di Insigne nello slot di prima punta.

Roberto Mancini, per dirla con poche parole, ha trovato la formula vincente e ha deciso di investire solo su quella. Non ha più diversificato le sue formazioni e l’atteggiamento dei suoi giocatori, non ha più sperimentato. Per qualcuno si è trattato di eccessiva riconoscenza verso il suo gruppo di giocatori, per altri il ct è diventato supponente e presuntuoso, incapace di rimettersi di nuovo in discussione. Dopo una vittoria così bella e meritata e inattesa come quella agli Europei, va detto che  entrambi gli atteggiamenti sarebbero molto umani, quindi anche comprensibili. Il punto, però, è un altro. E sta di là della natura delle scelte compiute da Mancini. Per essere funzionale, nel senso di performante ed efficace, l’Italia del possesso palla e della difesa alta deve essere brillante. Deve esserlo nei singoli, nel senso che tutte le giocate – i passaggi tra le linee, le sovrapposizioni, i lanci e gli inserimenti in profondità, gli spunti e i tiri in porta – devono essere precise, puntuali, veloci. È la dolce condanna del calcio sistemico: se i giocatori stanno bene e allora si esprimono bene, questo approccio tattico ti permette di comprimere le distanze, di colmare il gap esistente con altre squadre, fino al punto di vincere, qualche volta; quando invece i calciatori non sono nel periodo giusto, puoi diventare praticamente inoffensivo. Anche contro l’Irlanda del Nord.

In un contesto come quello della sua Nazionale, quella che ha vinto meritatamente gli Europei, Mancini non può fare a meno del cervello fine e della tecnica superiore di Marco Verratti; non può rinunciare all’irruenza di Chiellini e ai tagli da sinistra di Insigne; non può sostituire Immobile con questo Belotti oppure con Raspadori e/o Scamacca, può farlo con Insigne ma poi non può schierare il capitano del Napoli sulla sinistra; fa molta fatica ad avere un possesso palla imprevedibile con Émerson al posto di Spinazzola, con Jorginho e Barella in affanno; non riesce ad armare Chiesa, apparso smarrito e confusionario a destra come a sinistra. Se a tutti questi – evidenti – problemi tattici, ci aggiungi quelli relativi a una psiche più appesantita, meno libera rispetto a qualche mese fa, ne viene fuori l’Italia che abbiamo visto dalla fine degli Europei a oggi. La stessa squadra, solo privata delle sue cose migliori.

Un ultimo appunto statistico, forse indicativo o forse no, su ciò che è successo alla Nazionale di Mancini: considerando solo le dieci partite del girone di qualificazione agli Europei 2020 (poi disputatisi un anno dopo causa pandemia), il ct ha fatto esordire dieci giocatori diversi – Zaniolo, Izzo, Mancini, Pavoletti, Di Lorenzo, Tonali, Castrovilli, Meret, Gollini, Orsolini. A questi vanno aggiunti i vari Berardi, Émerson Palmieri, Barella e Kean, scesi in campo per la prima volta nelle amichevoli o nelle gare di Nations League del 2018. Nelle otto gare di qualificazione ai Mondiali 2022, gli unici calciatori ad aver esordito sono stati Tolói (prima degli Europei, tra l’altro) e Scamacca. Ecco, magari è vero che le alternative non sono così tante. Ma è vero pure che, a un certo punto, Mancini ha smesso di cercarle. Magari sarebbe stato utile averne qualcuna in più contro Bulgaria, Svizzera, Irlanda del Nord. Magari tornano utili per gli spareggi di marzo.