L’Uruguay sta vivendo una crisi profondissima

Quattro sconfitte consecutive hanno messo in dubbio la partecipazione della Celeste ai Mondiali 2022. Ma il problema è generazionale, va ben oltre i risultati sul campo.

L’Uruguay è uno dei più grandi paradossi nella storia del calcio mondiale: in tanti – a cominciare dal New York Times, in questo articolo uscito pochi giorni fa – si sono sempre chiesti com’è possibile che un Paese così piccolo, che ha più o meno gli stessi abitanti della città metropolitana di Milano, abbia un bacino di campioni così vasto e una tradizione così consolidata e riconosciuta a livello globale. Ovviamente, provare a rispondere a questa domanda vuol dire scendere in profondità, andare oltre il calcio, ripercorrere la storia politica e sociale dell’Uruguay: un’operazione troppo complessa, anche perché poi è anche una questione di talento e quindi di fortuna. Per dire: Edinson Cavani e Luis Suárez, due degli attaccanti più forti degli ultimi quindici o vent’anni, non solo sono nati nella stessa, piccolissima, nazione, ma addirittura nella stessa città, a Salto. Che, ovviamente, non arriva a 105mila abitanti.

L’ultima età dell’oro del calcio uruguagio coincide proprio con la carriera di Cavani e Suárez, e poi di Godín, Muslera, Cáceres: c’erano tutti nel 2011, quando la Celeste ha vinto la Copa América, ed erano presenti anche un anno prima, quando l’Uruguay è tornato in semifinale ai Mondiali dopo quarant’anni. Allora c’erano anche Lugano, Forlán, Fucile, Abreu, mentre i loro eredi sono Giménez,  Nández, Bentancur, talenti riconoscibili a livello internazionale. Il punto è che questo ricambio generazionale è ancora in corso, non si è ancora completato, e non sta dando gli effetti sperati: nelle ultime due edizioni della Copa América (2019 e 2021), la Nazionale di Tabárez è stata eliminata ai quarti di finale da due avversarie di livello equivalente se non inferiore (Perù e Colombia), mentre ora è addirittura al settimo posto nella classifica del girone unico sudamericano per la qualificazione ai Mondiali. Nelle ultime quattro gare, sono arrivate altrettante sconfitte: se le due con l’Argentina (0-3 in trasferta e 0-1 in casa) e quella col Brasile (1-4 in trasferta) rientrano nella normalità delle cose, quella contro la Bolivia (0-3 a La Paz) ha certificato la crisi profondissima della Celeste. Che, giusto per chiarire i contorni del tutto, non vince in gare ufficiali dal 10 settembre 2021, quando è riuscita a battere per 1-0 l’Ecuador: da allora, sono arrivati un pareggio (in casa contro la Colombia) e le quattro sconfitte di cui abbiamo già detto.

Il format delle qualificazioni sudamericane è infinito, l’Uruguay ha ancora tutto il tempo per recuperare il solo punto che lo separa dalle rappresentative al quarto posto in classifica, vale a dire Colombia e Perù. Ma resta il fatto che questa generazione di giocatori della Celeste sembri inevitabilmente destinata al capolinea, a chiudere la sua storia dopo la scadenza dei Mondiali 2022, al di là dell’eventuale qualificazione. Come detto, gli eredi dei campioni del 2011 – i già citati Giménez,  Nández e Bentancur, ma anche i vari Gastón Pereiro, Lucas Torreira, Fede Valverde e Maxi Gómez – non sono ancora riusciti a imporsi in maniera definitiva, sia nei loro club che in Nazionale. E poi anche il ct Tabárez – che, ricordiamolo, soffre di una grave malattia degenerativa – sembra ormai lontano dai suoi anni migliori. Per la prima volta dal 2006, ovvero da quando ha avviato la ricostruzione della Nazionale, si parla di una sua possibile destituzione; qualcuno gli ha chiesto addirittura di dimettersi. La sua risposta – riportata da El Gráfico – è stata negativa: «Ho un contratto e so come funziona a certi livelli: le decisioni vengono prese da altri, noi in questo momento ci aspettiamo qualcosa di più dal punto di vista del gioco e dei risultati, ma è evidente che la qualificazione ai Mondiali dipende sempre meno da noi».

Il punto è che questo atteggiamento fatalista caratterizza anche il modo in cui il calcio uruguagio si approccia all’individuazione e allo sviluppo del talento: Diego Forlán, intervistato dal New York Times, ha detto che «in Uruguay abbiamo una grande tradizione giovanile, ma il mondo sta andando in un’altra direzione: il confronto tra un bambino europeo e uno uruguaiano è impietoso, in questo momento». È anche una questione strutturale: Germán Brunati, direttore sportivo del Montevideo City Torque (la squadra uruguagia del City Football Group), ha spiegato che «ogni anno c’è un esodo di giocatori: puoi guadagnare di più giocando non solo in Brasile e Argentina, ma anche in Perù ed Ecuador. E quei posti vengono poi occupati da giocatori più giovani». Insomma, in Uruguay il ricambio ci sarà sempre, ma non è detto che possa garantire gli stessi risultati dell’ultimo, meraviglioso ciclo. E il problema è proprio questo.