Daniil Medvedev, nuovo genio del tennis

Era un giocatore incompreso, brutto da vedere, difficile da amare. Poi le sue qualità tecniche e tattiche sono esplose in maniera fragorosa, rendendolo uno dei tennisti più difficili da affrontare. E ora ha iniziato a vincere.

Come i grandi orsi, Daniil Medvedev compare d’estate. Il suo habitat è quello dei torridi campi di cemento americani, dove ai bordi le persone si sventolano con volantini pubblicitari, esausti ventilatori gettano fiotti d’aria velleitari, l’aria pare liquefarsi al calore e il tennis diventa innanzitutto una faccenda di sopravvivenza fisica contro il cambiamento climatico. Daniil Medvedev è il maestro di questi campi, anche se, quando è comparso due anni fa, nessuno lo sapeva. Lo conoscevamo come un giocatore completamente diverso, ben più trascurabile. Aveva partecipato alla prima edizione delle Next Gen ATP Finals, ma come una specie di fratello mal riuscito dei veri talenti del tennis mondiale: magro, perfido, tutto storto. Il gemello cattivo del più talentuoso Rublev e del più solido Khachanov. Aveva anche una certa inclinazione alla sgradevolezza; litigava con tutti, aveva contestato un arbitro nel tempio di Wimbledon lanciandogli monetine. Era impossibile amarlo.

Poi, due anni fa, comincia a vincere. Raggiunge la finale a Washington, a Montreal, vince a Cincinnati e, arrivati agli US Open del 2019, nessuno vuole affrontarlo. Non è solo lui, ma anche il suo stile di gioco a possedere qualcosa di perturbante. «Gioca in un modo completamente diverso rispetto agli altri, il suo stile è davvero strano. Ti mette a disagio» ha detto Kei Nishikori. Dice che la sua strategia, in effetti, è quella di far soffrire il suo avversario. Guardare Daniil Medvedev giocare è un’esperienza peculiare. Specie all’inizio della carriera, veniva presentato col luogo comune del tennista “brutto ma efficace” – lui stesso ammette che guardandosi in video si ritrova a pensare «Ma cosa sto facendo?!». Eppure più lo si guarda più i suoi movimenti hanno qualcosa di ipnotico, una grana particolare. È alto quasi due metri, ma si muove con grande elasticità, le aperture dei suoi colpi sono esagerate, le chiusure mozze, le braccia lunghe da creatura onirica di Alfred Kubin gli danno un’aria tremenda e predatoria.

Eppure dà la sensazione che a renderlo eccezionale sia qualcosa che si agita sotto questa patina cupa. È difficile da capire, Medvedev. In campo emana un’energia fredda e spigolosa, il pubblico lo detesta. Agli US Open del 2019, partita dopo partita, indossa i panni dell’anti-eroe con sempre più agio. Mescola due qualità molto russe: senso dell’umorismo surreale e spirito antagonista. Ha l’attaccatura dei capelli alta, che si arresta un attimo prima della vera calvizie, un pizzetto satanico e, seduto al suo angolo, agita le braccia magre verso il pubblico con la faccia rivolta al cielo. Mentre è ricoperto di fischi va al microfono sorridente, dice: «Quando vi metterete a letto stanotte, voglio che pensiate che ho vinto grazie a voi. Solo grazie a voi». Tra la disapprovazione del pubblico, in quegli US Open batte più o meno tutti, perdendo solo in finale da Rafael Nadal, che comunque ci mette cinque set per venire a capo del suo enigma.

Gli anni recenti di tennis sono pieni di falsi exploit dei giovani, e Medvedev ha in più il problema di saper giocare solo su cemento. Agli internazionali d’Italia, a Roma, dà di matto contro l’esistenza stessa dei campi in terra rossa: «Ti piace rotolarti nello sporco come i cani? Ok, non giudico»; poco dopo chiede di essere squalificato: «Qui posso essere un pericolo per chiunque». A Madrid batte la racchetta a terra come un bambino capriccioso: «Non voglio giocare su questa superficie!». L’arbitro gli ricorda che non può danneggiare il campo: «Ma è una brutta superficie, è già danneggiata!». Quando torna il duro cemento, però, si calma. Vince le ATP Finals del 2020 battendo i migliori giocatori al mondo, e agli Australian Open del 2021 pare essere arrivato il suo momento. In finale trova un Novak Djokovic malandato mentre lui scoppia di salute. Djokovic di cui pare l’erede: per l’attitudine da villain, ma anche per l’intelligenza tattica. In molti pensano che possa vincere, ma affrontare uno dei big-3 alla prima finale Slam è troppo complicato.

Nella classica trama re contro regicida, perde passando tre set in totale balia tattica, tecnica e mentale del suo avversario. Esce dal campo con la testa bassa, mentre Djokovic ruggisce: «Questa nuova generazione ha ancora parecchio lavoro da fare». Medvedev non batte ciglio e si mette a lavorare, aggiusta un tantino il suo tennis alla stagione europea sulla terra e alla piovosa stagione inglese su erba, non vince niente di rilevante ma tiene alta la classifica. Quando si presenta a un’altra finale Slam, lo scorso settembre, è numero due del mondo e ha tutta l’intenzione di vendicarsi dell’umiliazione subita qualche mese prima. Di fronte ha di nuovo Novak Djokovic, vicino al titanico traguardo del Grande Slam e con addosso una paura di perdere che fa tenerezza. È in campo debole e tremante, mentre Medvedev dispone di lui con l’intricata crudeltà delle sue giornate migliori.

Per Medvedev, quella di oggi contro Zverev è la seconda finale alle Finals: un anno fa ha vinto il torneo di fine anno battendo Thiem in finale con il punteggio di 4–6 7–6 6–4(Clive Brunskill/Getty Images)

I giocatori che più hanno evoluto il tennis negli ultimi decenni sono stati quelli capaci di rendere flessibile il passaggio da una situazione difensiva a una offensiva. Hewitt è stato il primo, poi Nadal e infine Djokovic. Medvedev, però, sembra aggiungere una nuova complessità. Varia atteggiamento in modo radicale tra un punto e l’altro, o persino tra un colpo e l’altro. Gioca colpetti interlocutori a metà campo, e subito dopo imprevedibili catenate vincenti. Sa quando giocare agli angoli e quando sfruttare la profondità; se ne sta innocuo a rispondere diversi metri oltre la linea di fondo, ma dopo avanza quatto quatto. Varia altezze e atteggiamenti seguendo uno schema tutto suo. Con la cerebralità dello scacchista, non smette mai di manipolare i suoi avversari, ridotti a chiedersi cosa stanno sbagliando. Non è il primo giocatore a giocare un tennis distruttivo, ma nessuno lo fa in modo tanto raffinato. Gilles Simon ha detto: «In molti da fuori non capiscono cosa faccia ma vi assicuro, è un genio». In quella finale vince in tre set trasformando il tennis in un gioco puramente intellettuale, rendendo efficaci anche i colpi mal eseguiti; dopo il matchpoint si getta a terra con gli occhi chiusi e la lingua di fuori, mimando un pesce spiaggiato. È un tributo a un’esultanza di Fifa. C’è sempre qualcosa di pazzo in un cattivo che fa cose simpatiche.

La vittoria a Flushing Meadows pare inaugurare il suo regno, da cui è difficile capire cosa aspettarsi. Ha un modo molto personale di interpretare il ruolo del campione di tennis; col tempo ha imparato a mostrarsi meno spigoloso, ma non ha perso un senso dell’umorismo indecifrabile. Ai Giochi Olimpici di Tokyo, in una temperatura estrema, mentre cercava di rianimarsi con un getto d’aria sparato sulla faccia, ha chiesto all’arbitro chi si sarebbe assunto la responsabilità della sua morte, se quel giorno fosse morto sul campo. Gli piace prendere questi atteggiamenti da personaggio dostoevskiano, mettere a disagio il suo interlocutore, spandere il gelo. Non si capisce mai cosa gli passi per la testa, ma non è una posa, Daniil Medvedev pare essere davvero un genio.

Da Undici n° 41