Le ATP Finals a Torino: l’inizio di una nuova era per il tennis italiano

Reportage dal torneo di fine anno: cos'è andato bene, cosa si può migliorare, e la sensazione che per Berrettini e Sinner sia solo l'inizio.

Ci sono tornei che fanno grandi i giocatori e giocatori che fanno grandi i tornei. Nella prima categoria rientrano gli Slam, e quel treno è perso da decenni. Non lo abbiamo, non lo avremo. Un passo indietro, sebbene nella stessa famiglia, ci sono le ATP Finals itineranti. E quelle, adesso, ci sono. Per l’Italia, il Master (così si chiamava una volta) è stato un torneo indimenticabile con una finale dimenticabile, uno Zverev-Medvedev già visto nei Round Robin ma, come spesso accade in questa formula del perdi-e-resti, dall’esito opposto e con tanto, troppo pathos in meno. A giudicare l’evento facendo finta di essere svedesi, questo torneo mancava non solo di svedesi ma di Federer e Nadal, e del disperso Thiem. Di grandi decaduti per anzianità e malanni cronici come Wawrinka e del Potro, per tacer di Murray. Come se non bastasse, il numero 4 del seeding ha giocato una partita e poi ha salutato; il numero 6, addirittura un set e poi si è infortunato, sicché sono entrate due riserve. È stato un evento tipico di un’era di mezzo, con qualche parvenu che forse non farà l’abbonamento alla top ten.

Solo che non siamo svedesi. Dopo aver peregrinato per Stati Uniti e Asia, e aver messo radici a Londra, le ATP Finals si sono giocate a Torino. Dove non si ricordava niente del genere dai tempi di quel Pietrangeli-Laver disputato nel 1961 non al Foro Italico di Roma ma al circolo della Stampa, per celebrare il centenario dell’unità d’Italia. Tanto che c’è stata una gara ad accaparrarsi i meriti dello spostamento di sede, che appartengono a un presidente di federazione cocciuto e ruvido, dal linguaggio ben poco istituzionale ma dall’indiscutibile capacità manageriale – si chiama Angelo Binaghi e tende a dividere il mondo tra chi è d’accordo con lui e chi ha torto – e all’ex sindaco grillino Chiara Appendino, appassionata ex tennista e, per sua fortuna, non vittima del “meno è meglio, nulla ancor di più” che ha ammorbato la collega Raggi e che ha tolto a Roma i Giochi e al capoluogo piemontese le Olimpiadi invernali ma, almeno, ha risparmiato la candidatura del tennis.

Dire che al Pala Alpitour sia andato tutto bene significherebbe mentire: la gestione spavalda dei biglietti ha portato l’organizzazione a vendere più ticket rispetto al 60% di capienza ufficiale concesso dal Cts, a dispetto di rassicurazioni – a registratore spento – di deroghe fino al 75% poi disattese. E così si è creata una risacca di gente prima ammessa e poi respinta, poi ancora riammessa grazie a ricalcoli e, infine, in parte lasciata fuori dall’uscio. Certo, c’era il Covid. Il maledetto Covid. Ma le code all’ingresso, i baretti smunti con due panini freddi per la gente costretta a restare nel suo settore anche tra una partita e l’altra, i bagni sottodimensionati e il contorno dell’evento nel palazzetto pressoché inesistente non sono da attribuire alla sfortuna, semmai a inciampi su cui sarà opportuno lavorare meglio per il prossimo anno. Tenendo conto che a novembre, a Torino, tendenzialmente pioverà e farà freddo, sempre. E che il pubblico difficilmente si sposterà fino in piazza San Carlo, sotto un tendone zuppo di acqua per assistere a sessioni di interviste marzulliane.

Altrettanto disonesto sarebbe fare leva sui doppi falli per sviare lo sguardo dal momento unico del tennis italiano. Perché venue a parte, come piace dire all’Atp, uno dei due azzoppati del torneo è stato il povero Matteo Berrettini, che quest’anno ha perso contro due soli avversari invincibili nei grandi eventi: Novak Djokovic (a Parigi, Wimbledon e US Open) e i suoi muscoli addominali (Australian Open e ATP Finals). E per noi, abituati dal 1970 e pochi anni più in là ad ammirare nel Master campioni di tutte le nazioni salvo la nostra – altro che la Svezia o le grandi corazzate: pure il Cile, la Svizzera, la Grecia hanno piazzato atleti alle Finals, e noi mai – poteva essere l’apoteosi della sfiga. Ma tu guarda se un tennista italiano al Master italiano, rarità nella unicità, può partire alla grande, giocare un primo set da Formula Uno contro Zverev e, al primo cambio gomme, rompere il motore. Invece no: perché vinto un italiano, se ne è fatto un altro. Che, a differenza di Ruud e forse pure di Hurkacz, alle Finals si qualificherà vita agonistica natural durante, ed è Jannik Sinner. E accanto a lui, a farsi intervistare nel grattacielo di uno sponsor (italiano pure quello, la fabbrica del caffè) c’era Lorenzo Musetti, a promettere che anche il suo tempo sta per arrivare.

Insomma: senza pioggia, senza Covid, con una macchina più oliata e una bottarella di fortuna, si sarebbe potuto gridare alla Woodstock del tennis italiano. Il torneo dei maestri disputato sul suolo nostrano, con due protagonisti italiani e, magari, uno dei due in semifinale. O anche più in là, perché è inutile fare come quelli del pallone che non osano parlare di scudetto e coppe ma di «fare bene» perché legati a scaramanzie medievali. Berrettini e Sinner sono candidati a quella cosa che si chiama torneo dello Slam e che un giocatore italiano non vince dalla primavera del 1976, un tempo ormai lontano a sufficienza da farsi docuserie storica (si chiama Una squadra e l’ha scritta Domenico Procacci).

Per Alexander Zverev, il 2021 è stato un grande anno: la vittoria alle Finals di Torino segue quelle ottenute ai Giochi Olimpici di Tokyo e ad altri quattro tornei stagionali, tra cui i 1000 di Madrid e Cincinnati (Account Twitter ATP FInals)

Invece le prime Finals sabaude se le è portate a casa un giocatore, Alex Zverev, cui mancano ancora i gradi per definirsi campione assoluto – mai numero uno al mondo, ancora a secco negli Slam – e forse rappresentano un epilogo fedele a una settimana storica ma non epica, come quei concerti in cui la voce va e viene dall’amplificatore e un acquazzone disturba la scaletta. Ma se si è colti dalla tentazione di fare l’elenco delle ombre e dei piccoli pasticci, conviene ricordare come ci trovavamo quando ancora giocava Andrea Gaudenzi, attuale presidente dell’Atp (altra novità assoluta, dopo una stirpe di manager anglofoni e mediamente poco capaci).

Quando il numero uno italiano era l’ammirevole Gianluca Pozzi, detto il McEnroe dei poveri. A 35 anni, unico rappresentante italiano tra i primi 50 del mondo, anno domini 2001; quando, per trovare un italiano in classifica, bisognava cliccare sul tasto “cerca”, tanto era improbabile scorgere una bandierina tricolore nella lista Atp. A pensarci, vengono i brividi di freddo. Altro che la november rain di Torino.