Agli arbitri inglesi non è concesso avere la barba

Non è solo un problema estetico: questo divieto può rappresentare una discriminazione nei confronti di alcune minoranze.

Nel panorama del calcio inglese, quella di David Elleray è una figura importante ma anche controversa: arbitro internazionale – ha diretto una partita degli Europei 1996 – fino al 2003, è entrato a far parte del comitato arbitrale della Football Associations ed è direttore tecnico dell’Ifab, l’organismo indipendente dalla Fifa che custodisce e aggiorna le regole del gioco. Negli ultimi giorni, in Inghilterra sono uscite alcune notizie non proprio edificanti su Elleray: secondo una denuncia depositata in Federazione, nel 2014 Elleray avrebbe rivolto all’arbitro Rob McCarthy alcune frasi discriminatorie, facendo riferimento al suo colore della pelle – nella fattispecie, le frasi sarebbero «sembri piuttosto abbronzato» e «sei stato in una miniera di carbone?». Sull’onda di queste informazioni, che ovviamente saranno giudicate dagli organi competenti, sono venuti fuori altri racconti particolari sulla figura di Elleray: circa un anno fa, in un incontro con una classe di aspiranti arbitri, avrebbe detto che nella stanza in cui si trovava c’erano «troppe barbe, tatuaggi e pance di birra». Elleray non ha smentito e neanche confermato questa voce, spiegando solo che «gli arbitri inglesi devono dare sempre l’impressione di essere intelligenti e atletici». Anche se non è una regola scritta, dunque, agli arbitri inglesi non è concesso avere dei tatuaggi e portare la barba lunga.

Non è la prima volta che si parla di questo problema: già in passato, alcuni aspiranti arbitri inglesi avevano denunciato di essere stati divisi, durante un corso preparatorio, in gruppi caratterizzati dalla presenza della barba. Per la precisione, questo fatto si sarebbe verificato durante una conferenza che si è tenuta al St George’s Park qualche anno fa. Non ci sono prove che anche in quel caso sia stato Elleray a portare avanti questa lotta contro la barba, ma in ogni caso si tratta di una ghettizzazione estetica che “rimanda” al suo indirizzo. Anzi: per l’associazione Kick It Out, una delle più importanti associazioni antirazziste nel panorama del calcio inglese, potrebbe essere il sintomo di qualcosa di molto più grave. L’amministratore delegato di KIO, Tony Burnett, parlando con il sito iNews, ha detto che «si tratta di un’evidente discriminazione indiretta. La barba è importante per molte persone di diverse fedi religiose, e sostenere il divieto a portarla lunga avrà senza dubbio avuto un impatto dannoso su un certo numero di minoranze già poco rappresentate nel calcio inglese».

I dati e la storia confermano la lettura di Brunett: i 40 arbitri che si alternano in Premier League e Championship sono tutti bianchi; l’ultima partita del massimo campionato con un direttore di gara di colore risale al 2008 – era un Liverpool-Tottenham e l’arbitro in questione era Uriah Rennie. Scendendo nelle categorie inferiori, solo il 10% dei 24mila arbitri presenti nel Regno Unito appartengono alla comunità BAME (acronimo di Black, Asian and Minority Ethnic). Ovviamente il problema non riguarda gli arbitri, ma chi li sceglie e gli permette di fare carriera. Proprio in relazione a questo punto, la Football Associations ha inviato una mail alla redazione di iNews in cui ha annunciato l’inizio di una ricerca per «osservatori arbitrali che rispecchino la società attuale», quindi di figure professionali che «provengono da comunità storicamente sottorappresentate» e «siano interessati a diventare funzionari di campo». Insomma, il problema della barba (e dei tatuaggi) è solo la parte più superficiale di un disagio decisamente più profondo, che però finora era stata sostanzialmente ignorato dalle istituzioni calcistiche inglesi.