New York ha scoperto il calcio

Reportage dallo Yankee Stadium, l'impianto casalingo del New York City FC, che ha vinto la Mls per la prima volta nella sua storia.

La stazione di Wilson Avenue profuma di fragole e dà su un cimitero. Sono queste le prime cose che mi colpiscono quando inizio il viaggio da Brooklyn verso il Bronx, dove assisterò a un match casalingo del New York City. La partita si gioca allo Yankee Stadium, inaugurato nel 2008, che ha una capienza di 52.325 posti: si tratta dell’opera di edilizia sportiva più costosa mai realizzata (2,3 miliardi di dollari di investimento) sulla Terra. Il suo omonimo, storico predecessore ha ospitato per 86 anni la franchigia di baseball più ricca, importante e riconoscibile del mondo. E continua a ospitarla ancora oggi, come si evince piuttosto chiaramente dal nome dell’impianto.

La New York che costruiamo nella nostra immaginazione è vittima di un equivoco toponomastico: Broadway. Che è effettivamente il luogo delle luci e dei teatri e dei musical internazionali, ma solo a Manhattan. In realtà esiste pure negli altri quattro borough della città, ma è una cosa diversa: uno stradone largo con i supermercati e i fast food etnici ai lati (Staten Island e una parte del Queens), oppure una carreggiata più stretta, sovrastata da un ponte su cui passa la subway (Brooklyn, Bronx, l’altra parte del Queens). Lo Yankee Stadium sorge in uno scenario come questo. Dal mio posto in tribuna, prima dell’inizio della partita, ascolto The Star-Spangled Banner cantata a cappella da un agente di polizia in divisa, mentre vedo passare il treno della metropolitana sopra l’ultimo anello dello stadio.

Il calcio, negli Usa, non è più uno sport ospite. I numeri sono eloquenti: secondo alcune analisi di mercato, la Mls è davanti alla Mlb per numero di appassionati nel target 12-17 anni; i bambini che giocano a calcio nei tornei giovanili federali sono più di 3 milioni; gli investimenti nelle franchigie della Usl – una sorta di “campionato riserve” della Mls – sono passati dai 500mila euro del 2012 ai 21 milioni di euro della stagione 2016. La sensazione di upgrade generale di interesse è confermata dalla folla che riempie il piazzale antistante lo stadio – ovviamente, la Babe Ruth Plaza. Ci sono intere famiglie vestite dell’azzurro del City, bagarini che cercano di acquistare o vendono biglietti, lunghe file ai tornelli di ingresso. Qualcuno sfoggia gadget di club calcistici europei, tipo Chelsea o Barcellona, ed è un po’ la legge del contrappasso del merchandise Nba in Europa. Gruppetti di ragazzi camminano compatti e intonano cori, poco prima di entrare mi imbatto in una decina di persone con tamburi, tromboni e gli altri strumenti di una banda musicale. Indossano tutti la maglia della squadra di casa e portano al collo la sciarpa con il crest del City. Vorrei avvicinarmi per chiedergli chi sono e cosa fanno, ma mi viene impedito da un poliziotto.

Un articolo pubblicato dal Telegraph nel 2016 spiegava come la rivalità tra il New York City e l’altra franchigia della città – fondata nel 1995 con il nome New York Metrostars e diventata New York Red Bull nel 2006 – fosse cresciuta tantissimo nonostante l’Hudson Derby esistesse solo dal 2015, anno della creazione del NYCFC. Nel testo, le parole più interessanti sono quelle di Ben Glidden di The Third Rail, il gruppo di tifosi del City più appassionato e rappresentativo: «Le rivalità sportive americane sono spesso prodotti di marketing, frutto di vere e proprie campagne mediatiche e social in grado di generare competitività. Il vero senso di una rivalità, però, sta in un qualcosa di reale che nasce fuori da queste dinamiche. Avere lo Yankee Stadium pieno per un derby calcistico ci dice che qualcosa di reale in effetti esiste, e manda un messaggio alla lega: questa rivalità è un vero affare, e il fatto che sia relativamente giovane non toglie che sia già una delle più importanti della Mls, se non la più importante».

L’approccio alla partita, nella Major League Soccer, è diverso. Cominci a capirlo a pochi minuti dal calcio d’inizio, quando gran parte dei settori sono ancora vuoti e la gente entra piano, a scaglioni, che il match è già cominciato; lo vedi quando le fan cam pizzicano i volti dei tifosi, e si sorride o si saluta o si fanno le smorfie, e difficilmente noti una partecipazione concitata al gioco; lo percepisci sentendo la curva di casa che suona tamburi e intona cori per tutti i novanta minuti, anche quando gli avversari battono un calcio di rigore e tu sei abituato al calcio europeo, al silenzio della trepidazione, della tensione, ai fischi che vorrebbero indisporre l’avversario ma in realtà sono l’espressione della paura; te ne rendi conto quando ti aspetteresti che qualcuno inizi a incazzarsi o a inveire e fischiare, perché la partita si è messa male, malissimo, e invece i tifosi sono felici e si godono lo spettacolo, risalgono le gradinate a piedi per recarsi ai punti bar e si siedono ai tavolini, sì, ci sono i tavolini in alcuni punti dello stadio, fanno in modo da non farti capire se e quanto gli spalti siano effettivamente pieni perché si muovono continuamente, pensano ad altro e non al gioco che va male, e non soffrono per il regista che non riesce mai a trovare l’attaccante in verticale, per il laterale offensivo che si muove tantissimo ma alla fine non tira mai, e neppure trova un compagno libero in area da servire. Sono le immagini che vediamo in tv, in diretta dai palazzetti Nba o Nhl o dai grandi stadi di baseball e football americano. Però durante una partita di calcio.

Rispetto all’Europa c’è dunque un altro tipo di pathos, una diversa modalità di presenza all’evento sportivo, esiste un rapporto diverso tra pubblico e squadra. Eppure, la comunicazione dello stesso City, lungo tutta l’esperienza della partita, insiste su tematiche, narrazioni e retoriche che sarebbero riconoscibili anche agli appassionati europei: prima del match, le luci dello stadio si spengono e sugli schermi scorrono video che mostrano i luoghi e i monumenti simbolo di New York, come a voler creare una simbiosi tra il territorio, i tifosi, il club; durante il gioco, oltre a mostrare persone presenti allo stadio e alcuni tweet con l’hashtag della partita, sul videowall compaiono altri sportivi presenti allo stadio per seguire il match, in un crossover con discipline più tipicamente americane che ha la chiara intenzione di fidelizzare il pubblico attraverso volti più riconoscibili, tipo quello di un giocatore dei New York Knicks, la franchigia di basket più sfigata del mondo; accanto alla curva in cui sono assiepati i tifosi del City, c’è stampata una scritta propriamente calcistica nella sua enfasi: «Every match is a chance to make history». Si avverte come il club punti alla costruzione di un’identità forte intorno alla squadra, tipica del football europeo e forse necessaria per fare l’ultimo salto verso l’eccellenza del soccer statunitense: quello dell’appartenenza.

Nel libro The United States of Soccer, pubblicato nel novembre 2016 da Overlook, l’autore Phil West racconta così l’ingresso di Toronto nella Mls, nel 2007, come primo club non statunitense della lega: «Secondo il giornalista di Espn Doug McIntyre, l’arrivo di Toronto (e di una tifoseria che ha capito quello che doveva essere, ovvero una tifoseria di calcio vera e propria) nella Mls ha contribuito a creare l’atmosfera necessaria per passare a una fase successiva della lega, in cui i tifosi hanno cominciato a essere una base più coesa, unita e forte. In altre parole, grazie ai tifosi di Toronto, la lega ha scoperto un pubblico che ha permesso all’intero torneo di avvicinarsi ai grandi campionati europei». Nella sua autobiografia, Johan Cruijff scrisse delle sue sensazioni sulla crescita del calcio americano: «Le squadre della Mls pullulano di buoni giocatori, ma non ci sono ancora fuoriclasse. Mancano le eccezioni, i talenti fuori dalla norma. Il problema risiede nell’educazione, nei metodi di allenamento e nelle tattiche di gioco. Anche i talenti più puri hanno bisogno di essere educati. Questo è uno dei più grandi difetti del sistema calcistico statunitense: non permettere che le eccezioni confermino la regola». La differenza tra football e soccer, penso, è profonda perché progettuale. Tecnicamente, l’upgrade definitivo della Mls passa da politiche come quella operata proprio da Toronto circa cinque anni fa, quando i dirigenti riuscirono a portare in Canada Giovinco, Altidore, Bradley: il club canadese fece uno sforzo, innanzitutto economico, per cercare di portare nella lega dei calciatori di grande richiamo e nel meglio della carriera, non vecchi fuoriclasse al passo d’addio. Per importare eccezioni, per dirla alla Cruijff.

Proprio Cruijff fu un protagonista del primo esperimento di lancio del calcio negli Stati Uniti. Erano gli anni Settanta, la lega si chiamava Nasl: Johan aveva 33 anni quando andò a giocare con i Washington Diplomats, la stessa età di Beckebauer quando si aggregò ai Cosmos di New York; Pelé, invece, ne aveva 35 quando sbarcò in America per diventare l’attrazione assoluta del soccer, sempre nei Cosmos. Nel 2016, il City di Pirlo, Villa e Lampard è stato eliminato da Toronto, un club che inizialmente veniva deriso da tutti e poi, grazie al suo progetto, venne definito dalla Cbc come «una franchigia che una volta era conosciuta solo per i suoi fallimenti, ma che ora potrebbe riscrivere la storia della Mls». In effetti è andata proprio così, perché la squadra canadese ha disputato le finali del 2016, 2017 e 2020, e ha vinto quella del 2017. Nel 2021, pochi giorni fa, il City ha conquistato il suo primo titolo con una squadra dall’età media decisamente più bassa (25,3 anni) rispetto al 2016, grazie a un roster in cui l’unico calciatore con un passato importante in Europa è il 34enne Maxi Morález, proprio il Frasquito dell’Atalanta. Tutto il resto della rosa è formato da calciatori arrivati da campionati stranieri, oppure allevati negli Stati Uniti.

Il giorno dopo la partita compro i giornali alla stazione di Union Square. I muri del mezzanino sopra i binari, di solito, sono letteralmente imbrattati di post-it. La chiamano Subway Theraphy: chi vuole sceglie il colore del foglietto adesivo, scrive qualcosa e attacca al muro la sua testimonianza. Una delle prime volte che sono passato da qui, nel 2016, la maggior parte dei messaggi conteneva reazioni e considerazioni piuttosto volgari sull’elezione di Trump. Mi siedo e leggo: il New York Times dedica al soccer una pagina del suo inserto sportivo, il New York Post ne riserva due. Mi sembra sia un bello spazio, ma poi mi accorgo che le pagine sul football americano sono sedici, e allora mi ricredo. New York non è ancora come l’Europa, ma il calcio sta arrivando anche qui.

Da Undici n° 15
Foto di Nathan Congleton, fotografo uffciale del NYCFC