Massimo Ferrero, l’ultimo degli improbabili

L'arresto e l'allontanamento dal calcio del presidente della Sampdoria segna la fine di un'era: quella dei presidenti-padroni buffi ed esagerati che da sempre affliggono il calcio italiano. Anche per colpa nostra.

Massimo Ferrero ha ripetuto spesso di essere «nato in un teatro» e io questa cosa l’ho sempre trovata rassicurante: stai a vedere che alla fine scopriremo che è tutta finzione, soltanto una recita, mi ripetevo ogni volta che incappavo in una sua intervista o dichiarazione. «Io che cerco visibilità, io?! Vent’anni fa fa ero a Los Angeles, sono nato a Cinecittà, io sono nato e vissuto nella visibilità», disse Ferrero al primo che lo accusò di aver preso la Samp solo per scaldarsi un po’ con la luce riflessa della Lanterna. Mi raccontavo che Ferrero era performance art, la dimostrazione in real life di quello che Charlie Brooker voleva dire con il primo, leggendario episodio di Black Mirror (“The National Anthem”): attorno al palcoscenico può succedere qualsiasi cosa, ma se in scena c’è un uomo che si fotte una scrofa a chi vuoi che interessi, e alla fine di chi credi sia la colpa.

Ho spesso immaginato (sperato? sognato?) Ferrero come lo strumento di una formidabile campagna di comunicazione e sensibilizzazione, di una potente satira sul calcio italiano che fu e che per fortuna non c’è più (magari fosse vero, speriamo sia così): per capirci, il calcio italiano in cui alcuni presidenti venivano (vengono?) considerati una forza della natura – non solo prevista ma pure inevitabile e anche maestosa – con tanto di aggettivo qualificativo d’ordinanza, “vulcanico”. Di tutto il deprimente vocabolario che usiamo per parlare di pallone, l’aggettivo vulcanico alla fine mi è sempre piaciuto perché mi è sempre parso preciso: i vulcani mi terrorizzano, abitassi vicino a uno l’angoscia mi impedirebbe la vita, i miei sogni sarebbero tutti incubi, un finale alternativo de Il Signore degli Anelli in cui Frodo e Sam finiscono arsi nella lava del Monte Fato. Per questo “vulcanico” mi è sempre sembrata la parola giusta per descrivere Ferrero (anche perché lui ha sempre detto che il sinonimo indicato dal dizionario dell’italiano calcistico, istrionico, non sapeva cosa volesse dire) e la sensazione di disastro naturale – quindi non solo previsto ma pure inevitabile e anche maestoso, e questo vale per tutti i disastri nella storia del calcio italiano, e anche in questo caso di chi crediamo sia la colpa – che ha infiltrato ogni giorno della sua (speriamo finita) presidenza della Sampdoria.

Nella conferenza stampa in cui si presentava come nuovo proprietario del club blucerchiato, un giornalista ebbe l’ardire di fare la domanda seria e interrompere la fanfara che suonava nel baraccone: quanto è costato il tutto, presidente? A quel punto Ferrero balzò in piedi e tirò fuori le tasche, ovviamente vuote: «Questo è costata! Non c’ho più un eurooooo!», cominciò a berciare. «Buona questa. Tutti ridono. Rullo di tamburi. Sipario». All’epoca toccava riderne, perché d’altronde con il vulcano funziona così: il giorno prima ci vai a fare trekking, il giorno dopo brucia l’aria che respiri e scioglie le fondamenta della casa che abiti. E mica è colpa del vulcano: lui quello era e quello è, lì stava e lì è rimasto.

Sarebbe il caso di fare il discorso che comincia con “solo in Italia” e prosegue con “se questo fosse un Paese normale”, ma se c’è una cosa che la storia di Ferrero dimostra è che ormai sono pochissimi quelli con il coraggio di dire quell’ovvietà che si chiama verità, e figuriamoci se io sono tra quelli: da verità a banalità è un passo e io quel passo non ho la forza di farlo, ho troppa paura di inciampare e ruzzolare dalla parte sbagliata. «C’è una grande similitudine tra cinema e calcio, ecco perché sono entrato in questo mondo. Il pallone in Italia è come una fiction: ogni settimana c’è una puntata», diceva Ferrero. Forse quel discorso, quello che comincia con “solo in Italia” e prosegue con “se questo fosse un Paese normale”, si risolve così, in questa necessità – ovviamente di Ferrero, ma pure di tutti noi – di trasformare le cose vere mai in storia ma sempre in finzione, la stessa necessità che portava Ferrero a dire che la sua presidenza sarebbe stata come Ben Hur. E uno, ovviamente, si chiede: ma Ferrero lo ha mai visto Ben Hur?

A prescindere dalle scelte cinematografiche, si capisce il perché di questa tendenza alla fiction: nelle cose finte non ci sono mica conseguenze reali, nessun impegno vero. La realtà serve ma, appunto, solo quando serve: adesso Ferrero si dice preoccupato dei suoi seicento dipendenti, adesso dalla fiction siamo passati al documentario. Ieri, invece, quando la finzione ancora reggeva, la regola d’oro era che «i soldi sporcano tutto, bisogna lasciar fuori i discorsi di soldi». Ma di che diavolo dovremmo parlare con il presidente di una squadra di pallone, allora? Ci avessimo pensato prima, ad accettare il proprietario per quello che è: il nome dei soldi e non l’identità della squadra, che sta da un’altra parte e si costruisce in altri modi. Ci avessimo pensato prima, magari ci saremmo risparmiati anni di lagne sulle presidenze di prossimità: non sarà granché ma almeno abita vicino. Meglio un manager con il domicilio variabile o uno che in romanesco stretto ora deve chiedere il permesso alla polizia penitenziaria per fare una telefonata a Quagliarella? Ci avessimo pensato prima, magari ci saremmo liberati dalla deprimente retorica dell’uomo che si è fatto da sé: meglio il figlio dell’autista di pullman o il figlio che di mestiere porta il cognome di suo padre? Meglio chi non fa danni anche se non fa ridere, molto meglio chi sa fare invece di chi ci sa fare. È uno furbo, si è detto spesso di Ferrero: chissà se sarò ancora in me quando questa frase cambierà di senso.

Massimo Ferrero è entrato nel calcio nel 2014, rilevando la Sampdoria dalla famiglia Garrone; nel corso della sua gestione, il miglior risultato raggiunto dalla Sampdoria è stato la qualificazione all’Europa League nella stagione 2014/15: l’esperienza europea finisce però ai preliminari, a causa di una sconfitta con il Vojvodina (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Quando penso a Ferrero avverto una specie di senso di colpa, una sorta di intimo imbarazzo: sono queste sensazioni che mi impediscono di fare il discorso che comincia con “solo in Italia” e che prosegue con “se questo fosse un Paese normale”. Il fatto è che Ferrero mi costringe ad affrontare una parte di me – che mi immagino piccola e velenosa come una viperetta – che è la stessa che permette a gente come Ferrero di prosperare. La tolleranza nei confronti di certi personaggi è l’altra faccia della medaglia sulla quale sta la diffidenza nei confronti del calcio moderno, quello delle aziende e dei manager: meglio un simpaticissimo incapace che un bravissimo stronzo. Questa parte viperetta di me mi sibila che Ferrero, i Ferrero, sono la normalità nel Paese in cui la goliardia è ancora considerata una maniera come un’altra di stare al mondo. Uli Höeness era serio come il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica e pure lui è finito dentro per evasione fiscale: se così fan tutti, nel frattempo tanto vale farsi una risata, mi bisbiglia la viperetta. Non ti fa ridere il video in cui Gaucci e Matarrese bisticciano dopo una partita?, non te la fai quasi addosso ogni volta che Gaucci sbotta «vai a fare in culo, te e tuo fratello»?, mi sussurra la viperetta. Ieri erano loro e oggi è Ferrero, in un senso e pure nell’altro: e io (e m’immagino molti altri, pure) sempre qui, qui nel mezzo, intrappolato tra la consapevolezza dei danni portati da quella maniera di fare il pallone e la difficoltà di accettare un gioco come una cosa seria, come il lavoro di professionisti e non un carrozzone itinerante.

Ancora una volta, di chi è la colpa? Ferrero era uno che rompeva i coglioni a Ilaria d’Amico e Mikaela Calcagno a favore di telecamera, era quello che sfotteva Thohir dandogli del “filippino” e che poi dimostrava di non averci comunque capito nulla invitando l’ex-presidente dell’Inter a stirargli il bucato. Che sia stato aggiunto all’elenco degli “impresentabili” soltanto previa misura di custodia cautelare dice tutto dei limiti che ci siamo dati, di quanto è sottile il confine che abbiamo costruito tra accettabile e inaccettabile: finché uno è a piede libero, vale tutto. Ora, come da tradizione italiana, c’è il vomitevole tentativo di compensazione: scemo lui e mica noi, come dimostrano queste paginate di intercettazioni telefoniche pubblicate dagli stessi che fino a ieri non aspettavano altro che l’ultima scemenza di Ferrero per riempire quel boxino vuoto nella pagina, per scriverci al volo quella breve per il sito. Ora aspettiamo una nuova imitazione di Maurizio Crozza: Zangrillo lo imitava già prima e adesso il Genoa lo ha nominato presidente, speriamo bene perché questi contenuti non si creeranno certo da soli.

Si dirà: la Samp, negli anni di Ferrero, non è andata mai così male e spesso ha fatto meglio delle aspettative. Ed è pure vero. Il punto però è anche (se non proprio) questo: a che punto accetteremo che il calcio non è solo un gioco, che non sta solo nelle cose che succedono sul campo, che sta dentro una società e una cultura alla quale può contribuire solo adattandocisi? Anche Ferrero avesse deciso tutto quanto lui, dall’assunzione del nuovo stagista alle linee disegnate sulla lavagnetta tattica (e chi ci crede, considerando che si sta parlando di uno che alla domanda sui suoi idoli calcistici rispondeva «Herrera e Pelé»), anche facendo finta di non sapere che la Samp a Ferrero è sopravvissuta (speriamo) e certamente non ha prosperato grazie a lui, Ferrero sarebbe sempre Ferrero. Resta quindi la domanda, avanza la risposta che dice quello pensiamo sia il pallone e quindi deciderà cosa ne sarà: quanto imbarazzo siamo ancora disposti a sopportare?