Perché ci sono sempre meno arbitri di calcio?

Un fenomeno preoccupante che non riguarda solo l'Italia, ma tutti i Paesi europei.

Nell’ultima settimana si è parlato di Maria Sole Ferrieri Caputi come di una piacevole eccezione del calcio italiano: la 31enne di Livorno è diventata il primo arbitro donna a dirigere una squadra di Serie A, in una partita di Coppa Italia tra Cagliari e Cittadella. Un’eccezione, in modo diverso, è anche Mustapha Jawara, arrivato in Italia a 16 anni dal Gambia e diventato arbitro nei giorni scorsi, grazie alla ratifica della sua iscrizione all’Aia. Nelle tante interviste rilasciate ai vari quotidiani che l’hanno contattato, Jawara ha ripetuto di essere sbarcato a Salerno con un barcone, di essere stato fortunato, di aver già arbitrato qualche partita nei tornei giovanili. Le storie di Maria Sole Ferrieri Caputi e Mustapha Jawara sono episodi rari, due prime volte assolute che fanno piacere. Viste da un’altra prospettiva, sono anche delle ancore di salvezza per l’Associazione degli arbitri, che da tempo fatica a trovare nuovi nomi a cui affidare il fischietto e avrebbe bisogno di ampliare la base da cui attingere.

Negli ultimi tre anni l’Aia ha visto restringersi la sua rosa di arbitri e guardalinee: in 4000 hanno abbandonato la categoria, di cui 500 solo nei primi mesi del 2021. Per ragazzi e ragazze, fare l’arbitro sembra essere diventata una vocazione poco affascinante, per non dire del tutto assente. La stessa Maria Sole Ferrieri Caputi, in una delle tante dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni, ha detto che il problema non sono quasi mai i giocatori in campo: «Il problema vero è chi sta fuori: l’insulto del tizio attaccato alla rete di un campetto con venti spettatori lo senti e fa male».

I maltrattamenti e le aggressioni – verbali e fisiche – nei confronti degli arbitri sono ormai una costante della cronaca dei fine settimana italiani, e non solo italiani. Dopotutto l’arbitro è l’unica figura contestata da entrambe le squadre, a volte accusato di essere di parte da due avversari, che nel direttore di gara vedono quasi un nemico comune. Nelle parole di tifosi e spettatori – che ne sanno più di tutti su questioni tattiche e tecniche, che conoscono perfettamente lo stato di forma di un calciatore che non vedono in allenamento, figuriamoci se non sono in grado di prendere complesse decisioni arbitrali – chi dirige le partite è il più delle volte incompetente o in malafede, o comunque ha problemi di vista; può essere cornuto, ma anche figlio di chi fa il mestiere più vecchio del mondo se fischia un rigore nell’area sbagliata. Fare l’arbitro, insomma, vuol dire esporsi agli insulti tutte le volte che si va in campo. Per di più in cambio di compensi minimi, specialmente nelle serie inferiori e nei campionati giovanili. E questo riguarda tutta la categoria di arbitri, perché tutti gli arbitri passano per le serie inferiori. Secondo un’indagine del Post, a bassi livelli i compensi partono da circa 30 euro – accordati come rimborso spese per trasferte entro i 25 chilometri – per arrivare fino a 88 euro per spostamenti di 300 chilometri. Certe cifre, in ogni caso, sono rarissime: la maggior parte dei campionati è provinciale o regionale.

I compensi bassi non possono spiegare, da soli, la carenza di arbitri. Però pesano certamente di più in un momento di crisi come quello generato dalla pandemia. Il Covid-19 ha portato a una lunga sospensione dei campionati locali e giovanili, e in questo periodo centinaia di arbitri hanno abbandonato la professione, preferendo fare altro. Normalmente ci sarebbe un regolare turnover tra chi entra e chi esce dalla classe arbitrale, ma adesso il ricambio è più disordinato: improvvisamente ci sono troppi arbitri da sostituire e sono pochi i volti nuovi. Così dall’inizio della stagione, in tutta Italia, nei campionati non professionistici ogni weekend ci sono partite rinviate, partite giocate senza guardalinee, arbitri che lavorano a ritmi doppi rispetto al solito e anche ex arbitri richiamati all’attività per il campionato “giovanissimi” – è successo a Daniele Minelli e Paolo Silvio Mazzoleni.

Fuori dall’Italia lo schema si ripete perché la situazione non è molto diversa. In Francia ci sono quasi 5mila arbitri e assistenti in meno rispetto alla stagione 2015-16. In Spagna non si parla granché del problema, ma un mese fa la Gaceta de Salamanca segnalava una carenza di arbitri nei campionati locali: «Non abbiamo mai fischiato così tanto: stiamo facendo cinque, sei, sette partite al giorno», hanno raccontato alcuni giovani direttori di gara. L’Inghilterra sembra il Paese che sta affrontando l’argomento in modo più ampio e approfondito, che sta provando a restituire tutta la complessità del momento. Qualche giorno fa la Bbc parlava degli insulti agli arbitri come di una malattia che sta rovinando il calcio. «Oltre il 90% degli arbitri nel calcio di base ha subito abusi, e si teme che il trattamento riservato possa indurre molti ad abbandonare definitivamente questo sport». Le fonti citate dai quotidiani inglesi descrivono una lista interminabile di abusi razziali, insulti, minacce e ostilità di ogni tipo, che partono dai campionati dei bambini e arrivano alla Premier League. Un esempio su tutti: la sezione federale del Kent già a settembre lamentava che quattro arbitri avevano ricevuto insulti verbali che li hanno convinti ad abbandonare; un altro arbitro era stato seguito fin dentro allo spogliatoio per essere aggredito dal dirigente di una squadra; un funzionario della Football League si era beccato un pugno in faccia da un tifoso per questioni legate a deisioni controverse.

Ai massimi livelli la situazione non è migliore. Lo scorso febbraio l’arbitro di Premier League Mike Dean ha ricevuto minacce di morte – rivolte a tutta la sua famiglia – dopo due espulsioni parecchio contestate dai tifosi. Paul Field, presidente dell’Associazione degli arbitri in Inghilterra, aveva reagito con un monito a tutto il sistema calcio e al Paese: «Ho avvertito il governo e ho detto loro che un giorno avremo una conversazione ufficiale perché un arbitro avrà perso la vita. Il calcio è un riflesso della società. Non possiamo curare tutti i mali della società attraverso il calcio e l’istruzione, ma penso che se i deterrenti fossero significativamente più duri, allora la gente si fermerebbe a pensare un po’ di più».

I problemi legati agli arbitri possono andare oltre gli insulti e le violenze, riguardano anche il contesto lavorativo in cui vorrebbero fare carriera. Pochi giorni fa su Undici scrivevamo che gli arbitri inglesi non possono avere la barba. Non è una questione puramente ed esclusivamente estetica, ma un codice che, implicitamente, aiuta a conservare un sistema di discriminazione: la barba è importante per molte persone di diverse fedi religiose, e sostenere il divieto a portarla lunga ha un impatto dannoso su un certo numero di minoranze già poco rappresentate nel calcio inglese. Non solo tra gli arbitri, ma in tutte le categorie professionali.

Daniele Orsato è il direttore di gara con la maggiore esperienza in Serie A: il suo esordio nel massimo campionato italiano risale al 2006, da allora ha accumulato 251 gare da arbitro, a cui vanno aggiunte tutte quelle da quarto uomo e poi anche quelle nella cabina Var (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Il problema della barba è solo la parte più superficiale di un disagio più profondo. Ci sono 40 arbitri  tra Premier League e Championship per la stagione 2021/22. E sono tutti bianchi. In totale, su circa 200 arbitri nelle prime sette divisioni del Paese, solo quattro (il 2%) sono neri o asiatici. L’ultima volta che un arbitro non-bianco ha diretto una partita di Premier League era l’11 maggio 2008: Uriah Rennie è stato il primo arbitro nero della Premier League, sembrava che dovesse diventare il pioniere di una nuova generazione di arbitri, più inclusiva e multietnica, invece è diventato una specie di Gronchi rosa. Lo stesso Joel Mannix, uno dei 4 arbitri appartenenti a una minoranza, ha detto al Guardian: «Alcune categorie del nostro calcio sono conosciute come il “cimitero dell’uomo nero”: ci sono osservatori razzisti che scelgono chi mandare avanti in base al colore della pelle».

La Federazione inglese sta già provando a reagire, almeno a parole, alla carenza di arbitri, lavorando sulle cause – sulle minacce che arrivano dall’esterno e sui meccanismi interni alla classe arbitrale. In Italia, il presidente dell’Aia Alfredo Trentalange ha iniziato il suo mandato provando ad ampliare la piramide alla base: ha spostato i limiti d’età per diventare arbitri – da 15 a 14 anni l’età minima per partecipare ai corsi di formazione e da 45 a 50 anni il limite per continuare l’attività – e ha modificato l’articolo 40 comma 1 delle norme federali, consentendo ai ragazzi dai 14 ai 17 anni di essere tesserati sia come arbitri che come giocatori (“doppio tesseramento”). Sono scelte politiche per ampliare subito la classe arbitrale. Ma senza un cambiamento che riguarderà tutto quel che c’è intorno, Maria Sole Ferrieri Caputi e Mustapha Jawara resteranno sempre delle eccezioni. E allora sarà ancora difficile convincere i giovani a diventare arbitri se la prospettiva è fare la gavetta sui campi di periferia, in cambio di compensi minimi, dovendo sopportare insulti e minacce prima, durante e dopo i 90 minuti. Per invertire la rotta servirebbero dei mutamenti sistemici che producano effetti di lungo periodo. La parte difficile è che non c’è più margine d’errore, perché il problema è adesso, e senza arbitri non si gioca.