Negli ultimi giorni, diversi giocatori dell’Inter hanno parlato dell’avvicendamento tra Antonio Conte e Simone Inzaghi. L’hanno fatto con parole diverse, ma esprimendo concetti simili tra loro: Alessandro Bastoni ha paragonato il suo primo allenatore nerazzurro a Gasperini per «come sta sempre sul pezzo», mentre invece Inzaghi gli ricorda più Mancini, «per come cura il contatto umano»; Stefan De Vrij ha usato i pittori olandesi come metafora per tracciare un’altra differenza tra Inzaghi e Conte: da una parte il calcio “geometrico” del nuovo manager del Tottenham, dall’altra quello “fantasioso” del suo attuale allenatore. Per parlare di Inzaghi, hanno tutti scelto termini eterei, come “fantasia”, “libertà”, o “serenità”, quest’ultimo usato in particolare da Nicolò Barella, per indicare ciò che Simone Inzaghi ha aggiunto alla squadra.
Queste parole si inseriscono bene nella già ampia narrativa sul modo profondo e viscerale con cui Antonio Conte sente e trasmette il suo calcio, come se fosse un patto con il diavolo in cui un calciatore si mette a disposizione per uno, due o tre anni di carriera a un voltaggio mostruoso e in cambio riceve un miglioramento, strumenti impensati, un nuovo ruolo, spesso anche dei titoli. Poi c’è l’altra parte di questo racconto: quando il ciclo di Conte finisce, squadre simili a macchine perfette devono trovare un’identità nuova, scoprire cosa hanno in più di prima, cosa possono conservare e cosa devono aggiungere. Chi sta vivendo questo processo all’Inter, dall’interno, sta riconoscendo a Simone Inzaghi le qualità umane adatte per un passaggio così delicato. Ed è difficile credere il contrario, dopo un’estate in cui i nerazzurri erano percepiti – a torto o a ragione – come il grande malato della Serie A. Come sempre, però, il campo viene prima di tutto. Ed è proprio lì che vanno ricercati e individuati i grandi e quindi più importanti meriti di Inzaghi,
Quando l’ex allenatore della Lazio ha assunto la guida della rosa campione d’Italia in carica, la strada da percorrere sembrava fin troppo chiara: l’Inter era una squadra che funzionava praticamente a memoria, ricca di qualità in costruzione ma con un’anima profondamente dinamica, reattiva e verticale; questa entità era stata affidata a un allenatore che alla Lazio, pur con presupposti e principi diversi, ha dimostrato di saper sfruttare al massimo caratteristiche simili. Con le cessioni di Hakimi e Lukaku, però, l’Inter non ha perso soltanto due dei suoi migliori giocatori, ma anche la possibilità di replicare i meccanismi e l’identità dello scorso anno. La rosa dei nerazzurri, a fine mercato, era un ibrido, una sorta di animale mitologico con una difesa praticamente invalicabile se tenuta a protezione della propria area, ma senza più giocatori in grado di accelerare e riempire gli spazi aperti in transizione, a eccezione del solo Dumfries; un centrocampo con due interpreti adatti a qualsiasi registro e un terzo, Çalhanoğlu, che ha sempre avuto bisogno di un contesto molto specifico – molto intenso e verticale – per esprimersi; al contrario di Džeko, che avrebbe dovuto raccogliere l’eredità di Lukaku. L’Inter, insomma, non era già più una squadra in grado di attendere, ribaltare il campo, riempire ampi spazi, ma ancora non sembrava avere la struttura per reggere difensivamente un baricentro molto alto, o almeno così sembrava ammonire il periodo tra il post-lockdown e l’autunno 2020, quello del Conte più sperimentale visto a Milano, chiuso con il decisivo ritorno al 3-5-2 e a una solidità difensiva quasi impressionante. Nello scegliere la strada da percorrere, Inzaghi ha preso la decisione di non stringersi al relitto dell’idea di una squadra che non esisteva più nella sua interezza, così ha accettato il rischio di intraprendere una direzione nuova e controintuitiva. E allora ha iniziato a cambiare identità all’Inter, o quantomeno a provarci. Del resto era l’unico modo per negoziare con le contraddizioni di una rosa sicuramente molto forte, ma che fino a quel momento aveva giocato in maniera diversa.
Fin dal primo giorno, le intenzioni di Inzaghi e della sua Inter sono state chiare: il baricentro sarebbe stato spostato più in alto rispetto alla passata stagione, così da dominare le partite con il pallone, produrre un calcio che coinvolgesse ancor di più la qualità tecnica dei difensori, che continuasse ad appoggiarsi alla capacità magnetica di Brozović di far gravitare il gioco attorno a sé, che integrasse Correa e Džeko in un reparto con logiche diverse, e sopratutto cambiare modo di difendere. Il calcio di Inzaghi, per dirla brutalmente, ha preso forma su presupposti opposti rispetto a quelli di Conte: non si esprime su un linguaggio di codici ripetuti fino a entrare nella carne dei giocatori, ma lascia più libertà alla capacità di associarsi dei suoi giocatori più tecnici, in un flusso continuo e sereno. Allo stesso tempo, però, lo ha fatto su una base fortemente debitrice del lavoro del suo predecessore, che ha sviluppato in modo decisivo molti calciatori. Se l’Inter oggi è campione di inverno dopo aver saputo rimontare undici punti rispetto alla vetta nel giro di poco più di un mese, è perché questo processo si è attivato velocemente. E poi ha saputo crescere ed esplodere in fretta, nonostante incertezze di inizio stagione.
L’aspetto in cui il cambiamento si nota maggiormente è forse la rifinitura dell’azione: Inzaghi ha liberato fin da subito i due braccetti, Bastoni (o Dimarco) e Skriniar a fraseggiare con esterni, mezzali o punte, generando triangoli per entrare in area o guadagnare il fondo; nella fase iniziale della stagione queste connessioni erano ancora imperfette e in molti casi non trovavano sbocchi migliori del cross dalla sinistra a cercare Džeko o l’altro quinto sul secondo palo – una delle novità che, invece, hanno funzionato fin da subito. Oggi l’Inter, sul suo lato preferito – specialmente se una delle due punte è Sánchez – si muove come un’orchestra e, nell’ultimo quarto di campo, dà l’impressione di aver solo bisogno di tempo, più che di un colpo individuale: il pallone gira velocemente, passa dal suo regista come un checkpoint, torna indietro e forma nuovi triangoli sul prato, oppure viene giocato velocemete sul lato debole, dove Barella e l’esterno possono sorprendere la difesa. L’Inter di oggi è una squadra che si trova a proprio agio con il pallone e sa usarlo per controllare la partita, anche se in molti finali di gara, con un centrocampo diverso da quello titolare, ha finito per rifugiarsi dietro e, di conseguenza, ha fatto fatica a uscire.
Sì, adesso parliamo anche di Hakan Calhanoglu
Nell’Inter di oggi nessuno esplicita il lavoro di Inzaghi meglio di Çalhanoğlu. Con il turco, il tecnico nerazzurro ha ripetuto in piccolo ciò che ha fatto all’intero contesto tecnico: risolvere contraddizioni, anche in modo controintuivo. L’ex trequartista del Milan è un profilo molto specifico e molto dipendente dal contesto in cui si trova: la sua buona tecnica di base non si declina in modo lirico o appariscente, non serve a rompere una difesa schierata con un filtrante immaginifico alla Luis Alberto o reggere il peso creativo di una squadra sulle proprie spalle. Allo stesso tempo, però, l’ex Bayer Leverkusen è molto reattivo nel distribuire palla – specialmente in verticale – appena se la ritrova tra i piedi, nel trovare rapidamente il compagno libero senza rallentare il flusso (il motivo per cui ha sempre funzionato bene in squadre aggressive, che recuperano il pallone alto e cercano di arrivare nel modo più diretto possibile in porta). In più è un giocatore dinamico, che si smarca e anche quando il contesto non è favorevole – come nelle partite di inizio stagione in cui ha sempre avuto un uomo incollato addosso. In più offre un lavoro senza palla da mezzala di quantità.
Çalhanoğlu non è il giocatore a cui chiedere di risolvere un cubo di Rubik, ma è quello che, se conosce l’algoritmo, lo esegue in un tempo minimo e può ripetere l’azione a oltranza. Inzaghi ha compreso le sue doti e gli ha messo a disposizione tutti gli strumenti per rendere al massimo delle sue potenzialità, posizionandolo sul lato più caldo e affollato degli attacchi nerazzurri, il centro-sinistra, a incendiare le connessioni con Bastoni, Perisic e Brozovic, in un turbine di smarcamenti e uno-due; inoltre, in quello spazio tiene sempre aperta la porta per rientrare sul destro e sfogare le sue enormi capacità balistiche – queste sì, veramente appariscenti. In quello slot, insomma, Çalhanoğlu ha sempre molte opzioni di passaggio immediate sul breve, e ha spesso modo di tirare o sventagliare verso il lato debole. Ha la possibilità di fare tutte le cose che gli riescono meglio – calci piazzati compresi – e sta vivendo un momento di grazia, il migliore da quando è in Italia.
L’Inter è una squadra che sembra nuovamente padrona della propria identità, ma anche se ostenta già una calma serafica nel distruggere gli avversari più cauti, è ancora nel cuore del proprio processo di crescita. Se a inizio anno le partite contro avversari particolarmente aggressivi come Hellas Verona, Sassuolo, Atalanta e Fiorentina hanno dimostrato quanto l’uscita sotto pressione – un po’ per la scarsa predisposizione di Çalhanoğlu a resistere e disfarsi dell’uomo addosso, un po’ per la necessità di lavorarci, un po’ per l’impossibilità di bypassarla con soluzioni dirette come poteva avvenire lo scorso anno – sia una delle situazioni che l’Inter soffre di più, le gare contro Napoli, Milan e Shakhtar sembrano far intravedere una crescita in questo aspetto. Lo stesso vale per il convitato di pietra dell’Inter di inizio anno, ovvero il rischio per una difesa non particolarmente esplosiva di accettare transizioni negative sul campo lungo: contro le squadre di Spalletti e De Zerbi, i nerazzurri hanno saputo difendere in avanti molto bene per diversi tratti, mettendo in difficoltà l’uscita avversaria. Sono aspetti che richiedono tempo per essere assimilati, specialmente se per alcuni interpreti significa uscire dalla comfort zone, ma che sono entrati più rapidamente di quanto ci si potesse attendere nell’identità di questa squadra. Quanto sarà continua e costante la crescita in questi ultimi due parametri è il quesito tattico la cui risposta ci dirà se l’Inter sarà semplicemente una delle competitors al titolo oppure la squadra in grado di esercitare un dominio simile a quello della scorsa stagione. Ciò che invece è certo già da oggi, è che Simone Inzaghi ha saputo trovare trovare le giuste soluzioni in un momento così delicato sul piano tattico ed emotivo, e che la costruzione dell’identità della sua Inter non solo è sulla buona strada, ma sta andando più veloce del previsto.