La fede, il calcio e Maradona per Paolo Sorrentino

Il Napoli, Maradona, i riti delle partite viste allo stadio e in tv. Nel gioco c'è il ritmo della vita, ed è per questo che è sempre presente nei suoi film, da L'uomo in più fino a È stata la mano di Dio.

Non tutti i minuti sono uguali. Ogni settimana Paolo Sorrentino ne immola cento a un rito arcaico e con suo figlio Carlo guarda il Napoli. I telefoni spenti. Il sigaro. La liturgia. «La domenica pomeriggio, il tempo si dilata, diventa un guerriero invincibile. Il tempo della domenica pomeriggio non batte alla stessa velocità del tuo tempo». È un modo per tornare al silenzio immobile delle città, alle radioline affacciate sulla domenica, alle voci che trovano un loro miracoloso percorso tra altre voci e alle sirene che, quando ti catturano, ti catturano per sempre.

Paolo Sorrentino giocava da terzino. A destra della sua scrivania, in un lembo di parete mai toccato dal sole, c’è una vecchia istantanea. Il nostro è in piedi. Il campo è in terra. Le braccia conserte, somigliano a quelle dei calciatori veri, le stesse che Paolo, a nove anni, era abituato a vedere nell’album Panini. Il pacchetto costava cinquanta lire. Dentro potevi trovare pirati, soldati di frontiera o i baffi poco rassicuranti del portiere di riserva di Luciano Castellini, Pasquale Fiore. La domenica si andava in pellegrinaggio allo stadio e poi a sera, in quel mucchio selvaggio che erano le televisioni private, i protagonisti si sistemavano sotto ai microfoni a giraffa poi evocati al cinema da Toni Pisapia per dare concretezza all’illusione, all’apparizione, all’evento soprannaturale. Se nei pressi del San Paolo, tra una zolla, un rimbalzo e una pozzanghera si fosse palesata davvero una divinità vestita in lanetta azzurra nelle vesti alate dell’uomo in più, allora quella divinità aveva il dovere di manifestarsi anche in terra.

A casa Sorrentino, dove il padre di Paolo, Sasà, riemerso con suo figlio dagli spalti, osservava le immagini in bianco e nero della squadra guidata da Luis Vinicio, l’allenatore, era come un parente. Poi ‘O Lione, che da giocatore aveva spinto i tifosi del Napoli alla supplica laica indirizzata ad Achille Lauro: «Comandà, vendetevi l’anima ma non Vinicio», venne allontanato come gli era già successo da ragazzo. Allora Sasà – raccontò Sorrentino – «smise di andare» a vedere la squadra capitanata da Giuseppe Bruscolotti. e per fargli cambiare idea servì l’avvento di un altro dio e di un altro capitano, Diego Armando Maradona. «Era l’estate dei miei 14 anni e mi trovavo in vacanza da solo in Inghilterra. Chiamavo a casa ogni tre giorni e uno di questi giorni mio padre mi disse che il Napoli aveva comprato Maradona. Poi fece una pausa – era un uomo che manteneva sempre un certo distacco – e mi disse: “Ho già fatto gli abbonamenti per l’anno prossimo”».

Sorrentino sostiene che che il calcio abbia bisogno di un fideismo quasi nietzschiano. «Io non potrei credere se non in un dio che sapesse danzare» è un manifesto di sogno e poesia, appagamento e salvezza. Un muro di ricordi in cui per essere calciatori o tifosi c’è sempre una scala da salire, una prateria davanti agli occhi, una vibrazione interiore. Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi. Qualcosa vibrò. Quella vibrazione, a Paolo Sorrentino, ha salvato la vita e abbiamo il sospetto che non si tratti di essere letterali. A Federico Fellini il calcio non interessava: «Non ho mai visto una partita in vita mia». Paolo Sorrentino non se ne perde una. Che sia un Napoli da Champions al Santiago Bernabéu o una gita a Reggio Emilia in una pizzeria di New York sulla dodicesima, conta professare. Sorrentino è un credente. Praticante. Fece la sua prima tessera ai tempi di Ruud Krol. Amava Sarri. Gli era simpatico Edy Reja. E adorava ovviamente i cavalieri che fecero l’impresa, gli eroi della sua adolescenza che a Napoli, all’anteprima del suo ultimo film, sono arrivati in massa. «Guarda invece che scienziati/che dottori/che avvocati/che folla di ministri e deputati». Sulle note di Bennato a Napoli, confusi tra i 400 presenti, c’erano anche loro, ma Paolo non aveva occhi che per Bagni. Salvatore, come suo padre. E non si sa chi fosse più commosso. Del padre di Paolo, sua madre «diceva tutti i giorni: “Somiglia a Jean Paul Belmondo”, ma non era vero. È solo che l’amava in modo spropositato».

Un po’ di sequenze di È stata la mano di Dio in cui si sente, forte, la presenza di Diego Maradona

Anche a Sorrentino è capitato. Amare. Gioire. Piangere. Imprecare. La sintesi di una partita. Piangeva anche Maradona, l’8 luglio del 1990, quando pochi mesi prima lasciare l’Italia, perse all’Olimpico la finale dei Mondiali. Qualche giorno prima, a Napoli, come quasi tutti, Sorrentino tifò per Diego. Da ragazzino, in quella terra di mezzo tra suggestione e illusione, ogni tanto gli pareva persino di scorgerlo tra i vicoli. Si diceva si muovesse in utilitaria, El Pibe, per non farsi notare e in una città in cui i simboli avevano e hanno la loro importanza, scorgere Maradona equivaleva a un miracolo. «Poco prima dei Mondiali 1986 lo spiai per una notte mentre si allenava di nascosto su un campo da tennis e tirava ininterrottamente palloni in porta mettendoli sempre all’incrocio dei pali, nello stesso punto. Più spettacolo di questo, non mi viene in mente niente». La scena, una messa in scena abbagliante, la visione di un Maradona trasfigurato, affannato, triste, solitario y final eppure ancora immenso per l’abilità non saper più distinguere tra patetico e divino, finì in Youth.

«Forse il sole non passa attraverso il vetro senza romperlo?». Il quesito malapartiano valeva anche per chi, alla religione maradoniana, aveva deciso di credere: nella buona e nella cattiva sorte. Diego aveva cattive amicizie? Diego era brutto, sporco e cattivo? Meglio. «Le esistenze sono solo tentativi, perlopiù fatti a cazzo». E Diego, il suo tentativo, l’aveva fatto puntando al cielo. E se «tutti i sentimenti della vita hanno questo segreto: il ritmo delle cose» non si può negare che, per dirla con Paolo Conte, Maradona avesse un ritmo suo. Per trovare il proprio, prima di ringraziarlo ricevendo l’Oscar come fonte di ispirazione e al telefono prima di decollare per una telefonata lampo, effimera come la felicità, a Sorrentino è servito coraggio. Nel suo primo film, un capolavoro, L’uomo in più, il calcio è molto più di un filo teso tra il desiderio e il rimpianto. C’è il caso, l’imponderabile e il metafisico. C’è l’eterna lotta tra i due precariati (i giocatori con l’orizzonte limitato e l’allenatore con il contratto a termine per definizione). E poi ci sono i maneggioni, i cinici, gli utopisti attesi dietro la curva della maturità, la maturità impossibile per chi è destinato a rimanere bambino, dal burrone. «Le scarpe appese a qualche tipo di muro», la memoria che non basta più a promettersi il futuro e il presente che va a fondo in uno specchio d’acqua.

In apertura di film: lo spogliatoio. Con le sue dinamiche brutali, il tecnico plasmato sul Petisso Pesaola che “scuoia” i suoi ragazzi nell’intervallo della gara: «Ma porca puttana infame, cosa cazzo state combinando?» e ancora una volta, la finzione che dà la destra alla realtà. Sorrentino, rivelò uno degli attori principali, Andrea Renzi, aveva incontrato davvero Pesaola. Si era fatto raccontare quelle domeniche a sigarette e whisky e la psicologia dei calciatori. Poi era andata di invenzione. Il suo colpo migliore. La rabona che non gli è mai riuscita sul campo.

Da allora sono trascorsi più di vent’anni. Sorrentino si è raccontato, è stato raccontato, ha segnato di mano in un giorno in cui gli arbitri non si erano distratti e poi ha lasciato parlassero i suoi film. «Tutto documentato, tutto arbitrario», avrebbe detto Manganelli, uno che a detta di Sorrentino non la pensava poi tento diversamente da Maradona: «Diego diceva che il calcio è un gioco che si basa sulle finte: fingi di andare a sinistra e poi vai a destra. Vale anche per il cinema». E vale per un regista che ha messo il calcio in tanti altri film, che ha spinto i tifosi allo striscione personalizzato e a quello ironico, che ama chi non lo prende troppo sul serio, ridere e spiazzare come da un ideale dischetto. «C’è un ometto di un metro e 60 sul campo da calcio, che vi ringrazia. E che Maradona vi ringrazi è il premio più grande che possiate ricevere», ha detto ricevendo il suo di premio, alla giuria veneziana. In Laguna, un’unica volta, sbarcò anche Maradona. Era Febbraio. Un freddo febbraio del 1988. Ci arrivò da solo, per una partita benefica. Dimenticando la sciatica, quella «mignotta di seconda fascia», Maradona camminò fino all’Arsenale. Non lo fermò nessuno. Libero, come una bandiera al vento, Diego scivolò tra le linee. I turisti pensavano fosse una maschera e forse avevano capito tutto.

A casa sua, dietro una porta, quasi nascoste, forse per pudore, il regista conserva alcune fotografie incorniciate. Ritagli di giornale. Prime pagine. Diego e sempre Diego. «I geni sono quelle persone che ci stai a fianco senza nessuno sforzo. Ecco chi sono i geni». Oggi Paolo Sorrentino a calcio non gioca più. Preferisce il padel. «Solo una cosa non sopporto: la sfumatura». Ogni tanto lo vedi in una spiaggia o su un prato a tirare comunque calci a bassa intensità. Due contro due con le felpe al posto dei pali, come da bambini, e dove non arriva il fiato provvede il fallo tattico. «L’amore è l’insostituibilità». La scelta. L’elezione.

Da Undici n° 42
Foto di Jim C. Nedd