L’anno di Dusan Vlahovic

Nel 2021 il centravanti della Fiorentina ha segnato più di chiunque altro, imponendosi come un fuoriclasse del presente e del futuro.

Non abbiamo mai ben capito come definire il talento nel calcio, né come misurarlo: è qualcosa di vago, astratto, ci sfugge dalle mani come se provassimo ad afferrare un’anguilla. È equivoco, perché quando diciamo che quel calciatore è un talento, potremmo riferirci a una certa idea di raffinatezza stilistica (“la classe”), alla continuità di prestazioni, oppure alla presenza di un qualche istinto naturale che guida il portiere nell’intervento prodigioso e l’attaccante nella ricerca del gol. Questo perché il talento è spesso descritto attraverso le sensazioni che suscita in chi lo guarda, piuttosto che una serie di attributi dello stesso: è perciò un concetto altamente soggettivo. Ne consegue che, nell’era dell’iper-esposizione mediatica del calcio, ci si è iniziato a chiedere se non si stia abusando della parola. Poche settimane fa, in un video dal titolo “Le cose che odio del calcio” pubblicato sul suo canale YouTube, Fabio Caressa è sbottato in un’arringa dai toni demagogici contro la tendenza a chiamare “fuoriclasse” o “fenomeni” giocatori in fondo non così speciali o che hanno ancora tutto da dimostrare. Fa l’esempio di Dejan Kulusevski ed è forse un rimprovero alla propensione di noi tutti a invaghirci di quei talenti precoci comparsi all’improvviso e da chissà dove, dotati del potere di polverizzare i tempi di adattamento al calcio professionistico.

Al momento di scrivere di Dusan Vlahovic mi sono quindi chiesto se il talento non abbia a che fare proprio con la dimensione temporale e, nel suo caso specifico, con la capacità di manipolare il tempo e la percezione di questo. È qualcosa che riguarda lo stravolgimento cronologico, la sovrapposizione del futuro sul passato e viceversa, lo sfasamento tra tempo soggettivo e tempo reale di cui parlò Henri Bergson. Vlahovic non è il talento abbagliante sbocciato prima ancora che imparassimo a pronunciarne il cognome (sbagliamo tutt’ora, perché la “h” andrebbe aspirata): dal suo arrivo alla Fiorentina sono passati quattro anni. In questo intervallo di tempo ha vissuto tutte le fasi che un calciatore normale attraversa in età matura, facendoci scordare di avere davanti un ragazzo classe 2000: le aspettative iniziali, i primi numeri, poi le crisi, le critiche e infine l’esplosione. Una distorsione temporale dovuta all’etichetta di predestinato che l’ha accompagnato sin da subito, come se su di lui proiettassimo il suo futuro da stella già affermata prima ancora che si realizzasse. Vlahovic così inseguiva il tempo in ritardo, emergeva in sporadici sprazzi di potenza alternati a momenti in cui appariva semplicemente troppo acerbo: avevamo seguito le traiettorie disegnate dal suo mancino, a uscire (vs Inter), e a rientrare (vs Napoli), che facevano sì intravedere un percorso, una grande trama in sottofondo, ma rimanevano a sé stanti come gli episodi di Black Mirror.

Esattamente un anno fa, a dicembre 2020, il tempo di Vlahovic ha iniziato a scorrere a velocità doppia fino a raggiungere quello in cui lo attendevano le nostre aspettative. Ma non solo: l’ha pure superato. La sua crescita è stata così inarrestabile che il presente sembra stargli sempre più stretto, trattenendolo da un futuro a cui siamo impazienti di assistere: quello della consacrazione internazionale, del confronto con quell’aristocrazia calcistica a cui viene sempre più insistentemente accostato. Ciò che un anno fa ha portato a questo cambio di passo ha a che fare con quell’incrocio semi implicito di fattori e circostanze che proiettano un atleta nello stadio della maturità, qualcosa di non esplicabile verbalmente e perciò ridotto spesso all’immagine della “molla che scatta”. Ciò nonostante, Vlahovic individua due persone fondamentali nel suo percorso di crescita. Il primo è Cesare Prandelli, l’allenatore con cui ha iniziato a segnare con continuità: Dusan non conclude un’intervista senza ringraziarlo, parlandone come se gli avesse salvato la vita. Il secondo è Franck Ribery, che ne ha plasmato l’intensità e la costanza di allenamento, aspetto che oggi costituisce un suo indiscutibile punto di forza.

Per ragioni anche narrative, è utile collocare l’avvio della progressione di Vlahovic al gol contro la Juve, il 22 dicembre 2020, perché ne racchiude le potenzialità e i punti deboli allo stesso tempo. L’azione è innescata da Ribery, che imbuca il serbo nel corridoio centrale tra De Ligt e Bonucci: se il primo controllo non è agevole – facendogli però guadagnare terreno sugli inseguitori lanciandolo in velocità – i successivi tocchi sono decisamente difficoltosi: sembra prima incespicare sul pallone, poi se l’allunga così tanto che lo immaginiamo già tra le mani di Szczęsny in uscita: è proprio in quell’istante, però, che il piede sinistro di Vlahovic rilascia uno scavetto morbido e disinvolto, come se quella fosse stata la soluzione più logica fin dall’inizio. Il mancino di Vlahovic è il punto di partenza migliore per descriverlo: sin da subito, il serbo ha mostrato un’abilità eccezionale nel tiro da fuori, con un particolare tocco di collo che sembra acquistare sempre più potenza in volo, facendo roteare vorticosamente il pallone verso rotte inconsuete e imprevedibili. A vedere certi gol – il tiro a Benevento o la punizione contro il Cagliari – possiamo quasi cedere alla tentazione di convincerci che risieda in lui qualche sorta di delicatezza, termine che però addosso a Vlahovic cozza come quegli accostamenti esagerati di ingredienti che vediamo nei talent show di cucina.

Come abbiamo visto nel gol descritto sopra, la non-delicatezza dell’attaccante serbo si manifesta nel primo controllo, che soprattutto agli inizi abbiamo visto essere ruvido e sporco, portandolo spesso a sbagliare l’appoggio. Un limite legato a una certa difficoltà nella difesa della sfera spalle alla porta, un movimento un po’ macchinoso che tende a inficiare il proseguimento dell’azione: Vlahovic ha chiuso la stagione 2020/21 con una precisione di passaggi veramente bassa (66.3%), dato ancora più in risalto se consideriamo quello altrettanto basso dei passaggi a partita (16.1). È però nel momento in cui riesce a girarsi verso la porta che la sensazione di pericolo che genera la sua presenza aumenta vertiginosamente. Vlahovic non è che semplicemente avanza palla al piede, ma sfonda e travolge qualsiasi cosa si ponga tra lui e il gol. In quei momenti, che sono il manifesto della sua potenza, sembra poter fare a meno dei compagni, come a suggerire che abbia già tutto quello che gli serve: una capacità come nessun altro di resistere alla carica dei difensori più fisici e un tiro potenzialmente letale da ogni zona del campo. Un aspetto che rende in verità molto sottile la linea tra convinzione ed egoismo, che a volte lo induce a un dribbling di troppo o a un tiro che poteva benissimo non esserlo.

Tutti i gol segnati da Vlahovic nel 2021

L’anno scorso, le doti di Vlahovic hanno permesso al suo talento di brillare nonostante la pessima stagione della Fiorentina, una squadra dalla manovra offensiva particolarmente slegata e con un conseguente impatto negativo sulla quantità e la qualità dei palloni a disposizione della punta. In estate, l’arrivo di Vincenzo Italiano ha dato nuova linfa al gioco della viola e ha ulteriormente accelerato la crescita del giocatore, che in un contesto tattico più organizzato ha potuto migliorare nei suoi aspetti più critici: la precisione e la puntualità nel gioco di sponda è cresciuta, come testimoniano i dati sulla precisione (71.4%) e il numero dei passaggi a partita (17.7), seppur ancora bassi al confronto con gli altri grandi centravanti del campionato. Vlahovic ora è molto più presente nella manovra offensiva, grazie anche a una migliorata capacità di proteggere il pallone, aspetto su cui l’allenatore insiste facendo leva sul suo fisico cestistico («mi dice sempre di mettermi sotto canestro», ha detto Dusan, parlando del suo nuovo allenatore). Se poi c’erano dubbi sulla sua abilità nel gioco aereo, debolezza che si porta dietro dai tempi del Partizan Belgrado, ha dimostrato di aver lavorato pure su quella: basti guardare il colpo di testa contro il Torino, una giocata con cui raccoglie il cross facendo una torsione all’indietro mentre è già in aria, o quello con la Sampdoria, dove resta sospeso più di quanto pensavamo fosse possibile farlo.

È così che la strada che Vlahovic deve ancora fare nella sua corsa contro il tempo sembra ormai già lontana da Firenze, come una tappa del passato incastrata nel presente: un rapporto che ha visto tensioni e polemiche dopo il rifiuto del rinnovo contrattuale, e l’amarezza di perdere non solo un talento così puro, ma anche un figlio della città. D’altronde Dusan ha vissuto buona parte dell’adolescenza a Firenze e non ha mai nascosto il suo affetto verso l’ambiente in cui è cresciuto, in cui si è affermato: in una diretta instagram con lo youtuber-tifoso Pucci Viola, dimostra un’insospettabile conoscenza della storia della squadra e della città rispondendo a un quiz con delle domande sui nomi delle chiese e sulle espressioni del dialetto fiorentino.

Se, banalmente, lasciarsi non è mai semplice, in attesa di quel giorno Vlahovic non ha mai smesso di mostrare il suo impegno verso la squadra attraverso le prestazioni e, ovviamente, i gol. Un segno di professionalità che i tifosi hanno riconosciuto e che ha contribuito, col passare dei mesi, ad allentare la tensione: è proprio la dedizione al lavoro uno dei suoi tratti distintivi, assieme a quella determinazione che da sempre lo ha portato a dichiarazioni che è difficile non definire arroganti. Se recentemente ha affermato di invidiare solo la velocità a Erling Håland, a quindici anni disse a Valeri Bojinov, allora al Partizan, che sarebbe diventato più forte di Ibrahimovic. È proprio in quell’istante che Dusan Vlahovic ha cominciato a mettere fretta al presente.