La moda della montagna

Sono ormai anni che il fenomeno è fermentato ed esploso sia nel lifestyle che nella moda vera e propria: la montagna è diventata cool. Ma cosa vuol dire per noi, e soprattutto per la montagna?

Da un lato esiste il Cognettismo, dall’altro Arc’teryx x Jil Sander. In mezzo ci sono le decisioni del venerdì sera, qualche app meteo (3BMeteo per chi ci pensa davvero, l’app di Apple per chi non conosce i sentieri del CAI) e un moto a luogo cambiato da parecchie stagioni a questa parte. Iniziamo con il Cognettismo, ovvero il movimento settimanale di lettura dei libri di Paolo Cognetti: primo tra tutti le sue Otto Montagne, quelle che ti portano dalle dita che scorrono le pagine a quelle che sudano vista Monterosa (le sue montagne, tra una Biella operosa e operaia e un’Alagna di case walser). Un movimento che di recente al Teatro Franco Parenti a Milano ha creato il trittico autore, cane sul palco e Vasco Brondi a parlare di letteratura di montagna, natura da weekend, scelte di chilometri tassati a piedi e, ovvio, del nuovo libro di Cognetti La felicità del lupo.

La montagna è un tema comune, la montagna è diventata un tema comune? La torcia pop e bella di Cognetti illumina le passeggiate che dal paesino di Champoluc salgono verso le vette calme del Lago delle Rane, una 8 ore che chiunque può e vuole intraprendere senza grandi eroisimi da montanari. Sono quelle giornate che conducono a un rifugio e non a un rifugiarsi, camminate dinoccolate, qualche volta non attrezzate a dovere, per sabati con le migliori intenzioni mattutine e le peggiori serate in colonna: lo facevano i nostri padri, siamo tornati a farlo noi, per noia, scoperta del territorio o dovere di cronaca di un sentimento, dibattito, appuntamento verso le cime che non possiamo mancare?

Che Cognetti abbia macinato montagne ben più tremende per leggende e fatica (destinazione Himalaya come racconta in Senza mai arrivare in cima) non lo esula né dall’essere un alpinista e un delle vette né dall’essere diventato molo che giace sul comodino il mercoledì sera e diventa scarponcino infangato la domenica sera. Anche grazie a questa nuova letteratura di montagna, che intrattiene e diventerà un futuro film, ci siamo accorti che la Montagna – singolare femminile – esiste e ha un tono, una voce anche quando a percorrerla non sono gli eredi dei Ragni di Lecco, eredi diventati tali per titolo dinastico siglato con la cera lacca fatta di calli su mani. Siamo complici di un brulicare di palestre di arrampicata in città, iscrizioni boom per corsi di alpinismo, sci e pelli di foca noleggiati in Sant’Ambrogio a Milano e trasportati in motorino a fine stagione, ritiri per meditazione e stretching in quota.

Quello che da almeno cinque anni a questa parte stiamo vivendo è il frutto dell’aver troppo ignorato la montagna a favore di Langhe e castelli romani, mezze stagioni da salvare nell’entroterra e vigneti da frequentare? Forse la cultura pop della montagna, ovvero non radicata dall’infanzia ma più la Cepu del lifestyle, è necessità di accorciare le distanze tra centro urbano e centro del paradiso montanino. Così chi non scia cammina con i ramponcini, chi non arrampica su ghiaccio ciaspola, chi non beve il bombardino con la panne beve il genepì, chi non è un free rider vuole imbragarsi e farsi guidare su ferrate effetto vertigine ma senza rischio apparente. Di fatto così facendo la montagna attuale ha ampliato il suo business anche se sua Maestà non vorrebbe mai essere associata ai soldi. Dunque è un problema se la Montagna è diventata un luogo aperto a tutti?

Lo specchio dei tempi dista circa 130 chilometri da Milano, due ore e mezza di auto, un giorno e quattro ore a piedi, 9 ore in bicicletta: si sale in Valle, unica V maiuscola per la Val di Mello, provincia di Sondrio, quadro ideale del rapporto tra l’uomo comune e la montagna. La Val di Mello è quel luogo che occupa le mezze stagioni della montagna cosiddetta amica della fuga urbana, ovvero un luogo che i non adepti dei sentieri più impervi scoprono a pochi chilometri da città come Milano, ma che non implica noleggio di sci, maschere e parcheggi ghiacciati alle quattro del pomeriggio.

Con il suo rifugio Gatto Rosso, i pizzoccheri e il vino rosso godereccio, la Val di Mello è il luogo che attrae e inganna: ci arrivi per accompagnare l’amico che scala duro e ci resti per provare anche tu, farà male (rimane il tempio del fu Mello Blocco, orgia di boulderisti tra i più forti al mondo per weekend in tenda dalle feste memorabili), ti farà affermare non curante della sua storia che “non avrei mai creduto di trovare delle montagne così belle così vicine a Milano”; troverai chi, il lunedì in ufficio, ti racconterà della rapida immersione nel Bidet della Contessa, azzurro, verde, blu “in” acqua dolce; chi, ancora, debutterà con lo zaino porta bebè in spalla, camminata lenta, avvolta da alcune delle vie lunghe storiche come L’alba del Nirvana, Il Risveglio di Kundalini, Uomini e Topi. Vie che stanno lì, a incorniciare la Valle e che nella loro difficoltà mantengono la distanza tra montagna d’intrattenimento e montagna di indottrinamento monastico.

Il Cognettismo è l’ultimo capitolo di un percorso più lungo di letteratura di montagna meno tecnica e più emozionale che ha preso i maglioni di lana che pizzicano, le grandi pagine di Aria Sottile di Jon Krakauer, qualche vecchio video di YouTube di Messner che parla con alle spalle foto di sé in tuta rossa e tempesta di neve, e ha normalizzato il weekend in montagna come scelta improvvisata, svago, zonzo e giacche bagnate. Superata la fase di Decathlon for all, abbozzati dei ponti tra The North Face e il liceale che dal piumino nero è passato al guscio azzurro, scritti i manifesti di Patagonia contro l’abuso di attrezzatura, accessori, spese che inquinano sua Maestà, l’abbigliamento per l’outdoor ha messo il booster.

Un bene? Un male? 50% di rischio in entrambi i casi. Quando The North Face e Gucci si sono stretti la mano e hanno creato bomber senza maniche da indossare su tailleur 70s la strada è stata inevitabilmente aperta ad altro. La letteratura del vestire la montagna si è diramata in correnti di pensiero con protagonisti termosaldature, zip intuitive, cappucci invisibili, interni pensati da Ian Fleming. Il livello di performance si è unito al livello estetico: un cappio al collo che, però, ha creato una scissione netta tra montanari per dovere di cronaca (costume?) e montanari per necessità di ossigeno. In pratica chi vestiva Montura, scalava in E9 (sia in falesia che in palestra urbane), conviveva con le vesciche degli scarponi da ghiaccio de La sportiva, ha continuato a farsi risuolare, cucire e apporre patch ai suoi abiti da montagna. Chi non ha mai conosciuto il dizionario montanino ha visto nelle collaborazioni più spalmate di Instagram un sussidiario illustrato per preparare la fuga del weekend.

Ce ne siamo accorti con uno schieramento costante di interesse per muoversi vs interesse per vestire questa montagna. Qui entra in gioco l’ultima crasi tra moda e tech di quota, Jil Sander per Arc’teryx, marchi entrambi simbolo del calvinismo indossato e non professato. Ed eccolo il secondo lato dell’economia attuale della montagna. Nelle sue epoche e nei suoi ritorni, dalla fondatrice agli eredi obbligati, Jil Sander non ha quasi mai prestato il fianco alla sbavatura. Così il brand si è lastricato da solo la via del rigore, inserendo vezzi che fossero sempre e solo nel proprio dna: non stupisce che in questo scenario di montagna che racconta uno status rispetto ad avventure faticose la collaborazione tra i due marchi abbia reso partecipe una nicchia alto-spendente in costante necessità di sorpresa. E forse è la collabo più riuscita.

Del resto Arc’teryx con quello scheletro stilizzato si è sempre collocato nel target di cliente che chiama l’eliski per sciare indisturbato, si è spesso inserito tra i gusci tecnici più efficaci e senza orpelli, ha visto molto ma molto tardi il suo debutto in mall della scontistica come Fox Town in Svizzera (non a caso scelta limite ma coerente con uno dei Paesi più naturalmente montanini high-performance del mondo). Un marchio che, però, ha vestito anche i 35enni cittadini per anni, quei fratelli maggiori dei liceali in bomber nero The North Face, quindi la sua missione d’uso era imbastardita già da tempo e forse per questo la combo con il brand che fu della signora Sander sembra solo chiudere un cerchio di cui il mercato ha bisogno. Urgentemente? Forse no, ma se Romeo Beckham guarda mamma e papà, ignora i loro business nella moda e diventa testimonial di scarponi da neve da mille dollari di Canada Goose forse il target delle collaborazioni scende e porta anche i liceali a spendere, desiderare e chissà dove indossare capi che raccontano la montagna senza mai esserci stati.

Non importa a chi appartiene la Montagna, se guardando Netflix noterai la polvere sugli sci anni 40 di legno, lasciati lì a monitorare la tua fede per le cime. Non importa se ti girerai dall’altra parte del letto in un’alba di dicembre per non indossare la calzamaglia e il paracoccige. Non importa se sottovaluterai l’Abetone perché esistono solo i Quattro Passi. Non importa se il piumino di Norrona lo indosserai anche in motorino per mangiare panini davanti al Tribunale. Non importa se non hai letto tutto Cognetti. Non importa se non dividerai la camerata al Rifugio Franchetti. Non importa se non indosserai le Crocs lasciate all’ingresso di qualunque rifugio.

Forse siamo nell’era del menefreghismo montanino, quello dove i gradi di arrampicata valgono per chi vuole contare, i passi di montagna possono non essere fotografati e le incapacità sciistiche ignorate. Forse in questo caos tra capirne di montagna e seguire il flusso di vette di cui parlare il lunedì c’è una miniera dimenticata: dove i pigri hanno pace per i loro vizi della sera prima e gli atleti hanno preso troppa distanza e se la godono, finalmente.

Da Undici n° 42
Foto di Teo Poggi