The Athletic acquistato dal New York Times è una buona notizia per il giornalismo sportivo?

L'investimento da 550 milioni di dollari ha cambiato la geografia dei media, e ha dimostrato che la qualità paga. Ma ora cosa cambierà?

A settembre 2021 il calcio femminile americano si è fermato in seguito a uno scandalo di abusi sessuali denunciati da molte giocatrici. La commissioner della NWSL (acronimo di National Women’s Soccer League), Lisa Baird, ha dato le dimissioni chiedendo pubblicamente scusa. Al tecnico delle North Carolina Courage, l’inglese Paul Riley, il destinatario delle accuse, è stata revocata la licenza da allenatore. Due atlete ed ex giocatrici delle Courage, Sinead Farrelly e Mana Shim, avevano raccontato per prime i comportamenti del coach alla giornalista Meg Linehan: pressioni, soprusi, violenze, un sistema in atto da anni, che tutti conoscevano e tutti facevano finta di non vedere. L’inchiesta di Linehan è stata pubblicata su The Athletic, con il titolo “This guy has a pattern”: la testata sportiva nata nel 2016 aveva dimostrato, una volta di più, di avere uno standard di qualità altissima rispetto ai media sportivi, ai suoi competitor. E di saper fare il suo lavoro di cronaca e racconto del mondo sportivo in maniera eccellente.

Bisogna partire da qui per spiegare la decisione del New York Times di acquisire The Athletic per 550 milioni di dollari (circa 486 milioni di euro). Ovviamente la qualità del servizio offerto è un ottimo punto di partenza, ma un ottimo punto di partenza non basta a giustificare l’acquisizione più costosa della storia del NYT. Anche perché The Athletic non è proprio una miniera d’oro dal punto di vista economico: la testata ha 600 dipendenti, 400 solo tra i giornalisti, e non si aspetta di generare profitti almeno fino al 2023, proprio a causa dei costi. Però The Athletic ha qualcosa che potrebbe avere più valore di un segno positivo a bilancio. La frase più giusta l’ha trovata Peter Kafka, che su Vox scrive: «Il New York Times vuole più abbonati, The Athletic ha molti abbonati ma non fa soldi». E tanto basta, nella subscription economy che sta esplodendo in questi primi anni Venti. Il NYT ha più di 8 milioni di abbonati e ha annunciato di voler raggiungere quota 10 milioni entro il 2025: un traguardo che The Athletic può contribuire ad avvicinare – già oggi sono circa 1,2 milioni gli utenti paganti sul sito di sport.

Negli ultimi anni il Times si è trasformato, ha cambiato il suo modello di business: da azienda editoriale basata sulla pubblicità, è diventata  una compagnia una supportata da iscritti a pagamento. Con The Athletic, il giornale più importante del mondo ha una nuova attività di abbonamento che può commercializzare insieme al suo prodotto principale (le due attività non sono in competizione); mentre The Athletic, da startup, entra a far parte di un universo – mediatico, societario, di marketing – con numeri decisamente più grandi di quanto potesse mai sperare di raggiungere da testata indipendente. Dal punto di vista dei lettori, quindi di chi dovrebbe fruire della produzione giornalistica, il dubbio è se The Athletic riuscirà a mantenere la stessa linea di lavoro rispetto a quanto fatto finora, o se le esigenze di mercato del New York Times – che dovrà ripagare il suo investimento – porteranno modifiche mirate a massimizzare i profitti prima di ogni altra cosa. L’email arrivata nella casella di posta di tutti gli abbonati vorrebbe essere rassicurante: «Non cambierà nulla della tua iscrizione a The Athletic, al momento. Continueremo a investire nella nostra redazione di livello mondiale e nella nostra copertura nazionale che non ha rivali», promettono i fondatori Alex Mather e Adam Hansmann.

Forse quel al momento può sembrare un po’ minaccioso, ma in ogni caso per i lettori la preoccupazione è legittima: oggi The Athletic offre un servizio di primissimo livello in termini di copertura della cronaca di ogni competizione sportiva, a cui aggiunge analisi, approfondimenti, interviste e inchieste. A chi segue la Serie A non sarà sfuggito il reportage friulano di James Hornacastle, che a maggio 2021 ha portato i lettori in casa dell’Udinese – un club sospeso tra un passato da leader dello scouting calcistico e un futuro ancora in via di definizione. Tre giorni fa, invece, Tim Kawakami se n’è uscito con un long read su Klay Thompson, che è tornato in campo domenica sera con i Golden State Warriors dopo un’attesa di quasi tre anni. Un articolo pieno di aneddoti che l’autore ha costruito sentendo quattro centri che hanno giocato con Thompson ai Warriors: Andrew Bogut, David West, Zaza Pachulia e James Wiseman. Poi ci sono Shams Charania sul basket, David Ornstein per la Premier League, Dermot Corrigan per coprire la Liga. E ovviamente le inchieste che hanno segnato un pezzo di storia dello sport prima ancora che del giornalismo: quella di Meg Linehan sul calcio femminile citata in apertura, ma anche la storia dello scandalo degli Houston Astros, che nel 2017 vinsero le World Series grazie a un sistema che permetteva di capire i segnali di lancio degli avversari e comunicarli ai giocatori in campo.

Dal 2016 The Athletic ha cercato – e in un certo senso imposto – standard qualitativi molto alti alla cronaca e al racconto dello sport, in un periodo in cui le testate si affidano alle pubblicità e al sensazionalismo, o fanno scelte editoriali scadenti. Come Deadspin, che a ottobre 2019 si è praticamente suicidato con quella decisione di «stick to sport» che non è piaciuta quasi a nessuno. È molto probabile che, almeno in un primo momento, The Athletic rimanga uguale a se stesso, proprio come diceva il comunicato ufficiale. Però il suo singolare modello di business – inteso nel senso più ampio possibile – lascia pensare che qualcosa possa cambiare, ora che è nella famiglia del Times. Ad esempio, The Athletic negozia i contratti singolarmente con i suoi giornalisti, e questo ha portato alcuni ad abbandonare la nave negli ultimi tre anni: i negoziati sono diventati sempre più duri per i lavoratori, molti hanno dovuto lottare per mantenere la stessa paga alla scadenza del contratto, mentre ad altri sono state fatte solo offerte inferiori. «In nessun modo il sistema che hanno creato vuole aiutare gli scrittori», «è tutto pensato per proteggere i proprietari dai crescenti costi del lavoro», hanno detto un paio di voci anonime negli ultimi giorni.

Una delle illustrazioni usate da The Athletic, utilizzata nell’articolo From Drogba to Radebe, Kanu to Fortune – your Premier League club’s African icon”.

Forse l’amministrazione stava tirando avanti con tutte le armi proprio in attesa di una cessione. Nei progetti iniziali dei due fondatori c’era una crescita esponenziale dei primi anni che avrebbe reso The Athletic una gigantesca media company, e questo giustifica anche i tanti aumenti di capitale del primo quinquennio di vita. Qualcuno ha immaginato che Mather e Hansmann abbiano optato per la cessione solo per arricchirsi, fregandosene del giornale. Infatti già a settembre la società aveva assunto la banca di investimento LionTree per cercare un acquirente; durante il 2021 The Athletic sarebbe stato in trattative con Axios per una fusione e poi anche con lo stesso New York Times per la vendita. Ma entrambe le trattative non si sono concretizzate perché la valutazione di 750 milioni di dollari è stata considerata troppo alta sia da Axios che dal Nyt.

Sul piano giornalistico, però, The Athletic la sua scommessa l’ha già vinta, riportando al centro del sistema il lettore pagante, ha avuto un ruolo determinante nella normalizzazione degli abbonamenti e dei paywall: nella sua scia si sono poi inseriti anche i più grandi Espn, Sports Illustrated, Defector e altre testate di settore che hanno deciso di produrre contenuti a pagamento. In poco più di cinque anni The Athletic non è diventata la media company da miliardi di dollari che promettevano Mather e Hansmann, ma non è nemmeno implosa come tante altre testate indipendenti del giornalismo sportivo nate nella nostra era. Anche aver convinto un titano come il New York Times a investire mezzo miliardo per una startup è un evento singolare per il settore. «Questa operazione ci mette in condizione di essere uno dei leader dell’editoria sportiva e dare nuove motivazioni ai lettori per rivolgersi a noi quando vogliono informarsi su quel che accade nel mondo», ha detto Meredith Kopit Levien, Ceo del Times. Ecco, forse questa acquisizione non cambierà il volto e il futuro del giornale più importante del mondo, ma il Times ha visto in The Athletic la strada migliore, più sicura e valida per crescere ancora, per migliorare il suo modo di raccontare lo sport. E questo, prima di ogni altra cosa, ci dice che la qualità paga. Per fortuna.