Di omosessualità nel calcio si parla sempre nel modo sbagliato

Le ultime frasi di Patrice Evra dimostrano come questo mondo sia ancora lontanissimo da una reale integrazione per i giocatori gay.

L’omofobia del calcio professionistico maschile è uno di quegli argomenti ciclici perfetti per un mondo immobile, che non ha nessuna intenzione di cambiare, che da tempo preferisce affondare piano piano insieme ai suoi problemi cronici. Seguire e amare il calcio ha sempre il prezzo di trovarsi ogni giorno a bagno dentro la più arretrata delle grandi industrie culturali. Il problema delle frasi di Patrice Evra a Le Parisien è che potrebbero essere state dette in uno qualsiasi degli ultimi vent’anni, l’intervista al calciatore o all’ex calciatore sull’omosessualità nascosta dentro le squadre in cui ha giocato è quasi un format.

Non so quanto fossero genuine o evolute le intenzioni personali di Evra. Tre anni fa usò i social per rivolgere insulti omofobi al Paris Saint-Germain dopo un’eliminazione europea da parte del suo ex club, il Manchester United. Oggi ha raccontato che quando giocava in Premier League qualcuno venne invitato dal club a parlare di omosessualità e venne accolto male dai suoi compagni. «Alcuni dei miei colleghi dissero: è contro la mia religione. Se c’è un omosessuale in questo spogliatoio, fategli lasciare la squadra. Io gli risposi di stare zitto». Ovviamente tutto questo rimane nelle segrete stanze. Evra ha aggiunto – ed è stato ovviamente questo a fargli guadagnare titoli e rilanci virali sui social – che «ci sono almeno due giocatori gay per ogni squadra. Nel mondo del calcio, se lo dici, per te è finita».

L’unica variazione dell’intervista di Evra è il racconto del tentativo di fare training di inclusività dentro un club professionistico, ma per il resto ci sono tutte le costanti di questo format: i calciatori gay ci sono, se facessero coming out la loro carriera sarebbe finita, le cose stanno così, non ci possiamo fare niente noi. Evra ci ha aggiunto anche un altro classico: l’outing forzato in codice, una specie di enigma per solutori abili: provate a indovinare chi sono quelli con cui ho giocato, quelli che si sono confidati con me. È l’equivalente calcistico della corrente Mykonos, il gioco estivo italiano scattato quando il deputato Alessandro Zan disse di aver visto un leghista baciare un uomo a Mykonos. Anche quando vengono fatte con le migliori intenzioni (e quindi tralasciando il caso di Cassano nel 2012: «I gay in Nazionale? Problemi loro»), dichiarazioni come quelle di Evra hanno tutte lo stesso problema: confermare che la scelta di fare coming out nel calcio è un guaio che appartiene solo a chi lo deve affrontare. Un giorno arriverà un eroe che si prenderà il primo proiettile, noi non ci possiamo fare niente, suggerisce Evra. Solo questo potrà smuovere l’immobilità per niente occultata dai lacci colorati e dalle campagne comunicative.

I campionati di alto livello come quelli in cui ha giocato Evra (italiano, francese e inglese) sono come un’isola tagliata fuori dal presente, sull’inclusività confermano anno dopo anno la propria secessione dalla realtà. Per qualche motivo, nel 2022 dobbiamo ancora considerare il calcio maschile come il calcio maschile eterosessuale. Qualcuno ha provato a farsi carico del peso che è stato lasciato solo sulle loro spalle e ha provato a infrangere questa barriera mentre era in attività, ma sono storie rare e spesso terribili, santini dietro i quali c’è scritto: lasciate perdere. La più dolorosa di tutte è quella di Justin Fashanu, che era una promessa del calcio inglese, fece coming out nel 1990, si trovò con la carriera rovinata, una spirale che passò da un’accusa di violenza sessuale e lo portò a suicidarsi otto anni dopo in un garage di Londra. Ai margini geografici e mediatici qualcosa succede e sembra confermare quello che c’è scritto dietro il santino di Fashanu: Josh Cavallo è un centrocampista australiano classe ’99, gioca nell’Adelaide United ed è l’unico calciatore professionista in attività ad aver detto di essere gay. Dopo l’ultimo turno di campionato, ha denunciato su Instagram gli insulti ricevuti nello stadio del Melbourne Victory. «Non farò finta di non aver visto o sentito gli insulti omofobi alla partita. Non ci sono abbastanza parole per dirvi quanto sono deluso». Il messaggio è lungo e doloroso, Cavallo ha anche scritto: «Non mi scuserò mai per aver deciso di vivere la mia verità. A tutte le persone giovani che ricevono insulti omofobi dico: su la testa e continuate a inseguire i vostri sogni».

Justin Fashanu è cresciuto nel Norwich City e poi ha militato in diverse squadre in diversi Paesi del mondo, tra cui Manchester City, West Ham United e Hearts of Midlothian (UK /Allsport)

Thomas Hitzlsperger, che ha giocato alla Lazio, al Wolfsburg e in Premier League, ha deciso di fare coming out alla fine della carriera (è il calciatore di più alto livello ad averlo mai fatto). Ha raccontato che aveva pensato di farlo mentre era ancora in attività e giocava in Germania, ma le persone accanto a lui gli hanno consigliato di lasciar perdere, perché una grande onda lo avrebbe travolto e spazzato via. Il mondo del calcio non è un posto accogliente o sicuro per le persone omosessuali, non lo sono gli stadi, non lo sono gli spogliatoi, non lo sono i media e nemmeno i social. Le istituzioni di questo sport – Fifa e Uefa – hanno sposato la questione come fanno con tutti i temi della società, in modo reattivo, inseguendoli dopo che si sono infettati, con spirito burocratico e performativo, senza nemmeno provare a nascondere lo spirito di chi fa certe cose in quanto obbligato dal contesto, cioè la realtà, il presente. Perché l’omofobia, per il calcio, è un problema comunicativo, non di diritti umani, altrimenti non avremmo avuto due Mondiali di fila in Russia (dove ci sono leggi contro la «propaganda omosessuale») o addirittura in Qatar.

La Coppa del Mondo del prossimo inverno è il grande iceberg verso il quale viaggia inconsapevole questo mondo, uno degli impatti sarà proprio come saranno accolti i tifosi LGBT+ in un paese dove l’omosessualità è un reato. Cavallo ha detto che avrebbe paura a partecipare, ma per i calciatori gay il problema a quanto pare non esiste, perché non esistono loro, per il tacito accordo per cui il calcio è uno sport eterosessuale e chi non partecipa al patto può parlare a fine carriera o accettare di venire distrutto nel processo. È chiaro che non dovrebbe essere così, ma nel caso remoto in cui il calcio volesse interrompere la sua secessione e farsi annettere dalla realtà, potrebbe innanzitutto smettere di scaricare il problema sui singoli individui, lasciando ai calciatori omosessuali il conto da pagare per l’omofobia generalizzata, e creare le condizioni pratiche, culturali, concrete e politiche perché questo smetta di essere uno sport solo per eterosessuali.