Il Napoli ha fatto crescere anche Napoli, o viceversa?

Gli Azzurri di De Laurentiis sono esplosi insieme a Paolo Sorrentino, Elena Ferrante, Liberato e il capitale di coolness della città. Che è attrattiva come non mai.

Non molto prima della pandemia ho visto una partita del Napoli in un bar di Shinjuku, a Tokyo. È una cosa che mi piace fare, quando viaggio e ne ho la possibilità: la varietà del tifo per una squadra così esasperantemente locale come il Napoli può essere affascinante, istruttiva. Avevo conosciuto il presidente del club azzurro locale su Twitter mentre facevo scouting alla ricerca di un posto adatto per questo detour da ciliegi in fiore e templi scintoisti. Si chiama Hide, aveva fatto uno scambio universitario a Napoli nel 1986, si era trovato immerso nella Gerusalemme del calcio ed era tornato a casa da apostolo. L’appuntamento a Shinjuku era in piena notte, il pubblico del bar era un misto di tifosi italiani in trasferta per i motivi più vari, storditi dal sonno e dal fuso orario, e di giapponesi senza alcun evidente legame personale o culturale con Napoli, persone che non parlavano italiano e nemmeno inglese.

Provai a fare due chiacchiere con uno di loro, uno che indossava con disinvoltura una Kombat, una delle tante maglie da gioco mimetiche prodotte in questi anni, comprata con una taglia alla napoletana, cioè molto aderente sul ventre. Avevamo entrambi voglia di comunicare ma la barriera linguistica è stata insormontabile finché lui non ha pescato una parola dal pidgin globale del calcio: Mazzarri. Così abbiamo guardato sul suo smartphone i gol di un vecchio Napoli-Lazio quattro a tre, dandoci grandi pacche sulle spalle, lui indicava se stesso e il telefono, da quello che ho capito io voleva dirmi che era stata quella la partita che lo aveva fatto innamorare. Era il Napoli che Brian Phillips descrisse su Grantland come «The coolest team in Europe», in un articolo il cui sommario era: «Ecco perché dovreste tifare per il Napoli».

Nell’ultimo decennio c’è stata una sproporzione tra gli scarni successi sportivi del Napoli e la sua crescente rilevanza culturale, il fascino che ha saputo esercitare sulla platea globale dei consumatori di calcio. La prima volta che ho visto una maglia azzurra fuori contesto è stata nella Boca di Buenos Aires, non lontano dalla Bombonera, una 9 di Higuaín addosso a un ragazzino magrissimo, e c’erano tutti i motivi per cui fosse lì, ma poi mi è successo anche passando accanto a una partita di strada a Pemba, in Tanzania, nell’Oceano Indiano, e quello era decisamente più sorprendente. Nel 2017 Bleacher Report raccontò una storia simile a quella di Grantland in epoca diversa, descrivendo gli azzurri come «the most exciting team to watch in Europe», erano effettivamente gli anni entusiasmanti di Sarri, la bellezza del gioco e la costruzione dal basso come commodity commerciali da esportazione. Un altro commentatore americano, Musa Okwonga di The Ringer, ha usato lo stesso tono su Twitter condividendo gli highlight del Napoli-Lazio di fine novembre 2021, quindi del primo governo Spalletti: «Sono una gioia per gli occhi, se dovessi scegliere una squadra da guardare dal vivo oggi sarebbero loro. Guardate alla varietà di giocatori elettrizzanti che ci sono». Forse non abbiamo ancora metabolizzato il carisma dei Koulibaly, degli Osimhen, dei Mertens, ambasciatori della città e della squadra. Non saranno le decine di milioni di fan in tutto il mondo che De Laurentiis ogni tanto millanta, ma il Napoli si è costruito una reputazione a modo suo anomala e imprevista: una delle squadre più hype del pianeta, una cosa divertente da seguire a distanza, perché gioca spesso bene ma anche perché parte di un universo narrativo più grande, la grande chiesa che va da Maradona a Lila Cerullo.

Il mio estemporaneo amico giapponese con la maglia mimetica aderente probabilmente non tifava Napoli perché era un grande lettore di Elena Ferrante, ma la squadra che De Laurentiis ha rianimato dal fallimento è cresciuta insieme a tutta l’industria culturale napoletana, un percorso parallelo e coerente, anche perché ormai il calcio è industria culturale. E non ci sono solo con gli intellettuali organici Sorrentino, De Giovanni e Liberato, ma anche con la vivace ed eterogenea scena musicale, quella artistica, quella letteraria. A Napoli stanno succedendo da anni una marea di cose. Intendiamoci, non è la prima stagione fertile, anzi, questa è una città che sa solo ciclicamente rinascere. «Napoli cambierà, è normale. L’unica cosa che non cambia mai è che si parla sempre di come cambierà la città», diceva Troisi.

L’ultima grande epoca brand era stata il Rinascimento napoletano degli anni di Bassolino sindaco, quelli che archiviavano le guerre di camorra del decennio precedente con i film sofisticati di Martone e Capuano, le grandi opere d’arte a Piazza Plebiscito e le fermate della metropolitana-più-bella-del-mondo. Quella però è stata una rivoluzione borghese e centralizzata, quindi anche un po’ «provinciale», come mi disse il giornalista Marco Demarco, era Napoli che non voleva essere più così Napoli, c’era una mistica del vestito buono con cui presentarsi al mondo alla quale mancavano realtà, eco e credibilità. E infatti è durata poco e non ha lasciato eredi. La rivoluzione estetica del nuovo canone napoletano invece è più spontanea, disaggregata, dal basso, popolare e pop. I pezzi si sono incollati da soli, senza una regia e con un solo centro di potere riconosciuto: il Napoli, inteso come squadra, stadio e chiesa collettiva.

C’è una timeline comune tra la nuova Napoli e il nuovo Napoli, come se fossero la stessa storia raccontata con linguaggi diversi. La quadrilogia de L’amica geniale esce tra il 2011 e il 2014, la prima edizione americana è del 2012, proprio mentre il Napoli di Hamsík, Cavani e Lavezzi fa una campagna spettacolare in Champions League, chiusa in anticipo come si chiudono le cose qui: per paura di essere troppo grandi. La serie tv ispirata a Gomorra va in onda per la prima volta nel 2014, lo stesso anno in cui Paolo Sorrentino vince l’Oscar: lo fa con un film «romano» come La Grande Bellezza, ma poi a Los Angeles ringrazia Maradona (insieme a Fellini, Talking Heads e Scorsese). Sette anni fa era un’uscita molto più esotica di come sarebbe suonata oggi, era prima che partisse la mitopoiesi di documentari come quello di Asif Kapadia del 2019.

Nello stesso periodo dell’Oscar di Sorrentino anche il Napoli provava a internazionalizzarsi, con la guida di Rafa Benítez e gli acquisti dal Real Madrid di Higuaín, Callejón e Albiol. Altra fase: Liberato ha pubblicato dal nulla il suo primo singolo nel 2017. Insieme al regista dei suoi videoclip Francesco Lettieri, l’artista-trapper ha costruito a partire da “Nove Maggio” un canone estetico che pesca dallo stadio e dalle curve, proprio nel periodo di massima comunione tra tifosi e squadra della storia recente, quello con Maurizio Sarri in panchina. È uno stile che poi Lettieri ha provato a sistematizzare in Ultras del 2020. Il film era così così, ma il fatto che Netflix avesse deciso di investire su una storia così specificamente napoletana è stata un’altra misura esatta di una rilevanza culturale prima ancora che sportiva.

È stato anche il decennio di Instagram e poche città si prestano alla causa della foto perfetta con l’hashtag giusto come Napoli. E non è solo una replicazione social: sono anni che le riviste internazionali continuano a produrre servizi sulla città. Il numero napoletano di Vogue di agosto è il culmine di una lenta accumulazione. Francesco Lastrucci è un fotografo fiorentino che lavora soprattutto per giornali stranieri: è arrivato per la prima volta a Napoli nel 2010 per una storia sui sarti locali da scattare per la rivista di viaggio americana Afar. Poi ci è tornato per il Wall Street Journal, per lo Smithsonian Magazine, per National Geographic. «I photo editor sono ovviamente affascinati dai luoghi comuni, ma soprattutto da come questi luoghi comuni sanno essere riconoscibili e allo stesso tempo ancora reali».

Napoli è sempre stata un banchetto per fotografi, ma negli ultimi anni è diventata più accessibile e richiesta, la vogliono anche i giornali e i lettori. La stessa antologia di articoli sulla coolness della squadra potrebbe essere compilata sulla città come destinazione turistica. Nel 2019 Lonely Planet l’ha descritta come il luogo per eccellenza da visitare dell’Italia, «per il suo spirito di comunità, la cultura di strada non sterilizzata e per l’architettura frammentata». Scriveva l’autrice di quel pezzo, Sophia Seymour, che solo a Napoli si poteva ancora vedere questo lato crudo e non addomesticato dell’Italia. Quello che in realtà attira gli stranieri è il fatto che Napoli si è invece addomesticata ed è diventata facile e Instagram friendly ma senza perdere imprevedibilità. «Per un fotografo è una gioia lavorarci perché è dinamica, piena di strati e di interazioni», dice Lastrucci, «puoi semplicemente fermarti a un angolo di strada, piazzare la macchina e aspettare che qualcosa succeda e qualcosa in effetti succede sempre. Lo dico con una parola inglese: è la città con più serendipity che io conosca». Questo la rende un pozzo a cui attingere, soprattutto in un’epoca in cui le immagini viaggiano velocemente ma finiscono col somigliarsi tutte: a Napoli questo non succede e mille foto diverse dello stesso vicolo con lo stesso hashtag riescono a sembrare ancora diverse. È quello che succede negli universi narrativi, che vibrano di una densità che non decifri mai in pieno ma che riconosci.

In mezzo ovviamente c’è la realtà. Non solo quella di cui non ci si occupa in questa sede, una città povera, indebitata, piena di problemi cronici, inquinata, sempre sul filo della disperazione, ma anche quella di un tifo che da tempo riflette questo ristagno sociale ed è più fratturato e meno sentimentale di come ce lo raccontiamo. È come un condominio litigioso, pieno di tic e manie, un palazzo di spifferi e gossip, facile all’insofferenza, ai fischi e alle depressioni. Tutto questo allontanandosi non si vede più ed è una fortuna, da fuori quello intorno al Napoli sembra ancora un popolo compatto e devoto. Lo scrittore britannico John Ludden ha fatto col suo libro Once Upon a Time in Naples la non facilissima operazione di divulgare Maradona agli inglesi. Continua ad amare la città e seguire la squadra, e racconta di una macchina dell’hype in pieno fermento. «Il Napoli è immensamente popolare qui, non solo per Maradona, ma per il bellissimo calcio che giocano in un campionato ancora basato sulla difesa. È più amato all’estero oggi che ai tempi di Diego, perché ha i diritti televisivi che lo diffondono ovunque». Ludden ha già in mente di tornare a maggio, nel caso «qualcosa di speciale dovesse succedere. Immagino le effigi di Insigne sui muri, le candele a Koulibaly nelle chiese, la città ha bisogno di nuovi eroi». È un’immagine idealizzata, ma è anche quella che la società Napoli ha coltivato in questo decennio di crescita, occupandosi poco della comunità locale e molto di più dei prodotti esportabili, le collaborazioni con Amazon e con Burlon, i video virali sui social, addirittura i fan token su Socios.

Ora servirebbe solo una vittoria importante, di quelle che definiscono un’era, perché sarebbe l’endgame di questo universo narrativo, il giorno in cui tutti i pezzi nati spontaneamente si ritrovano insieme, la messa in scena definitiva della storia che con ogni linguaggio Napoli ha provato a raccontare in questi anni. Con È stata la mano di Dio, Sorrentino è riuscito, tra le tante altre cose, anche a raccontare perfettamente il cammino congiunto di città e squadra, la comunione esistenziale tra Napoli e il Napoli, nella buona e nella cattiva sorte. Prendendo a prestito le parole che mette in bocca ad Antonio Capuano nel film, il vero miracolo che c’è dentro questa storia è che siamo riusciti a non disunirci, nonostante tutto. Ed è probabilmente questo che piace così tanto, dal Regno Unito al Giappone: tanti pezzi, tanti strati, una sola identità.

Da Undici n° 42
Foto di Jim C. Nedd