Otto secondi per salvarsi

Riassunto tragicomico dell'assurda epopea del Genoa 2021/22, e di come un'insperata brigata tedesca ha rimpolpato le speranze rossoblù.

Per chi nasce a certe latitudini a un certo punto si impone una scelta: seguire il calcio, o seguire il Genoa. Non è precisamente la stessa cosa. Beninteso, chi imbocca la via maestra, occupandosi del campionato, ha tutta la mia comprensione. Però sappia che si perde qualcosa, specie adesso che l’Era Preziosi è finita, e l’eterno remake del Borgorosso cui eravamo abituati si sta trasformando a vista in una parodia, vedremo nelle prossime settimane quanto riuscita, di Any Given Sunday. Ma andiamo con ordine – nei limiti del possibile.

Riassumo, per chi si fosse sintonizzato solo al momento di cercare “Blessin” su Transfermarkt. Qualche mese fa Enrico Preziosi lascia, non prima di avere assemblato la solita RSA estiva a parametro zero e averla affidata, per inerzia, al gestore da lui più aborrito di chiunque altro (e dire che li ha aborriti tutti): l’anima buona del Balla. Il quale Balla, al quarto richiamo in servizio e stufo di seguire la campagna acquisti sulla Gazzetta, sussurra già in agosto che stavolta marca male. In effetti, marca anche peggio. Prima ancora che a fare punti, la squadra stenta a raggiungere il centrocampo, cioè la zona pericolo dove chi riceve la palla sembra non capire perché gli avversari si ostinino a strappargliela. Mentre insomma prende forma il consueto annus horribilis, del tutto a sorpresa esce Preziosi ed entrano tre ragazzotti americani a capo di una società che si chiama come un Boeing, 777. Non si capisce bene di che cosa la suddetta si occupi, però sembra garantire, oltre un certo cash flow, la disponibilità a ridistribuirlo – fatto inaudito, e data la piazza anche sospetto.

Dopo avere calpestato un paio di volte il sacro suolo di Marassi, e gettato un’aria in giro alla vana ricerca delle majorettes, i tre ritengono giunta l’ora di dare un segnale, e il primo è la nomina a presidente di un medico noto per cantare fin sulla soglia della camera operatoria il decisamente binario, e piuttosto farneticante, inno del Grifone («Oh donna/prepara/oh, oh/per la mia bandiera/il nuovo scudetto» ecc.). Felice come non lo si vedeva dai primi giorni della pandemia, quando dal San Raffaele invitava in diretta tutti quanti a considerare il virus tutt’al più come una bronchite, Zangrillo, dismesso il camice verde e assunto il total look dello sponsor tecnico, si divide fra conferenze stampa e interviste in zona mista. Di umore vieppiù radioso, dopo un tribolato 0-0 alla Dacia Arena dichiara che il primo punto non si scorda mai, e in contemporanea annuncia una rivoluzione. Tutti pensano che alluda all’arrivo di Sheva, e dato il legame di entrambi col paziente più illustre del primo cominciano a immaginare che i 777 siano in realtà nani sulle spalle di – mi fermo, prima di inciampare su questioni di statura. Magari, comunque. E invece no.

Cosa raccomandino per nove settimane Sheva e Tassotti ai trenta ripetenti che allenano non è dato sapere, ma di qualunque cosa si tratti, è evidente che i trenta hanno un deficit di attenzione. La situazione precipita, e nelle dirette, pur di non inquadrare il gioco, i cameramen indugiano sui risvolti umani della tragedia, alternando primi piani sgomenti di Sheva, che non trovando interlocutori all’altezza si astiene dall’interloquire, ad altri di Sirigu nell’atto di raccogliere la palla in fondo alla rete: con l’aria di odiare chiunque, anziché chiamare in correo, come dovrebbe, il suo nutrizionista. Non può durare, e infatti non dura.

Poco dopo l’ineffabile Zangrillo, intanto, è entrato in scena anche il nuovo direttore sportivo, certo Johannes Spors, un tedesco che fa capire subito come sugli ucraini pensi più o meno le stesse cose dei suoi bisnonni – venendone ovviamente ricambiato. Spors è uno specialista di mercato che sostiene di basare la propria azione su un misto di statistica (ovvio, se no chiamavano un messicano) e colpo d’occhio. Di conseguenza, messo alla porta Sheva subito dopo la prima partita decente del Genoa in stagione, fa filtrare il nome dell’erede apparente. Si tratta di tale Bruno Labbadia, un oriundo sosia di Bruno Giordano cui la rete attribuisce all’istante a) un numero di esoneri da panchine tedesche vicino ai massimi europei, e b) una furibonda cotta giovanile per l’unica squadra italiana che risulta conoscere: la Sampdoria. Prima ancora di capire cosa stia succedendo – impresa, in effetti, piuttosto ardua – la piazza sia allinea d’istinto con i commentatori più retrivi, facendo circolare una petizione per il ritorno di Davide Nicola, e, in sottordine, per il richiamo dell’indimenticata coppia Maran/Maraner. Fiato sprecato, visto che secondo l’ufficio stampa della società Labbadia ha già in tasca il biglietto per l’aereo, su cui è fermamente intenzionato a salire lunedì 17. Doveva essere un volo notturno, però. Alle 20:45 il Genoa, affidato all’adorabile Abdoulay Konko, che fin lì ha guidato l’Under 17 ed è più giovane di alcuni giocatori della prima squadra, prende infatti 6 pere, che avrebbero potuto essere 12, dalla Fiorentina. Il tempo di scendere negli spogliatoi, e intorno alle 23 giunge notizia che Labbadia, aperto il telefonino al gate, il biglietto se l’è ingoiato, o l’ha strappato in faccia al personale di terra.

Per 48 ore ci si ricomincia a chiedere se sia meglio tornare da Balla o dai Maraner, e comunque la certezza diffusa è che sia il caso di adottare quella che non so più quale eccentrico ha chiamato la Soluzione Sonetti. Certo non Spoors, però, che senza neppure consultare Zangrillo 48 ore fa chiama il nostro eroe in pectore: Alexander Blessin. La domanda ricorrente in tutta questa storia («Ma chi *** è?») investe ovviamente anche lui, almeno prima che venga reperito, sul suo Instagram, un post in cui acchiappa un suo giocatore renitente ai festeggiamenti e cerca di scaraventarlo, alla lettera, in pasto alla curva. Fino alle quattro del pomeriggio di due giorni prima, Blessin allenava l’Ostenda, formazione stabile al quintultimo posto della massima divisione belga: alle cinque ha mollato tutto, biascicando ai dirigenti che, per quel che riguardava la penale, sarebbe passato qualcuno del Genoa a saldare. Cosa che, incredibile a dirsi, è anche successa, se a stretto giro un dirigente dell’Ostenda, incredulo e riconoscente, ha indetto apposita conferenza stampa per dichiarare che con gli euro in arrivo dall’Italia ci rifaranno la squadra. Due ore dopo, Blessin era a Genova.

Prima ancora che atterrasse, un paio di cose si erano sapute anche su di lui: che ai suoi difensori, attoniti, è uso mostrare un filmato sul comportamento di un branco di lupi, cui i difensori stessi sono pregati di assimilarsi nel più breve tempo possibile. E che ritiene – eccoci finalmente ad Al Pacino, benché lui com’è noto parlasse di centimetri – otto secondi il tempo necessario a fermare un’azione avversaria, e cinque quello richiesto per rilanciare la propria. Ci sarà da divertirsi, anche se non è ancora chiaro in che senso. Agli attuali giocatori del Genoa, otto secondi sono infatti il tempo necessario a ricevere la palla, chiedersi cosa farne e decidere di allungarla al compagno più smarcato nelle retrovie, e dev’essere per questo che la prima foto di Blessin a Pegli lo ritrae, urlante, nell’atto di sollevare da terra Galdames, che di suo rifuggirebbe da forme così ovvie di atletismo. Chi bene inizia, eccetera.

Con otto gol in 1300 minuti di gioco, Mattia Destro è il miglior marcatore stagionale del Genoa; dopo di lui c’è Mimmo Criscito con sei gol, poi Fares con due e otto giocatori con una sola rete (Getty Images)

Da qui in avanti, tutto può succedere – e, essendoci di mezzo il Genoa, anche di più. Forse grazie all’improvvisa latitanza di Zangrillo, quindi alla momentanea vacanza del ruolo di consigliori (Sheva mi chiama anche tre volte al giorno, diceva nei giorni della luna di miele, ha molto bisogno dei miei suggerimenti), Blessin ieri ha messo in campo una squadra che ha offerto, a un pubblico talmente stupefatto da ammutolirsi, lo spettacolo senza precedenti di un team in grado di competere nella categoria.

All’improvviso, insomma, sky is the limit. Certo, resta da verificare l’innesto della mentalità tedesca, corretta dall’estetica Red Bull, sulla città più araba e indolente d’Europa. L’ultima permanenza di elementi germanici a Genova è andata così così, né ci si era lasciati con la promessa di rivedersi. E per quanto metà dei padri fondatori (gli stessi che la domenica scendevano in campo) avesse passaporto svizzero, fin qui la potentissima mitologia del Genoa era cristallizzata su figure in arrivo da oltrelago – come Alberto Stabile, El Filtrador, che nel 1930 sbarca dal Conte Rosso fra due ali di folla, si infila le braghette, e segna una tripletta all’orrido Bologna. Vero, dopo qualche giornata si infortuna in modo gravissimo ed esce di scena, ma la disgrazia è stata fin qui una specie di patentino, per entrare nell’universo rosso e blu. Al cui ingresso, è bene non dimenticarlo, campeggia virtualmente il motto di un suo grande tifoso: Belin, sei genoano e vuoi anche vincere?

Naturalmente noi no, ci mancherebbe. I kraut però com’è noto ci sballano, per vincere, hanno una specie di fissa, cui nel giro di ore abbiamo deciso di adeguarci senza opporre rsistenza. E allora, eccoci qui tutti a studiare il calendario, pensa te, dello Spezia, minacciando di stritolare chiunque ci si parerà davanti col gegenpressing. Ad altre latitudini ci sarebbero legittime ragioni di sconforto, ma alle nostre ci salvano i progenitori inglesi, che ce lo hanno insegnato nel 1893: beggars can’t be choosers.