Benoît Paire ha scritto un manifesto in forma di autobiografia – o viceversa.
Sono due pagine altamente istruttive, e se si riuscisse a estrapolare la frase giusta forse si potrebbe scalpellare all’ingresso del Centre Court, di fianco alla celebre sentenza vittoriana, e vagamente iettatoria, di Kipling («If you can meet with Triumph and Disaster, and treat those two imposters just the same», ndr). O magari sopra. Paire passa per l’ultimo grande maverick del circuito, e non solo lo è, lo è sempre stato. A un torneo giovanile decise, improvvisamente e senza uno straccio di ragione, di non giocare. E dato che il suo allenatore di allora insisteva parecchio, sicuro che sarebbe tranquillamente arrivato in fondo, il giovane Benoît prese le racchette che aveva in dotazione e le distrusse una a una, con metodo. Come dire e adesso vediamo, se gioco o no. Non c’è quindi da stupirsi se anni dopo, appena raggiunta la squadra in ritiro, il suo nuovo capitano di Davis lo chiamò da parte e gli disse, secco: non ti ho neanche visto palleggiare, ma prendi la tua roba e sparisci. Con lo sviluppo non è che Benoît si sia fatto più maturo. In compenso ha una lucidità che in un ambiente così opaco si può anche scambiare per veggenza. A giocare, sostiene, si è sempre divertito (quando non si è tremendamente annoiato, beninteso), e della sua carriera è molto, molto soddisfatto – dopotutto, dice, sono fisso fra i primi trenta, sono arrivato al 18, ho vinto tre titoli ATP, provateci voi. Certo, continua, mi manca uno Slam, ma per portarsi a casa uno Slam bisogna essere una persona diversa da me. Quando vedo Rafa vincere Parigi, e due giorni dopo allenarsi sull’erba, mi chiedo cos’abbia che non va. Io vincessi Parigi partirei per un viaggio, e di tennis ne riparlerei sei mesi dopo. Almeno.
Tutto probabilmente vero. Ma se la vittoria sì, la considera un impostore, con la sconfitta ha un rapporto diverso – e anche col rimpianto. Il più amaro è non essere riuscito a ripercorrere fino in fondo la strada segnata dal suo idolo d’infanzia, Marat Safin. Dei suoi colpi qualcosa sostiene di avere ereditato (ambasciator non porta pena), specie sul lato del rovescio, ma le Safinettes – per chi non le ricordasse, erano le groupie che a ogni vittoria si accalcavano nel box di Marat, in un tripudio di carni esposte – non le ha mai viste neppure in cartolina. E non è stato l’unico incidente, del suo ormai lungo percorso, che sembra ignorare la linea retta. Ora ad esempio sappiamo a cosa vadano imputate le sue ultime due stagioni, una via crucis di partite perse contro giocatori di tre categorie inferiori, abbandoni, multe per scarso impegno: al desiderio di uscire dal campo il prima possibile e rifugiarsi in un angolo protetto, dove estrarre dallo zaino un grosso blocco da artista. Per disegnarci cosa? Dipende, qualsiasi immagine gli ispirasse lo strazio fisico per il suo unico, grande amore perduto. E se ognuna di quelle immagini non fosse diventata subito dopo un tatuaggio, non staremmo parlando di Paire.
Poi dice che uno lo ama – lo credo.
Per quanto mi riguarda ho quasi una venerazione, come credo dimostri il fatto che una sua foto è stata per anni lo screensaver del cinquanta per cento dei miei device. Merito della foto in sé, certo. È stata scattata a Wimbledon ’18, o ’19, e ritrae Paire – la barba dei poilus nei film giusti, ma del resto anche l’immane fasciatura che gli avvolge la gamba sinistra potrebbe essere un ricordo di Verdun – in una delle acrobazie che regolarmente precedono, o seguono, i suoi signature shots, quei colpi impossibili che, cito, nove volte ti fanno passare per il povero sfigato che sei, ma la decima ti spediscono dritto in Paradiso. Se ricordo bene – il match l’ho visto, non so più contro chi fosse ma so per certo di essermi chiesto come diavolo facesse a giocare, con la gamba fasciata così – quella dev’essere stata una delle famose nove volte. Se gli fosse riuscito quello che stava azzardando, e cioè una specie di volée di dritto da dietro la schiena, a un passo dalla rete, il colpo sarebbe finito dritto in tutti i 10 Best Shots Ever che infestano Youtube – e, conoscendone la maggior parte, sono sicuro di non averlo mai visto.
Ma la ragione per cui dovendo spiegare a Paul Atreides cos’è il tennis gli mostrerei questa foto è un’altra, e con Paire c’entra fino a un certo punto. C’entra probabilmente col niente che separa il sublime passo di danza immaginato in sogno dalla sua goffa imitazione eseguita in campo. Quella disarmonia, quella frattura fra il movimento del corpo e il disegno delle righe bianche – e qui, persino delle strisce dell’erba – è infatti la stessa che tortura ognuno di noi straccioni alla fine di un colpo, spiega con una chiarezza scoraggiante perché la pallina non sia andata dove doveva, e disseppellisce da chissà dove la domanda che ogni tennista onesto con se stesso si ripete, in media, due volte alla settimana: perché sono qui? E soprattutto, perché ho un altro campo, dopodomani?
Fra chi gioca per mestiere nessuno, oggi, se lo chiede con la frequenza – se non, ormai, l’ossessività – di Nick Kyrgios.
Una risposta, non risulta l’abbia trovata, ma non si può dire che non la cerchi. Meglio chiarire subito che l’accostamento con Paire ha senso da vari punti di vista, ma non da quello tecnico, il che rende il caso Kyrgios ancora più clamoroso. Quando i pianeti del suo complesso universo interiore si allineano, infatti, Kyrgios è in grado non di battere, di sbriciolare chiunque giochi oggi a tennis, Fab Four o Three inclusi – e del resto, è uno dei pochi a potersi vantare di averlo fatto. Il problema è che stiamo parlando di pianeti cannibali, che nulla è in grado di controllare, e che difficilmente rimangono allineati per più di un paio d’ore: quasi sempre e solo negli stadi principali, inoltre, e dal terzo turno in avanti. Kyrgios l’ha ripetuto non so quante volte, un conto è giocare un primo turno a Tashkent contro il 124 al mondo davanti a 128 paganti più qualche osservatore vagamente interessato, un conto è scendere sull’1 a Wimbledon per un quarto contro Rafa, o meglio ancora contro quel serbo, sì, quello che Nick chiama alternativamente donut o peanut – sempre che decida di tenersi sul leggero. È il genere di dichiarazioni fatte per scuotere dal torpore i cronisti in sala stampa, irritare i burocrati dell’ATP, e strappare commenti a colleghi anche importanti, gli stessi che in genere si astengono dal commentare cose parecchio più importanti. «Siamo un circo, quindi un clown ci serviva», disse persino l’ineffabile Roger a Madrid, nel 2015, dopo aver perso da quello che allora era un ragazzino. Per una volta, tuttavia, il Maestro si sbagliava.
Quando parla, Nick dice cose piuttosto seccanti, ma perché vere. Una, in particolare – che la vita del tennista, privilegi a parte, può essere un lungo, estenuante corpo a corpo con la desolazione. Chiunque a quindici anni non abbia preso – attenzione, storia personale – un locale di seconda classe per portarsi da Genova a Casale Monferrato, non abbia raggiunto a piedi il circolo della ridente cittadina, non si sia cambiato da solo in uno spogliatoio incrostato di fango rosso, non sia sceso in campo racimolando due game in quaranta minuti, e poi non abbia dovuto riavvolgere il nastro al contrario, con la sensazione di non avere trascorso la più fruttuosa e indimenticabile delle giornate, forse non sa di cosa parlo – e soprattutto, di cosa parla Nick. Ma se quello stesso qualcuno crede che un journeyman medio – uno qualsiasi dei tennisti fra i numeri 150 e 500 del ranking – se la passi molto meglio, faccia una volta un salto a quelle cerchie di un inferno minore che sono i Challenger o i Future. Se ne giocano in parecchi circoli italiani e c’è sempre posto – non vanno a vederli neppure i soci. No, Kyrgios è tutto, tranne che un clown. Certo, in campo chiede a uno spettatore a caso dove preferisce che serva (e in genere esegue), intavola fitte conversazioni di carattere intimo con Occhio di Falco (che non per questo recede dalle sue decisioni), e per una partita intera, non molto tempo fa, ha imitato alla perfezione la mimica dell’un tempo imitatore numero uno del circuito, che è poi anche il numero uno del medesimo. Fin qui siamo però nella tradizione di uno spettacolo che ha radici antiche, e che un tempo nessuno si sognava di separare dal tennis, anzi – durante un celebre match degli anni Settanta contro Buster Mottram, un fessacchiotto inglese di simpatie neonazi, Ilie Nastase esibì, a ogni cambio campo, un passo dell’oca praticamente perfetto, facendo venire giù lo stadio.
Posata la racchetta, però, Nick non scherza. Neanche un po’. Da quando la pandemia gli ha regalato una vita perfetta – non dover giocare a tennis, non dover spiegare a nessuno perché, e guardare basket una quindicina di ore al giorno – Nick, alternando canotte NBA a camicie hawaiane – ha cominciato a marcare ancora più stretti i suoi quasi ex compari, non facendogli passare una fesseria che è una, specie nel ramo comportamenti irresponsabili in materia di contagio. Non ha incrementato la sua fanbase, ma in compenso è diventato, chi l’avrebbe mai detto, una specie di coscienza critica del circuito. Se volete intrattenervi sul tema, in un modo spiritoso e intelligente, seguitelo su Instagram. E non alzate troppo il sopracciglio se il posto sembra paradossale – sarebbe un’imprudenza. Tempo fa – non su Instagram, in un’intervista – ha buttato lì che un gruppo di giocatori emergenti guarda caso non bianchi, e non particolarmente rispettosi delle regole, aveva la possibilità di cambiare sul serio il tennis – non nei suoi fondamentali come il punteggio, o i meccanismi del gioco (a riguardo, Nick è ferocemente ostile a qualsiasi innovazione): nelle sue convenzioni più anguste e bigotte. Ma proprio per questo, ha proseguito, i giocatori di cui parlo subiscono pressioni enormi. E chi sarebbero, gli ha chiesto a quel punto l’intervistatore. Oh, non so, ha risposto lui, io (ovvio). Tiafoe. E Naomi Osaka.
La vicenda di Osaka ha scatenato a suo tempo una prevedibile tempesta di OpEd, che invocavano a turno la cacciata dei mercanti dal tempio e l’immediato affidamento della poverina alla Protezione della Giovane – se esiste ancora.
Uno però non riusciva a non chiedersi dove fossero gli opinionisti, fino al giorno prima. I mercanti e il tempio sono la stessa cosa da cinquant’anni, e quanto al tennis in sé, non è uno sport per normotipi – Art Larsen durante i match parlava con l’aquila imperiale che era sicuro gli vivesse sulla spalla, e René Lacoste passava le notti perfezionando i colpi davanti allo specchio della camera d’albergo. In tutto quel baccano, fra l’altro è andata perduta la voce dell’interessata, che peraltro nessuno sembrava avere mai ascoltato prima. La povera Naomi si è infatti ritirata nel maggio del ’21 dal Roland Garros, e subito dopo da Wimbledon, spiegando ancora una volta cose che ripeteva dall’inizio della carriera in ogni conferenza stampa – almeno, in quelle in cui riusciva ad alzare gli occhi dal tavolo, e a non ridere fra sé e sé chissà di cosa: che giocare a tennis per lei non era precisamente un piacere, ad esempio, o che della partita appena vinta non ricordava quasi niente, perché la testa le era partita in tutt’altra direzione. Sembravano stravaganze di una giovane donna che stravagante indubbiamente lo è, non fosse che, anche qui, erano qualcosa di diverso.
Il disagio di Osaka avrà il nome che i suoi medici decideranno di dargli, ma intanto quest’anno, in una delle rarissime occasioni in cui abbia aperto uno spiraglio su quello che sta vivendo, lei se ne è uscita con una frase semplice, atroce e definitiva. Non riesco più a giocare, ha detto Osaka, perché per me vincere ha smesso di essere una gioia. È diventato, al massimo, un sollievo. Ecco, a volte non serve farla tanto lunga, no? Il tennis è uno sport difficilissimo da sopportare, perché è difficilissimo da capire: si gioca e si decide nell’infinitamente piccolo che separa il mestierante dal GOAT, in una zona buia dove le grandi narrazioni convenzionali – il recente docudrama su Mardy Fish, ad esempio, o se per questo anche Open – non riescono a spingersi. E per molti quella zona, alla fine, risulta inabitabile.
Non per Ivo Karlovic. A quarantadue anni, Ivo continua a giocare.
Quest’anno gli è andata così così – è 232 del ranking, al momento, e anche il prize money piange, essendo fermo a 125.000 dollari e rotti. Ma non importa. Nel disinteresse generale, Ivo si fa i suoi Challenger e ogni tanto le qualificazioni dei grandi tornei, dove ancora gli capita di passare un turno o due. Serve sempre intorno ai 220 orari, e il settanta per cento dei set che gioca finisce ancora 7-6. Il suo problema continua a essere trovare qualcuno che si alleni con lui. Nessuno può mai, e mentre le caselle del tabellone apposito si riempiono una a una, la sua rimane vuota. Niente di personale – Ivo è un vecchio ragazzo adorabile e anche molto spiritoso – solo, chi mai ha voglia di passare quaranta minuti a subire servizi che neanche vede partire?
Così, Ivo continua ad arrangiarsi con gli sparring, ma c’è abituato. Com’è abituato al resto: agli orari che gli assegnano (il primo mattino, o le vicinanze del crepuscolo), al campo su cui lo mettono (uno qualsiasi, dal 18 in su) e agli spettatori che lo seguono (sei o sette immigrati croati, più una ventina di disgraziati col biglietto del ground che non hanno trovato posto altrove). Ma non gli importa. Ivo trascina i suoi due metri e dieci in campo, comincia a servire, e finché ce la fa segue a rete – sempre che di là qualcuno risponda. Per una quarantina di minuti, vince il game in cui serve, e perde quello in cui serve l’altro – che chiunque sia, non avendo modo di giocare, sembra non avere neanche un nome. Prima o poi, però, Ivo commette un doppio fallo, o due, subisce un break. Il set è andato, senza che ci sia modo di recuperarlo. Ma neanche questo importa. La partita, almeno per un’altra ora, continuerà. E comunque, la settimana prossima ce ne sarà un’altra, in uno scenario più o meno identico. Non c’è niente da ridere, e neanche da piangere. In fondo è solo il tennis, nella sua versione più pura.